Nell’autunno del 1274 i mongoli guidati da Kublai Khan invadono l’isola nipponica di Tsushima dando il via, almeno nelle intenzioni, all’invasione del Giappone. È questo l’evento storico che fa da sfondo alle avventure di Jin Sakai, il samurai protagonista di Ghost of Tsushima. Un evento realmente accaduto trasposto magistralmente in forma videoludica dai ragazzi di Sucker Punch, che sono riusciti a raccontare un conflitto interiore, quello di un samurai, sullo sfondo di un conflitto ben più grande, quello in corso nell’isola, in un lungo viaggio di redenzione interiore e di liberazione esterna dagli invasori.
Ma non è tanto per la storia, semplice quanto appassionante, che sarà ricordato Ghost of Tsushima, e neanche per il combat system, uno dei più divertenti e al tempo stesso profondi nel panorama videoludico odierno, quanto per il cuore con cui il progetto è stato sviluppato. Partire al galoppo mentre il vento accarezza gli steli l’erba in un turbinio di foglie nell’aria, duellare al tramonto in un tripudio di colori, rilassarsi e comporre haiku mentre si osserva la natura, Ghost of Tsushimaè realizzato con un amore e un rispetto verso la cultura nipponica ammirevoli. Per comprendere la filosofia del progetto nella sua interezza, dobbiamo necessariamente fare una piccola digressione storica e tornare al tempo di un Giappone che ormai non esiste più, ma rivive continuamente nell’immaginario collettivo di ogni appassionato.
Il contesto storico
Come detto, siamo nella fine del XIII secolo, più precisamente nel 1274. Così come accadeva nell’occidente medievale, anche il Giappone all’epoca era suddiviso in numerosi feudi amministrati dai signori locali, i Daimyō. Questi erano alle strette dipendenze della più alta carica militare nipponica, lo Shōgun, letteralmente il “Grande Generale dell’Esercito che sottomette i barbari”, titolo che veniva inizialmente conferito direttamente dall’imperatore per meriti sul campo, acquisendo solo in seguito il diritto di successione ereditaria.
È in questo contestano che entrano in scena le leggendarie figure dei Samurai, i nobili guerrieri del periodo feudale giapponese al servizio appunto dei Daimyō e degli Shōgun, simili per molti aspetti ai cavalieri dell’Europa medievale. Esperti nell’uso della katana, l’iconica spada ricurva celebrata in tante opere storiche e contemporanee, così come dell’arco e della lancia, i samurai erano rigidi seguaci del Bushido, un codice etico analogo al codice cavalleresco europeo, votato alla fedeltà assoluta verso il proprio padrone, al coraggio ed all’onestà.
E all’onore, al punto che un atteggiamento disonorevole in battaglia, una grave violazione del codice etico o la sola separazione dal proprio Daimyō potevano condurre il samurai a praticare una forma di suicidio rituale purificativo noto come seppuku (o harakiri, come forse conosciuto ai più).
Se all’interno il Giappone si era dato un’organizzazione solida, fuori dai confini il popolo nipponico stava per conoscere sulla propria pelle l’espansione di uno dei più grandi imperi che la storia ricordi. L’impero mongolo, al tempo, si estendeva in tutta l’Asia fino all’Europa Orientale, tanti i paesi sottomessi al loro dominio e resi tributari, innumerevoli gli eserciti sconfitti e massacrati sul campo, come monito per gli altri popoli. La stessa sorte, nelle intenzioni dell’impero guidato da Kublai Khan, celebre condottiero e nipote del ancor più famoso Gengis, doveva toccare anche al Giappone, già destinatario anni prima di una richiesta ignorata di sottomissione.
Quella mongola, al tempo era una potente macchina da guerra, forgiata dalle lotte di espansione in Cina e nei Paesi confinanti, famosa e temuta in particolare per la sua cavalleria e per l’utilizzo in guerra della polvere da sparo, impiegata nello sviluppo delle prime bombe rudimentali. I mongoli, forti di politica aggressiva ed espansionistica, peccarono tuttavia di presunzione, sottovalutando sia il periodo stagionale scelto per l’invasione – la stagione dei taifū – che la loro impreparazione in campo navale: sbarcato nella baia di Hakata e conquistata la città, l’esercito del Khan cadde vittima di un terribile tifone, che danneggiò la flotta mongola e ne ridusse sensibilmente le unità, constringendolo alla ritirata. Una sorte avversa per i mongoli, che si ripetè sette anni dopo, nel corso di una seconda invasione, un evento tanto naturale quanto provvidenziale per i giapponesi, tanto da meritarsi il nome di kamikaze, ovvero “vento divino”, appellativo destinato a cambiare accezione nel corso dei secoli, come ben noto.
Lo sbarco principale delle forze mongole avvenne sulla spiaggia di Komoda vicino a Sasuura, sulla punta nord-occidentale dell’isola meridionale; è proprio qui che ha inizio il racconto di Ghost of Tsushima, il primo scontro che ci vede protagonisti come ultimo baluardo della resistenza. Dalla cime di un’altura, l’epica carica a cavallo contro l’esercito invasore ha un destino nefasto, siamo uno dei pochi a sopravvivere e a toccare con mano la brutalità dell’esercito mongolo e del suo condottiero, Khotun Kahn, nipote – questo sì, finzione – del celebre Kublai. È così che ha inizio il lungo viaggio di redenzione e liberazione di JinSakai, e del nostro.
Il conflitto interiore
“Quando combattiamo, fronteggiamo i nemici a testa alta. E quando togliamo loro la vita, li guardiamo negli occhi. Con coraggio e rispetto. È questo che ci rende Samurai.”
Lord Shimura
Ovviamente non fu solo merito del “vento degli dei” a decretare le sconfitte dell’esercito mongolo, anche se per anni il presunto intervento divino rimarcò con forza la posizione di un Giappone visto come popolo “eletto”, unico nel panorama orientale, ma anche – e soprattutto – della forte coesione militare delle forze giapponesi, riunite sotto uno degli shogunati più forti della storia, quello Kamakura. Il confine tra mito e realtà è sottile, sta di fatto che la portata dell’impresa nipponica è ancora più grande se si analizza lo stile di combattimento proprio dell’ordine dei samurai, guerrieri specializzati nello scontro individuale e nella dimostrazione del proprio valore, di fatto poco efficaci contro un esercito – quello mongolo – dotato di esperti e spietati combattenti a cavallo, supportati da arcieri pronti a colpire nella mischia e da catapulte che lanciavano palle infuocate in grado di provocare gravi ustioni.
È in questo scenario tanto epico quanto drammatico che si inserisce la figura di Jin Sakai e del suo conflitto interiore. Se si tratta di pura licenza poetica la liberazione dell’isola da parte di un singolo samurai, come narrato negli eventi di Ghost of Tsushima, è innegabile che affrontare nemici così diversi e lontani dalla propria concezione di arte del combattimento, abbia portato i Samurai a mettere in discussione i principi saldi e immutabili del Bushido. Jin Sakai, soverchiato nel numero e armato solo della sua katana è costretto a ricorrere a metodi più subdoli, come attaccare alle spalle i soldati mongoli o sfruttarne le armi “poco onorevoli” come le bombe fumogene, per riuscire a prevalere; è in questi momenti che si percepisce la lotta interiore nella mente e nello spirito del protagonista, che è costretto a venir meno al suo essere samurai per poter vincere un nemico all’apparenza imbattibile. Questo conflitto interiore è di fatto la scintilla che lo porterà, nel corso degli eventi, a rinnegare il suo credo e le sue origini e diventare “lo spettro di Tsushima.”
L’animo di Jin è diviso e in costante conflitto, come pure la sua arte: in lui coesistono due guerrieri, il samurai e lo spettro, o meglio, lo shinobi. Anche se l’ambientazione storica è precedente, Ghost of Tsushima attinge a piene mani anche dal periodo Sengoku, letteralmente “periodo degli stati belligeranti”, un’epoca di forti conflitti feudali e di instabilità politica interna che si è protratta ininterrottamente dal 1467 al 1603. Ecco che le armature, bellissime, che possiamo ammirare nel gioco si rifanno storicamente più a quelle del tardo XVI secolo e al celebre cinema di Akira Kurosawa – che approfondiremo poi – che a quelle dell’effettivo periodo storico dell’invasione; possiamo padroneggiare arti e stili non propriamente da samurai, ma tipiche di un’altra figura “mitica” dell’immaginario collettivo nipponico, quella degli shinobi, meglio conosciuti in occidente con il nome di ninja. Protagonisti indiscussi del periodo Sengoku, gli shinobi erano delle vere proprie spie mercenarie al servizio dei vari signori feudali; ritenuti inferiori e “disonorevoli” dalla casta dei Samurai, erano di fatto dei killer a sangue freddo, abili conoscitori delle arti marziali, sottoposti a durissimi addestramenti che gli conferivano, oltre alle abilità di combattimento e furtività, una straordinaria resistenza fisica e capacità di adattamento alla sopravvivenza in situazioni spinte al limite.
Abili e letali ma, come detto, “disonorevoli” nei loro metodi di approccio. Il dilemma interiore di Jin viene ribaltato di fatto nel giocatore: Ghost of Tsushima non costringe mai ad una scelta netta ma lascia sempre massima libertà di approccio, facendo intuire tuttavia quale sia la via da seguire; da un certo momento in poi nella trama l’approccio stealth sembra quasi forzato, quasi a voler rimarcare il suo essere contro natura, privilegiando lo scontro a viso aperto, di gran lunga più appagante e spettacolare.
Duelli e poesia
I samurai erano uomini d’arme, combattenti fieri e onorevoli, ma anche uomini di una cultura sempre più raffinata. È affascinante pensare a questi grandi guerrieri sul campo di battaglia come uomini dediti alla poesia e alle arti visive nella loro sfera privata, curate con la stessa filosofia insita nel proprio ordine. Ghost of Tsushima, nella sua eccellenza artistica, riesce a rendere omaggio anche a questo, creando di continuo un’atmosfera in grado di ammaliarci con dei paesaggi visivamente incredibili, tali da incitarne l’esplorazione. E cavalcando per boschi e praterie capiterà non di rado di imbattersi in uccelli dorati dettano la via; seguendoli, possiamo giungere, tra gli altri luoghi, a dei piccoli altari di fronte ai quali si aprono panorami suggestivi; e dove possiamo comporre gli haiku, una delle più semplici e sincere forme di poesia giapponese.
Gli haiku sono dei brevi componimenti poetici composti da tre versetti, sviluppatisi in Giappone a partire dal XVII secolo. Componimenti dell’anima, che raccontano le emozioni delle stagioni, della precarietà dell’uomo e della magia della quotidianità, in Ghost of Tsushima potremo concederci una pausa dalla battaglia per rilassarci innanzi a un paesaggio armonioso e silente, per riflettere sul senso di quanto vissuto fino a quel momento.
O magari, nel nostro peregrinare potremo imbatterci nei torii, i portali rossi tipici della religione shintoista che costellano la lunga salita fino al relativo santuario. I santuari Shinto – jinja è il termine giapponese – in Ghost of Tsushima sono costruzioni erette in nome della Via dei Kami, gli oggetti sacri dello shintoismo, religione che permea la vita quotidiana di Tsushima, le sue tracce si scorgono ovunque. Raggiungerli non è immediato e si devono affrontare scalate impervie; situati in genere in cima a dirupi, rappresentano dei veri e propri luoghi di pace e silenzio, una sorta di pausa videoludica dal ritmo frenetico dei combattimenti, come lo sono di fatto questi luoghi nella realtà, ancora oggi.
Continuiamo a cavalacare, e all’ombra di alberi dalle fronde dorate incontriamo simpatiche volpi che ci accompagnano a santuari dedicati a Inari, divinità del riso, dell’agricoltura e della prosperità. A sud di Kyoto si trova il monte Inari, considerato fin dall’antichità come uno dei luoghi più sacri di tutto il Giappone: qui sorge il celebre tempio dedicato proprio all’omonimo kami, cui si accede con una lunga salita costellata, appunto, di torii. I santuari dedicati a Inari, in Ghost of Tsushima, sono piccole costruzioni votive di pietra la cui scoperta ci ricompensa con uno slot per indossare particolari amuleti. Il viaggio nel simbolismo nipponico prosegue, dal momento che i kami giapponesi – venerati come portatori di buona fortuna e di aiuto per gli esseri umani – hanno tra gli altri il potere di fornire protezione e potenza tramite, appunto, degli amuleti – gli omamori – supporti di legno intrisi dallo spirito delle divinità Shinto.
E come non citare i racconti mitici, delle vere e proprie quest che ci ricompensano con lame e armature uniche, leggendarie. Qui la fantasia degli sviluppatori abbraccia la mitologia nipponica, e non di rado troveremo riferimenti neanche troppo velati a leggende tipiche del folklore giapponese o a personaggi realmente esistiti; penso ad esempio alla quest “Le sei lame di Kojiro”, omaggio al celebre spadaccino del tardo periodo Sengoku. Oltre ad abbracciare aspetti della cultura nipponica, sono di fatto le quest più belle e coinvolgenti, e regalano duelli finali ambientati in location uniche e suggestive, dal tramonto in un turbinio di foglie autunnali all’ombra di ciliegi ricurvi che inondano di petali rosa l’arena di scontro.
Un viaggio di redenzione, e di scoperta
Ed eccoci, infine, che ci ritroviamo senza quasi accorgercene, a completare la main quest del gioco; restano diverse missioni secondarie sparse per la mappa, non poi così tante in fondo: vista la bellezza e la spettacolarità del sistema di combattimento e la gioia dell’esplorazione che ci infonde il gioco, a questo punto ne avremo già affrontate un bel pò. Quella che resta davvero, nitido e tangibile, è la gioia della scoperta: raramente un videogioco riesce a divertire e a insegnare qualcosa; Ghost of Tsushima ci riesce alla grande, perché da amante della cultura nipponica è stato come giocare sopra un libro aperto di storia. Il gioco regala tanto, tanto in termini di intrattenimento quanto in quello di immersione in una cultura, un folklore, tradizioni e stile – restando in ambito videoludico, in una parola, lore – mai sbattuta in faccia al giocatore, ma dosata costantemente e delicatamente, della cui bellezza è impossibile restarne indifferenti.
Il gioco inoltre offre, in maniera totalmente opzionale, anche una piccola chicca: una modalità di gioco con un particolare filtro in bianco e nero, omaggio al cinema di Akira Kurosawa e all’influenza che le sue opere cinematografiche hanno avuto nella realizzazione del progetto videoludico, soprattutto suoi primi film di samurai, come Sanjuro e Seven Samurai. Questa modalità è molto di più di un semplice filtro in bianco e nero: il team ha fatto di tutto per ottenere i livelli di bianco e nero giusti e fedeli, ma non solo; Sucker Punch ha cercato le fonti più antiche per emulare il suono e la qualità visiva di quei vecchi film sui samurai. Questa modalità, la Kurosawa mode, ha richiesto, oltre al permesso ufficiale della Kurosawa Estate, un attento studio e lavoro da parte degli sviluppatori e, va ribadito, si tratta di un elemento puramente accessorio, totalmente ignorabile ai fini della trama e della fruizione del gioco. Altra, ulteriore, dimostrazione di quanta cura artistica Sucker Punch abbia riposto in questo titolo.
Tutto questo è Ghost of Tsushima, un gioco che non verrà certo ricordato come il massimo esponente della generazione di PS4 e PS4 Pro, ha certamente i suoi difetti, tra tutti quello di non offrire nulla di nuovo in termini di meccaniche di gameplay da open-world, ma che sa offrire tanto dal lato artistico e dei contenuti, regalando atmosfere uniche e uno sguardo d’insieme su di una cultura affascinante e un periodo storico così lontano dalla nostra visione storica.
Un titolo che lascerà un ricordo indelebile in quanti sapranno concedergli un’occasione, perché quando le cose vengono realizzate con amore lasciano sempre un segno nel cuore di ogni appassionato e non.
Dunque, vediamo: quali sono i cliché più comuni delle serie TV americane?
Innanzitutto, la giusta location che fa da sfondo all’intera vicenda: in genere, si opta per una piccola e tranquillacittadina, perfetta ma solo all’apparenza, spesso con un sottobosco fitto di misteri e oscuri segreti. Ovviamente non può mancare una bella High School, quella in cui tutti noi avremmo voluto passare gli anni delle superiori, ricca di attività extracurricolari, con l’immancabile squadra di football piena di bellocci supportata da altrettanto attraenti e provocanti cheerleaders, tutti in piena esplosione ormonale.
Di certo un locale iconico, stile anni ’50 con un nome tipo Pop’s, con l’immancabile insegna al neon e annesso proprietario/peluche, dove sorseggiare un buon milkshake dopo la scuola; un gruppo di protagonisti simpatici e ben assortiti, in termini etnici, di estrazione sociale e di orientamento sessuale – tranquilli perché, restando in tema di cliché e stereotipi, Riverdale non ci farà mancare davvero nulla! Direi che come base di partenza ci siamo.
Poi cos’altro? Si ovvio, una serie di misteri da risolvere, dal suicidio-che-diventa-omicidio di un compagno di scuola subito al pronti-via della prima stagione, al misterioso serial-killer della seconda, magari uno con un soprannome bizzarro tipo Black Hood o che so io, che semina terrore tra i banchi di scuola, così i nostri eroi – mica la polizia – possono indagare e svelare le inquietanti e, di solito, surreali motivazioni che lo spingono a perpetrare i suoi efferati delitti.
Forse una gang, ma si, mettiamoci anche una gang, meglio se una banda di riders con un tatuaggio distintivo e giubbotto di pelle, tanto per enfatizzare ancora meglio che siamo in una serie made in USA; un bel gioco di ruolo da tavolo stile medievale alla Dungeons & Dragons o, se preferite, Gryphons & Gargoyles, giusto per celebrare la fantasia dei produttori; un momento…ma cosa c’entra un Gioco di Ruolo in tutto questo? Ma sì dai, chi se ne importa, mettiamocelo che è figo e ci giocano tutti.
Cosa manca? Ad occhio e croce, direi una setta invasata da una qualche forma di cattolicesimo deviato – ebbene si, c’è anche questa – , una famiglia gotico-folle-rosso vestita dedita alla produzione dello sciroppo d’acero nella sua tetra magione, in effetti sembra quasi uscita da Twilight; ovviamente l’FBI che infiltra improbabili agenti in incognito per svelare misteriose attività illecite che di fatto conosce pure il bidello della scuola; un boss, in stile Don Vito Corleone del terzo millennio, super palestrato-figo-schifosamente ricco e, ovviamente, cattivissimo – ma non così tanto in fondo, dai… – con la sua innocente e attraente figlia che, dall’alto della sua incorruttibile moralità, per distaccarsi dalle losche pratiche del padre decide di gestire un club privato in pieno stile noir con musica dal vivo, cocktail per minorenni e, perché no, qualche serata dedicata al gioco d’azzardo – ovviamente – non legalizzato.
Ecco che la ricetta della super serie americana full-cliché è servita. Ah no, in realtà mancherebbero ancora un bordello nascosto in bella vista, qualche incontro truccato di pugilato, una puntata a tema Halloween con tutti i luoghi comuni del genere che vi possano venire in mente, intervallata magari ad una in stile musical e poi ancora…anzi no, non mi dilungherò oltre tanto ormai lo avrete capito…c’è di tutto, e anche di più, in Riverdale.
Diventata una serie cult in breve tempo, Riverdale racconta le storie di quattro amici sullo sfondo di una cittadina fittizia americana, che da il nome alla serie, solo all’apparenza perfetta, con nuovi e inquietanti misteri da risolvere stagione dopo stagione che fanno da filo conduttore ad una trama principale che si intreccia indissolubilmente con le vicende personali dei nostri protagonisti, le quali spesso fungono proprio da elemento risolutore degli eventi. Questo è Riverdale, almeno a prima vista e senza scalfire troppo la superficie, perché in realtà c’è molto di più sotto il variopinto velo intessuto dagli sceneggiatori.
Riverdale è un colorato e delirante affresco sulla cultura pop americana dei nostri giorni; per quanto esasperata, senza senso, assurda e piena di cliché possa sembrare, e in realtà sia, Riverdale è una serie che riesce a catturare e stupire – in positivo e a volte in negativo – lo spettatore. Questo a prima vista scellerato mix di teen mystery-dark-gotico-musical-noir-gdr messo in piedi dai suoi creatori riesce a regalare l’esatto intrattenimento per il quale è stato concepito, ovvero quel “di tutto un pò” leggero e spensierato con i suoi momenti da ricordare. C’è un pò di tutto in Riverdale, una città piena di stereotipi ma anche tanta autoironia, temi seri trattati quasi sempre con quella leggerezza tipica e propria dei teen drama; tutto sembra sempre un qualcosa di già visto, eppure tutto è nuovo o raccontato con sfumature diverse; un episodio assurdo termina e ne inizia un altro ancora più fuori di testa, come in un ottovolante fuori controllo e si finisce per divorare una puntata dopo l’altra.
Perché si, al netto di tutto il delirio che vivremo a Riverdale, è onestà intellettuale riconoscerne i pregi. Innanzitutto, va dato merito al cast e ai suoi quattro protagonisti principali.
Partendo dal bello di turno, ArchieAndrews, o “Archie-bello” per le amiche, o se volete il “rosso paladino” per i giocatori di G&G, uno splendido KJ Apa nell’interpretazione e nella presenza scenica; il bravo ragazzo cresciuto tra scuola e cantiere con l’amorevole padre appaltatore (l’indimenticato Luke Perry), leader della squadra di football, cantautore e oggetto dei desideri femminili di mezza scuola, sempre pronto a difendere i più deboli e a sacrificarsi per i suoi amici. È innegabile che molta della fortuna ottenuta dalla serie sia merito suo, e dei suoi addominali.
Restando in tema di cliché, ecco la classica ragazza della porta accanto, la bionda, intelligente e tormentata Elizabeth “Betty” Cooper (Lily Reinhart).
Diciamo solo che la nostra povera Betty dovrà fare i conti con una famiglia piuttosto “problematica, e con un lato oscuro che emergerà poco a poco nel corso delle stagioni, così come la sua inclinazione innata alle indagini e alla risoluzione dei principali misteri di Riverdale. Un personaggio bello, intrigante, acuto e profondo, non manca davvero nulla alla biondina amata da tutti (o quasi).
E non manca di certo la facoltosa ragazza di città, direttamente da New York City la solo all’apparenza snob VeronicaLodge (Camila Mendes); un cognome ingombrante, il fardello di essere la figlia di Hiram Lodge (Mark Consuelos) uno degli uomini più ricchi e spietati della città, la nostra Ronnie sarà spesso divisa tra il suo Archie e gli “affari di famiglia”, non solo lato paterno ma anche materno, quello dell’incantevole Hermione (Marisol Nichols) in un continuo scambio di colpi bassi e vendette attinte a piene mani dai classici del genere mafioso, qui trattate con la giusta leggerezza e autoironia. Un personaggio che parte in sordina, ma emerge con forza nel corso degli episodi, tanto da prendersi spesso da sola letteralmente la scena.
Per giungere all’eroe solitario Jughead Jones o, semplicemente, JJ (Cole Sprouse) probabilmente, al netto di tutto – e di “Archie-bello” – il vero anello di congiunzione della serie, nonché narratore in terza persona di tutti gli eventi di Riverdale. Cresciuto assieme al padre F.P. Jones (Skeet Ulrich) tra le fila dei Serpents, la gang di motociclisti di Riverdale, non ha mai rinunciato alla sua passione per la scrittura ed è proprio attraverso le sue parole, dal suo punto di vista, che vivremo gran parte delle storie raccontate in Riverdale. Senza dubbio, uno dei personaggi più interessanti e meglio caratterizzati della serie.
Sono loro, i nostri quattro eroi, a reggere il “peso” del racconto – o delle deliranti storie raccontate, se preferite – risultando sempre sul pezzo, bravissimi a recitare e ancor di più a cantare quando chiamati in causa; per inteso, ci sono alcune puntate in stile musical nell’arco delle stagioni che sono davvero ben dirette e coreografate, squisitamente godibili, a patto ovviamente di non provare totale repulsione per il genere.
E la formula, al netto di qualche inciampo o buco di trama, e di qualche soluzione liquidata un pò troppo frettolosamente, funziona discretamente bene. Diciamocelo pure, in fondo è impossibile non empatizzare con “Archie-bello” o con Betty, personaggi tanto buoni quanto “sfortunati” nelle loro vicissitudini familiari e non, sempre pronti a fare la cosa giusta ma loro malgrado spesso costretti a fare i conti con il proprio lato oscuro.
Non mancano di certo altre caratterizzazioni interessanti, ogni personaggio ha una propria parabola di crescita-declino e rinascita, come quella di F.P. Jones, il padre di JJ, vero esempio di uomo della strada che riesce a farsi da solo e prendersi una posizione di rispetto.
Ok, siamo a celebrare la rappresentazione dell’ennesimo, stra-abusato, cliché americano; ma in fondo va bene così, ci sono cose che Riverdale fa bene e va apprezzato anche per questo.
E spezziamo pure una lancia in favore di Cheryl Blossom (Madelaine Petsch) capo cheerleader e ultima discendente della stirpe dei Blossom – i rossi di Riverdale – in un’interpretazione talmente riuscita da rendere il suo personaggio uno dei più iconici ed irriverenti della serie, capace solo lei sa come di suscitare inquietudine e seduzione nell’arco della stessa scena.
Ma c’è di più, c’è anche spazio per l’ultimo saluto ad uno dei simboli della mia – nostra – generazione; perché la puntata-commiato dedicata a Luke Perry (Fred Andrews nella serie, il padre di Archie) è senza dubbio uno dei momenti più intimi e toccanti della serie, il cast per una volta non ha dovuto recitare affatto, il dolore per la perdita era così tangibile da infrangere la quarta parete; e, concedetemi lo spoiler, che bello rivedere Shannen Doherty (alias Brenda di Beverly Hills) partecipare all’episodio commemorativo di quello che è stato il suo grande amore nella ricordata e indimenticata serie anni ’90.
Succedono cose strane a Riverdale, una puntata sembra catapultarci in Tredici, quella seguente in Le Terrificanti Avventure di Sabrina, a tratti pensiamo di essere tra i banchi di scuola di Élite o Dawson’s Creek per poi ritrovarci improvvisamente in Stranger Things o in chissà quale altra serie vi possa venir in mente durante la visione. E come non citare il padre di tutti i teen mystery moderni, ovvero Scream il film cult anni ’90 di Wes Craven, che ha ispirato fortemente tutte le serie adolescenziali con sfumature che vanno dal thriller all’horror slasher, e influenza in maniera tangibile il rimo e le atmosfere della serie. Riverdale attinge dovunque, ma lo fa ragionevolmente bene, celebrando il citazionismo a livelli quasi tarantiniani: non manca episodio in cui non vengano richiamati almeno un paio di film-serie TV-personaggi iconici del cinema, e non di rado ci capiterà di assistere a intere scene che “scimmiottano” le loro celebri controparti cult, che sia un Pulp Fiction piuttosto che un Rocky. Insomma è quasi tutto un déjà vu, superficialmente almeno, perché per quanto spensierato e a tratti quasi ridicolo, il tutto finisce sempre per funzionare maledettamente bene e a tenere incollato lo spettatore ancora per una una puntata, per la serie: “ma dai, è troppo assurdo, l’ultima puntata e poi smetto”. E la verità è che non si smette più.
Penso di aver detto tutto, e non aver spoilerato “quasi” nulla; anzi, in verità ancora un paio di cose vanno dette. La prima, una curiosità: Riverdale non è una serie originale, bensì è ispirata ai fumetti dell’editore Archie Comics che ha tra i protagonisti proprio tutti i personaggi della serie; e non è del tutto male come referenza. La seconda, un consiglio: fatevi un favore e guardate la serie in lingua originale, risulterà decisamente più appagante in termini immersivi e non vi troverete in imbarazzo durante le scene in cui si passa dal recitato al cantato; tra l’altro, le interpretazioni del cast sono decisamente sopra lo standard.
Pur non essendo propriamente il mio genere, e nonostante abbia più volte paventato l’idea di abbandonarla, in realtà continuo tuttora a seguirla – le ultime puntate della quinta stagione in Italia usciranno in estate, e poi chissà cosa – e in fondo sì, devo ammetterlo, tutto sommato mi sta divertendo. Il mio consiglio è semplice: guardatela. Se non avete niente di meglio da fare, o se dopo questo lungo e interminabile anno di restrizioni avete praticamente completato il catalogo Netflix. Guardatela, a cuor leggero, spensierati e senza grandi aspettative, ma guardatela. In fondo basta non prenderla troppo sul serio, Riverdale è solo un grande e colorato delirio, ma tutto sommato ne vale la pena.
Ok, non è una novità: questo è il periodo dell’anno storicamente più “fiacco” dal punto di vista videoludico. Se poi ci aggiungiamo il fatto che le console old-gen sono di fatto arrivate a fine ciclo e le nuove non ingranano per mancanza oggettiva di titoli – e delle console stesse – ci troviamo in una fase di stallo che, da un lato, ci consente di recuperare magari qualche titolo già uscito che non siamo riusciti a goderci per mancanza di tempo o interesse, dall’altro ci solletica a fantasticare su quello che vorremmo vedere girare sui nuovi hardware.
Tralasciando il discorso dei “remake” che si spera non diventino un’abitudine, triste specchio di mancanza di idee originali sul tema, la nuova generazione sarà destinata ad essere ricordata come quella dei sequel lungamente attesi. Certo, di nuove IP ne vedremo, ma non saranno poi così tante, con buona pace di noi videogiocatori; e mi sento pure di comprenderlo. La questione è molto semplice: ideare, sviluppare e produrre un videogioco tripla A oggi è un investimento da non sottovalutare, in termini di tempi, costi e risorse; se pensiamo che un titolo come The Last of Us: Parte 2 ha richiesto oltre 2000 sviluppatori, la collaborazione di ben 13 studi di sviluppo ed è costato la cifra capogiro di 500 milioni di dollari – di fatto come una produzione cinematografica di alto livello – ecco che la risposta all’ipotizzata assenza di nuove IP è ben servita. Avventurarsi in territori inesplorati, col rischio di non catturare una vasta fetta di utenza, di non generare il giusto appeal e, soprattutto, di non coprire i costi di produzione richiesti, è una strada oltremodo pericolosa che sempre meno aziende vorranno percorrere; anche perché, diciamocelo, non tutti i giochi tripla A sono destinati a vincere 280 premi e a stracciare ogni record di vendite, come il già citato capolavoro di Naughty Dog.
Ecco quindi che lo sviluppo di sequel di quei titoli che già sono entrati nel cuore di milioni di appassionati sarà la strada maestra, la stella polare di questa nuova generazione; asset, storie e personaggi già sviluppati, pronti per essere ulteriormente approfonditi e con nuove dinamiche da introdurre, sfruttando le promesse e le meraviglie di motori grafici come l’Unreal Engine 5, delle cui vere potenzialità solo tra qualche anno potremo parlarne con cognizione di causa.
Ma quindi, quali sono i miei sequel più attesi di questa next-gen? Mi sono divertito a stilare una breve classifica in ordine personale di hype; in realtà è poco più di un podio esteso, i 5 titoli che aspetto con più ansia e trepidazione di giocare sulle nuove piattaforme. Pochi titoli, ma dannatamente buoni. Almeno si spera.
5. Ghost of Tsushima 2
L’ultima esclusiva per PS4 ha sicuramente lasciato un segno, in positivo e in negativo. Da un lato, infatti, ci siamo ritrovati tra le mani il classico open world 1.0, con le sue dinamiche di gameplay consolidate negli anni e che sanno di già visto, l’ormai stantia struttura narrativa scomposta tra missioni principali e secondarie, ripetitive e stancanti sul breve periodo, al netto di qualche guizzo interessante. Dall’altro lato tuttavia, quasi inaspettatamente, dobbiamo riconoscere la passione con cui i ragazzi di Sucker Punch hanno reso omaggio al Giappone, alla sua cultura e alla sua storia. E non stiamo parlando di una storia dal respiro epico – che, anzi, gradiremmo avere in un possibile quanto sperato sequel – ma della cura riposta nei piccoli dettagli, in quei elementi secondari e minimali che però contribuiscono a catturare il videogiocatore e ad immergerlo nel mondo pensato dagli sviluppatori.
Partire al galoppo mentre il vento accarezza gli steli d’erba in un turbinio di foglie nell’aria, duellare al tramonto in un tripudio di colori, rilassarsi e comporre haiku mentre si osserva la natura, Ghost of Tsushima è realizzato con un amore e un rispetto verso la cultura nipponica ammirevoli. Per non parlare del combat system; anzi, ne parliamo, perché se c’è un elemento in cui Ghost of Tsushima eccelle veramente è proprio il sistema di combattimento. Presentato come un evoluzione dell’ormai abusato e inflazionato “freeflow” che ha reso celebri i vari Batman Arkham e derivati, è in realtà molto più profondo e sfaccettato di quanto possa apparire a primo acchito, e per comprenderlo a pieno nelle sue molteplici dinamiche e opportunità bisogna provarlo e metabolizzarlo. Il risultato è che non ci si stanca mai di combattere in Ghost of Tsushima: sebbene il gioco offra anche tutta una serie di abilità per approcci stealth, si è portati ad ignorarli totalmente per gettarsi nella mischia ogni volta che si ha l’occasione. Il combat system è sicuramente il pilastro attorno al quale costruire il secondo capitolo, così come una direzione artistica che regala scorci e momenti indimenticabili in giro per l’isola.
Dunque, cosa vorremmo vedere migliorato in un ipotetico sequel? Di certo la storia, e non necessariamente un racconto di ampio respiro o di gesta per forza epiche, quanto piuttosto una narrazione meno lineare e che riesca magari ad entrare più in profondità nei personaggi, indagando le loro personalità e i loro contrasti interiori. Salviamo i racconti mitici, di gran lunga i più interessanti a livello di varietà e impreziositi da duelli finali memorabili, e che spero siano riproposti magari ancora più elaborati e in qualche modo centrali ai fini della storia principale; di certo, le missioni secondarie vanno necessariamente riviste. Troppe missioni, tutte dannatamente uguali nel loro approccio e svolgimento, il loro sviluppo merita una riflessione attenta: titoli come The Witcher 3: Wild Hunt dettano la via da seguire, perché spesso sono proprio le side-quest secondarie a trasformare un buon prodotto in un’esperienza totalizzante e indimenticabile.
E poi c’è la colonna sonora, così assente nel primo capitolo da risultare quasi assordante; con così tanta passione riversata nei piccoli dettagli, è un peccato non aver sfruttato l’occasione di rendere ancora più immersa l’esperienza di Ghost of Tsushima dal punto di vista audio così come da quello visivo, magari con musiche a tema del periodo storico e proprie della cultura e del folklore nipponico, incalzanti o rilassanti a seconda del momento giusto di gameplay.
In fondo non c’è così tanto da stravolgere; partendo dalle buone basi citate e rinnovando una struttura ormai obsoleta adattandola agli standard attuali, sono convinto che si possa tirare fuori un grande sequel, un secondo capitolo in grado di appassionare un pubblico ancora più ampio, fidelizzando chi già ha amato il primo e catturando chi ancora non gli ha dato una possibilità.
4. God of War: Ragnarok
“Quando uscirà God of War : Ragnarok? Quando sarà pronto.” Con poche e taglienti parole affidate ad un tweet Cory Barlog, il game director di Santa Monica Studio, risponde all’enorme hype circolante da tempo in rete circa la data di uscita del sequel di God of War, generandone inevitabilmente altrettanto. E non che ce ne fosse bisogno, l’attesa per il sequel delle avventure di Kratos e del figlio Atreus è già alle stelle, sin dall’epilogo del primo capitolo, con quello spezzone di filmato inserito inaspettatamente dopo i titoli di coda che ha di fatto introdotto l’incipit del secondo capitolo.
La bravura innegabile di Santa Monica è stata rinnovare una serie storica e acclamata per Playstation; abbandonando l’Antica Grecia e abbracciando la mitologia norrena, God of War è stato un meraviglioso punto di ripartenza per la saga, l’epico viaggio di padre e figlio attraverso il regno di Midgard e non solo, che ha visto rinsaldare il legame tra i due e riaffiorare segreti di un passato mai definitivamente lasciato alle spalle dal protagonista Kratos. Tecnicamente eccelso e con una direzione artistica magistrale, God of War è stato un tripudio visivo, dalle ambientazioni agli scontri più concitati, il cuore pulsante di tutta l’esperienza; ecco quindi che il solo pensare a cosa potremo ammirare su Playstation 5 rende l’attesa così spasmodica. Come riusciranno gli sviluppatori a migliorare ulteriormente un sistema di combattimento così dannatamente appagante quanto spaccamascella dal punto di vista scenografico? Ho già l’acquolina in bocca.
Ma cosa sappiamo di questo sequel? Non ci resta che raccogliere i pochi indizi che abbiamo in mano e fare delle speculazioni sull’argomento. La morte di Baldur, avvenuta nelle battute finali del primo God of War, segna inevitabilmente l’approcciarsi del Ragnarok, e mai come adesso il futuro di padre e figlio si fa incerto. L’indimenticabile epilogo ci ha mostrato una delle rappresentazioni degli Jotnar in cui Atreus tiene in braccio il padre, apparentemente morto. In uno dei momenti più commoventi di God of War, Atreus chiede a Kratos se il destino degli dei sia quello di uccidere i propri padri, proprio come era accaduto allo spartano: Kratos gli risponde che loro due dovranno essere migliori. Sarà davvero così, o il Ragnarok segnerà la fine del protagonista storico della serie? Di certo lo scopriremo. Così come scopriremo il ruolo di Thor e Odino, figure centrali nella mitologia norrena, destinate a rivestire un ruolo chiave in questo nuovo capitolo.
Che altro aggiungere, se non che God of War: Ragnarok è in assoluto uno dei titoli più attesi di questa generazione. Annunciato per il 2021, forse dovremo attenderlo ancora un pò, ma in fondo va bene così: alla fine, come ha sottolineato il buon Cory, uscirà quando sarà pronto.
3. Bloodborne 2
Con buona pace di The Last of Us: Parte 2 – titolo di una grandezza irraggiungibile e che non ho mancato di elogiare a lungo tra queste pagine – se dovessi indicare l’esclusiva Playstation della passata generazione che imho ha lasciato il segno più profondo e indelebile, questa sarebbe senza ombra di dubbio Bloodborne.
“Bloodborne è il gioco che mi è rimasto più nel cuore, è quello a cui sono più affezionato e che mi ha segnato di più perchè credo di averlo realizzato nel modo in cui volevo che venisse fatto“
Hidetaka Miyazaki
E come non condividere queste parole. Affascinante quanto spietato, l’universo gotico e lovecraftiano sviluppato da From Software e dal genio creativo di Hidetaka Miyazaki ha catturato l’attenzione di milioni di videogiocatori, per le sue atmosfere e per la cupa bellezza della sua lore, regalandoci alcune delle boss fight più maestose e difficili mai concepite in un soulslike. Per chi non ne avesse avuto il piacere, il contesto è presto illustrato: Bloodborne catapulta il videogiocatore a Yharnam, un’antichissima città afflitta da una misteriosa malattia del sangue; le vicende si svolgono durante la “notte della caccia” e, nei panni di uno sconosciuto cacciatore, si devono affrontare bestie e mostruosità di ogni tipo, nel tentativo di trovare una cura e fermare la piaga.
Tanto è stato svelato, e tanto ancora c’è da scoprire e approfondire; pensiamo, ad esempio, ai Dungeon del Calice o a tutto il filone dei primi cacciatori, da Ludwig a Gherman, per non parlare delle antiche linee di sangue di cui non oso spoilerare nulla; c’è ancora un mondo da approfondire negli eventi passati, e tanti scenari possibili futuri rispetto alla linea temporale del primo – e al momento unico – capitolo. Un ipotetico sequel viene continuamente tirato in ballo dagli appassionati di ogni parte del globo, che sperano nella magnanimità di From Software e di poter tornare prima o poi ad aggirarsi tra gli oscuri vicoli di Yharnam e dintorni. Attualmente lo studio è incentrato sul suo prossimo gioco, ovvero Elden Ring, di cui sappiamo ancora poco, se non che vede la collaborazione del padre de Il Trono di Spade, George R.R. Martin.
Di sicuro Elden Ring, anche alla luce delle recenti novità, vedrà presto la la luce ma spero vivamente che nell’ombra, sotto traccia, From Software abbia realmente iniziato a ragionare su un possibile sequel di quello che reputo un vero e proprio spartiacque per la generazione dei soulslike; un titolo che ha saputo attingere da quanto di buono fatto con Demon’s Souls e la trilogia di Dark Souls, ma che ha avuto al tempo stesso il coraggio di cambiarne le dinamiche, soprattutto in riferimento al combat system, velocizzandolo e aprendo il gameplay a nuovi scenari e difficoltà e, come naturale conseguenza di sviluppo, ha portato a quel capolavoro che risponde al nome di Sekiro: Shadow Die Twice.
Un sequel magari multipiattaforma, così che ancora più utenti possano abbracciare e godere delle bellezze di una lore così oscura quanto affascinante, di un mondo tanto solenne quanto spietato. E non tornare più indietro, perché una volta che il siero di Bloodborne ti entra dentro è impossibile farne a meno.
2. The Elder Scrolls VI
Se dovessi pensare al videogioco che mi ha tenuto più tempo incollato davanti allo schermo, che mi ha sfidato ad esplorarne ogni singolo anfratto, ad unirmi alle sue gilde e a perdermi nelle sue sconfinate lande e side quest, il nome che risuona altisonante nella mia mente è uno e uno soltanto: The Elder Scrolls V: Skyrim. Solo Dio sa quanto tempo ho cavalcato per le lande innevate del quinto capitolo di TES, interi pomeriggi passati alla segheria di Riverwood a spaccare legna per racimolare qualche septim in più per migliorare il mio equipaggiamento di base; ed era solo l’inizio del gioco o, meglio ancora, di un’avventura che mi ha catturato e risucchiato come nessun altro titolo aveva mai fatto prima e nessuno – ne sono quasi certo, e chi ce l’ha più così tanto tempo libero! – farà mai più in futuro.
Anche se non si sa praticamente nulla a riguardo, The Elder Scrolls 6 è uno dei titoli più attesi di questa generazione; le uniche indicazioni al momento sono un teaser molto vago di Bethesda durante l’E3 del 2018, e un recente tweet di fine anno della stessa software house: l’immagine di una mappa, tre candele e le seguenti parole: “Trascrivi il passato e mappa il futuro. Un felice anno nuovo!”.
Tanto è bastato per far partire al galoppo speculazioni di ogni tipo e riaccendere i riflettori dell’hype su una delle saghe fantasy più celebri e acclamate della storia videoludica. Alcuni si sono avventurati persino sbilanciandosi sull’ipotetica ambientazione del sesto capitolo, ovvero la regione di Hammerfell, landa occidentale e patria dei Redguard, confinante con la già citata Skyrim, protagonista dell’ultimo capitolo. Le aspre montagne e l’estesa zona costiera hanno dato spazio all’immaginazione dei più, e non poteva essere altrimenti; naturalmente, stiamo parlando di semplici e ipotetici indizi, ma solo l’idea di poter calcare di nuovo le terre di Tamriel è un sogno ad occhi aperti.
Di recente, come è noto, Bethesda è stata acquisita da Microsoft, pertanto una cosa è certa: se e quando uscirà il sesto capitolo, di sicurò questo sarà disponibile su Game Pass al day one. M la vera domanda è: TES VI resterà un’esclusiva PC e Xbox o anche gli utenti Sony potranno goderne delle sue – si spera – meraviglie? Solo il tempo potrà dircelo, quello che possiamo fare noi comuni mortali è attendere con ansia ulteriori aggiornamenti al riguardo, con un pizzico di speranza e di fiducia: in fondo, nelle vaste e misteriose lande di Tamriel c’è posto per tutti, ed è giusto che sia così.
1. GTA VI
Solo a pronunciarne il nome mi vengono i brividi e la pelle d’oca: GTA VI.
Solo chi si è perso almeno una volta nella vita nei mondi creati da Rockstar Games può comprenderne il motivo; Grand Theft Auto è IL VIDEOGIOCO per antonomasia, un enorme-sconfinato-delirante-fuori di testa sandbox di contenuti capace di incollare davanti allo schermo per un numero di ore a tripla cifra senza mai annoiare veramente.
Due sono le milestone temporali dalle quali ripartire: la prima nel 2013, con GTA V e i suoi tre, indimenticabili protagonisti, quando Rockstar ha cambiato le regole del gioco, offrendo un’esperienza di gioco open-world al cubo, con sterminate possibilità di approccio e divertimento; la seconda nel 2018, con Red Dead Redemption 2, il capolavoro con cui l’azienda statunitense ha di fatto reinventato il concetto di open world, regalando al mondo videoludico untitolo inattaccabile da ogni punto di vista, grafico e narrativo, un videogioco capace di eccellere sotto ogni aspetto e di settare nuovi standard per il genere e per l’industria.
Ecco quindi che la parola GTA VI non si può liquidare con della semplice “acquolina in bocca”, ma stiamo parlando di una vera e propria scarica di adrenalina; basti solo pensare ad una geniale fusione dei due titoli sopra citati con le potenzialità offerte dai nuovi hardware in termini di prestazioni e potenza di calcolo…brividi e pelle d’oca, appunto! Rockstar ci ha da sempre abituato ad alzare l’asticella, quindi è possibile attendersi, accanto alle meccaniche più tradizionali della saga, l’aggiunta di tutta una serie di novità che serviranno a svecchiare quello che è sempre stato un brand che ha saputo innovarsi gioco dopo gioco. Pensiamo ad esempio a una o più città “vive”, dinamiche e in costante mutamento al susseguirsi degli eventi principali e – perché no – a seguito delle nostre azioni; o magari una virata decisa verso dinamiche da RPG, con personaggi capaci di evolversi, approcciare carriere diverse e relazionarsi con altri NPC, sullo sfondo di una comunità attiva e sempre più social. il già citato RDR 2 ha insegnato che anche in un open-world si può inserire una trama complessa e sfaccettata, supportata da comprimari che non sono dei meri personaggi scriptati, ma che partecipano attivamente alla nostra avventura e subiscono le conseguenze delle nostre azioni, nel bene e nel male; e se questo è stato possibile farlo nel vecchio west, immaginate cosa si possa prevedere nel contesto del 21° secolo, con tutte le possibilità offerte dalla società attuale. Non esiste confine all’immaginazione, e di certo non esiste limite alla creatività dei ragazzi di Rockstar.
Quando uscirà il sesto GTA e, sopratutto, dove sarà ambientato? Questa è la risposta dell’anno, si spera. Entro il 2021 è atteso l’annuncio, se non con una data precisa almeno con una finestra temporale di lancio più o meno ampia. Di certo, sviluppare un colosso del genere richiede anni di sviluppo e risorse ingenti, per GTA V ci sono voluti quasi cinque anni, e se pensiamo che Rockstar ha lavorato fino al 2018 a RDR2 i conti sono presto che fatti. Ma lungi da me – e penso dalla community – mettere fretta al team di sviluppo: stiamo parlando di un nuovo capitolo di GTA, di un titolo capace di intrattenere per quasi un decennio, basti pensare ai numeri odierni ancora macinati del predecessore. Che si prendano tutto il tempo necessario, davvero; perché mai come stavolta stiamo già godendo al solo pensiero di averlo prima o poi tra le nostre mani, mai come stavolta l’attesa del piacere è davvero essa stessa il piacere.
Sekiro: Shadows Die Twice è un capolavoro di stile e ferocia unico nel panorama videoludico odierno. Un’esperienza in cui per la prima volta è il giocatore, e non il suo alter ego digitale, a dover livellare le proprie abilità per poter proseguire nell’avventura; molti non esitano a definirlo come il gioco più difficile e punitivo mai realizzato finora da From Software, e mi sento in parte di confermarlo. Dimentichiamo gli scontri pesanti di Dark Souls e la “danza” all’arma bianca e polvere da sparo di Bloodborne, stavolta la formula ideata da Miyazaki ci catapulta nel Giappone feudale del periodo Sengoku, proponendoci duelli ad altissima velocità che richiedono al giocatore dedizione e spirito di abnegazione totali per portare a termine l’avventura, sbloccando tutti i diversi finali possibili.
Giungere ai titoli di coda sarà un privilegio per pochi, soltanto per chi sarà disposto ad abbandonarsi al gioco completamente, ad imparare da ogni singolo errore e ambire a padroneggiare alla perfezione l’arte del combattimento, tecnicamente inattaccabile, sviluppata da From Software. Arte del combattimento che raggiunge la sua massima espressione durante le boss-fight, mai così tante in un singolo gioco e tutte meravigliosamente complicate. Con una cura per i dettagli quasi maniacale, dalle location degli scontri – alcune memorabili – alle dinamiche di sfruttamento dell’ambiente circostante, sopravvivere alle boss-fight di Sekiro non sarà affatto semplice, ed ecco quindi che ho deciso di realizzare una piccolaguida “homemade” allo scopo di fornire un semplice quanto utile – spero – compendio per affrontare gli spietati e bellissimi duelli che ci vedranno protagonisti in Sekiro: Shadows Die Twice.
Guida alle Boss Fight
Il gioco è pieno zeppo di boss principali e secondari, tutti gli scontri saranno memorabili e indimenticabili, alcuni “soft”, nel senso che non impiegheremo intere settimane per venirne a capo, altri sono da togliere letteralmente il sonno, destinati a perseguitarci per le notti a venire. Ecco, in ordine di apparizione, i boss che dovremo affrontare in Sekiro, con le migliori strategie da adottare per averne la meglio:
Partiamo subito alla grande! Una manciata di nemici, giusto il tempo di comprendere le prime meccaniche di gioco e subito ci troveremo di fronte il primo mini boss del gioco. Dopo l’Idolo dello Scultore vicino ai lupi, incontreremo un grosso samurai; si tratta dell’unico nemico nel cortile. Per abbatterlo facilmente, il consiglio è fare il giro dai tetti e colpirlo alle spalle, eliminando una delle sue barre di HP. A quel punto possiamo tranquillamente colpirlo dopo aver deviato, bloccato o schivato i suoi fendenti. La parata è sicuramente la tecnica meno rischiosa, perché una volta portata a termine la combo il generale lascerà un’ottima apertura perfetta per il contrattacco. L’altro attacco del boss è la spazzata, preannunciata da un simbolo rosso, evitabile saltando e contrattaccando in aria. Un avversario da rispettare per i novizi ma, col senno del poi, una sfida neanche così impegnativa. Ci attende ben altro nel proseguo!
Orco Incatenato
Difficoltà: 🗡
Vi chiederete: una sola spada di difficoltà per l’Orco Incatenato, come è possibile? Si, è possibile. L’Orco Incatenato sembra una grande minaccia dato che lo incontreremo nelle prime fasi di gioco, in realtà con piccoli accorgimenti risulterà uno scontro assai gestibile. Per prima cosa dobbiamo uccidere i tre nemici nell’area, specialmente l’infame al piano di sopra armato di lancia, che potrebbe esserci sfuggito e non vorremo di certo ritrovarcelo tra i piedi durante la boss-fight. A questo punto saremo solo noi contro l’Orco: dal momento che, inizialmente, l’orco sarà incatenato e impossibilitato a muoversi, sfruttiamo la cosa a nostro vantaggio per colpirlo più volte che possiamo, prima che riesca a liberarsi. Iniziata la boss-fight vera e propria utilizziamo il salto per evitare i suoi attacchi, non la schivata mi raccomando, e teniamo a mente che possiamo agganciargli la testa con il rampino per portarci alle sue spalle e sferrare qualche attacco. Si tratta di uno scontro di pazienza, ed è piuttosto semplice: possiamo tranquillamente batterlo senza farci mai colpire. L’importante è schivare con il salto, e attaccarlo ogni volta che possiamo. Avremo senz’altro notato che l’Orco ha gli occhi rossi: bene, un nemico con gli occhi rossi in questo gioco significa che è vulnerabile al fuoco. Essendo ancora alle battute iniziali, potremmo non avere la protesi Shinobi che ci consente di sparare fiamme ai nostri avversari, ma nelle run successive avremo un’arma in più per infastidire l’Ogre e mettere a segno alcuni colpi a buon mercato.
Generale Tenzen Yamauchi
Difficoltà: 🗡🗡
Ignoriamo completamente il boss e dedichiamoci all’assassinio di massa di tutti i nemici nell’area: ci sono tre samurai sul retro, di cui due armati di fucile, un nano infame che suona una campana sul cornicione in alto a destra, allertando tutti gli altri, e qualche soldato sul fianco sinistro, nonché un soldato sulla piazza accanto al generale. La strategia migliore è ripulire l’area in modalità stealth, utilizzando l’idolo dello scultore sotto il ponte: risalendo uccidiamo nell’ordine il soldato davanti a noi, l’infame con la campana, i due fucilieri e i soldati che nell’ordine incontriamo a destra; per ultimo uccidiamo il soldato nella piazza, a difesa del generale; se saremo bravi a non farci scoprire, riusciremo a togliere al generale una vita con un altro attacco in stealth. A questo punto non ci rimane che affrontarlo; l’unico punto debole del boss è l’attacco alle spalle, di fronte a noi parerà tutti gli attacchi, pertanto schiviamo utilizzando il salto e tentiamo di posizionarci alle spalle. Occorre prestare molta attenzione ai suoi attacchi imparabili, ne ha due e sono molto difficili da prevedere, nonché un affondo quasi letale.
Gyoubu Oniwa
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡
Dopo esserci battuti con il generale Tenzen Yamauchi ci ritroveremo in un canyon dove verremo assaliti da un serpente gigantesco. Fuggendo e sopravvivendo ai vari attacchi (fondamentale sarà il rampino per scappare in alto), arriveremo a una sorta di ampio campo di battaglia. È in questo luogo che affronteremo la nostra prima vera sfida del gioco: Gyoubu Oniwa.
Armato di lancia e di un cavallo, questo Boss si rivelerà piuttosto difficile da affrontare per via dell’ampio raggio d’azione dei suoi attacchi. Come per ogni scontro, il nostro approccio deve essere improntato a capire le mosse del nemico, imparando come e quando schivare/bloccare. Analizzandolo noteremo che nella sua combo ci sarà sempre un attacco pesante che lo lascerà sguarnito per qualche secondo. Possiamo sfruttare questa occasione, o ancora meglio possiamo prenderlo alla sprovvista sfruttando il rampino quando ha il relativo simbolo di aggancio in testa, mettendo a segno almeno 2-3 fendenti prima di allontanarci di nuovo. L’aggressività con cui affrontare questo scontro dipenderà dal nostro stile di gioco, ad esempio è possibile anche rimanere al sicuro e aspettare il segnale verde per colpire: in questo caso è fondamentale sbloccare l’abilità che ci consente di attaccare in salto. Appena perderà la prima vita inizierà a fare una spazzata che ci costringerà a saltare per evitarla. Prestando attenzione anche a questo nuovo attacco, riusciremo a vincere la battaglia e ucciderlo con una classica esecuzione. Utilissime le Castagnole Shinobi per spaventare il cavallo e concederci qualche secondo per attaccarlo.
Cacciatore di Shinobi Enshin di Misen
Difficoltà: 🗡 🗡
Il Cacciatore di Shinobi è il primo boss che incontreremo nella tenuta Hirata. “Che diavolo è la Tenuta Hirata?” Per raggiungerla abbiamo bisogno di un particolare sonaglio che ci darà una anziana signora nelle prime fasi di gioco, nei Dintorni di Ashina. Sconfitto il primo mini-boss del gioco, proseguiamo dopo il vessillo del generale nello spiazzo con il gigante armato di martello, andiamo fino in fondo e scendiamo sulla sinistra per trovare l’anziana all’interno di una casa distrutta. Una volta ricevuto il sonaglio, dovremo portarlo al tempio in rovina e pregare accanto alla statua del Buddha sorridente sulla sinistra, accanto allo Scultore. Ecco sbloccata la nuova location.
Il consiglio fondamentale, prima di affrontare lo scontro, è quello di utilizzare dall’inventario il confetto di Gachiin che ci rende “quasi” invisibili, così da eliminare furtivamente almeno i due nemici fra noi e il boss, il fuciliere e quello di guardia alla fine del ponte. A questo punto nascondiamoci finché il boss, allertato dalle precedenti esecuzioni, non ci perderà di vista. Una volta al sicuro, sfruttiamo l’erba alta sulla sinistra per attaccarlo in modalità stealth e liberarci della prima barra degli HP. Per abbatterlo dovremo tentare di attaccarlo alle spalle: fondamentale, se sbloccata, risulterà l’abilità “Contromossa Mikiri” per bloccare i suoi potenti affondi di lancia e fargli molto danno alla postura; molto utili sono anche le castagnole Shinobi per stordirlo e attaccarlo senza sosta, sempre allo scopo di far crollare la sua postura. Non si tratta di uno scontro particolarmente complicato, la difficoltà sta nel fatto che i suoi affondi non si possono deviare, se non con l’abilità sopra citata: giocando all’attacco e schivando in avanti non avremo problemi. La chiave è concentrarsi sulla postura del boss e non sulla barra della salute.
Juzou l’Ubriacone
Difficoltà: 🗡 🗡
Il boss in questione non è particolarmente difficile, a patto di eliminare preliminarmente tutti i nemici nell’arena e chiedere aiuto al samurai appostato sulla riva dello stagno. Entrati nell’area di scontro, il consiglio è quello di dirigersi a sinistra ed eliminare subito le due guardie appostate all’interno della pagoda; a questo punto si può andare a parlare al samurai vestito di blu, sul lato destro dello stagno, il quale combatterà al nostro fianco. Il suo aiuto è indispensabile, perché distrarrà il boss mentre ci prenderemo cura di tutti i nemici minori. Purtroppo, il nostro amico samurai morirà dopo pochi secondi, quindi bisogna cercare di eliminarli alla svelta. Il metodo migliore per sconfiggere Juzou, che poi è lo stesso per tutti gli altri boss, è schivare e posizionarsi alle sue spalle per infliggergli un paio di colpi nella schiena. Juzou non è in grado di colpirci se schiviamo verso di lui, quindi sfruttiamo la meccanica a nostro vantaggio. Altrimenti, possiamo attaccarlo tranquillamente ogni volta che beve o infonde la spada, per il resto basta solamente stare attenti ai suoi attacchi imparabili, che possiamo schivare saltando all’indietro o in avanti, mai lateralmente. Ripetere l’operazione, e l’ubriacone crollerà presto.
Falena
Difficoltà: 🗡 🗡🗡 🗡
La Falena è il boss finale dell’area di gioco “Tenuta Hirata”, si tratta di uno scontro molto bello ed evocativo, ma al contempo la prima vera sfida ardua del gioco.
Il boss, anche se all’inizio non sembra, ha due vite: per eliminare la prima, la strategia è quella consigliata per quasi tutti i boss veloci, cioè concentrarsi sulla sua postura piuttosto che sulla barra della salute. La Falena ci attaccherà con una serie di colpi rapidi, pertanto pariamo e colpiamo appena ci lascia l’occasione, la tattica migliore è colpire e schivare lateralmente, colpire e schivare, a ripetizione; quando si solleva, colpiamola con gli shuriken e riportiamola a terra, dove potremo utilizzare il fendente turbine per fargli danno. Prestare particolare attenzione ai suoi attacchi pesanti, preannunciati dall’ideogramma rosso, da schivare velocemente con salto. Rimanendo concentrati, attaccando e schivando senza sosta, riusciremo a toglierle la prima barra HP, per iniziare la seconda fase dello scontro.
Se saremo abbastanza veloci, prima che la Falena appaia di nuovo sul campo di battaglia, potremo posizionarci alle sue spalle, nel punto dove è apparsa la prima volta, e colpirla decisi con una serie di attacchi. Ora dovremo fronteggiare, oltre al boss, anche una sorta di illusioni, che potremo far svanire utilizzando dei particolari semi, i “semi della percezione” che ci consegnerà l’NPG all’ingresso della zona. Senza l’utilizzo dei semi, il consiglio è quello di correre veloci lungo il perimetro della sala, cercando di cambiare direzione continuamente per non dare punti di riferimento; ignoriamo il boss e scappiamo fino a che le illusioni non saranno sparite, altrimenti non avremo scampo.
Terminate le illusioni, massima attenzioni alle luci che ci seguiranno per colpirci: ancora una volta, scappare il più lontano possibile e saltare a ripetizione cambiando direzione. Terminato lo “show” della Falena, ricominciamo ad attaccare: lo schema di approccio è sempre lo stesso, schivata e attacco a raffica fino a sfiancare la nostra “simpatica” amica, nonché maestra shinobi, come scopriremo lì a breve.
Toro Ardente
Difficoltà: 🗡 🗡
La prima cosa è non spaventarsi di fronte all’ira e alle dimensioni del boss in questione: il Toro Ardenteè un boss gigantesco e impazzito che ci caricherà di continuo e spesso, con nostra grande frustrazione, occuperà gran parte dello schermo. Senza paura, quindi, vediamo come affrontarlo.
Il toro fiammeggiante ha un sacco di HP, però ha una sola barra della salute e non può bloccare nessuno dei nostri attacchi. Di contro, però anche noi non potremo parare i suoi: anche se li blocchiamo, subiremo comunque qualche danno. È importante tenere a mente che il Toro può colpirci solamente con le corna, il suo attacco base sarà caricarci e attaccarci con le stesse piantando i piedi per terra; bisogna stare attenti all’attacco che oneshotta, quello in cui fende il terreno con le corna: teniamo sempre le distanze. La regola generale è: mai schivare lateralmente, ma correre intorno al toro in una sorta di “inseguimento” per portarci quando possibile alle sue spalle; le Castagnole Shinobi lo stordiscono per svariati secondi, dandoci il tempo di curarci o di attaccarlo con calma. Questo è il primo scontro di Sekiro in cui occorre concentrarsi sulla vitalità e non sulla postura; ricordate: la fretta e i rischi inutili sono pessimi compagni di viaggio per affrontare questo boss.
Generale Kuranosuke Matsumoto
Difficoltà: 🗡 🗡🗡
Troveremo il Generale Matsumoto ad attenderci in cima alla scalinata che conduce alla Torre della Luna, circondato da 4 “simpatici” fucilieri: inutile dire che il primo obiettivo sarà eliminare i suoi comprimari. Il metodo più semplice e “indolore” è quello di eliminarli dalla distanza con gli shuriken, evitandoci così un sacco di fucilate addosso. A questo punto il consiglio migliore è quello di allontanarci dall’area di scontro, fino a far cessare l’allerta del Generale; scaliamo i tetti, preferibilmente quelli alla nostra sinistra, attendiamo che il boss ritorni nella sua posizione iniziale e togliamogli una vita dall’alto, con un attacco in salto.
A questo punto inizia il duello vero e proprio: il Generale è molto forte, sia in termini di HP che di postura, ma soprattutto per il livello di danni che ci farà ad ogni colpo. A complicare la boss-fight ci si mette l’arena di scontro, una scalinata lunga e stretta, non proprio il massimo per portare a termine delle schivate perfette. La tecnica migliore è quella di stargli abbastanza vicini (ma non troppo!!) ed eseguire il fendente turbine in loop, stando attenti al suo affondo micidiale, preannunciato dal solito ideogramma rosso. Ci vuole un pò di pazienza ma, colpo dopo colpo, riusciremo ad avere la meglio.
Ombra Solitaria con spadone
Difficoltà: 🗡 🗡🗡
Sono sincero, questi boss secondari – perché si, ne incontreremo più di uno – mi hanno dato parecchio filo da torcere. L’Ombra Solitaria in questione è un ninja davvero abile e veloce con la spada, tanto che affrontarlo in uno scontro faccia a faccia ci richiederà sostanzialmente di essere “perfetti”. Per ridurre la difficoltà dello scontro si può utilizzare una doppia strategia: la prima è quella di togliergli subito una vita dall’alto, colpendolo in caduta attraverso la crepa del terreno; la seconda, una volta all’interno, è quella di sfruttare il dislivello dell’arena di scontro, colpirlo con il fendente turbine quando sale, scendere e aspettare di colpirlo quando scende, per poi risalire e colpirlo di nuovo. Si lo so, non è una tecnica così “onorevole” ma ci eviterà la frustrazione di affrontare un duello ad altissima velocità in uno spazio angusto. Si può ripetere in loop la tattica sopra esposta, fino a sfiancarlo, stando sempre attenti ai colpi che ci sferrerà nel mentre. Ovviamente si può decidere di affrontarlo a viso aperto, in questo caso avremo bisogno di tutto il sangue freddo e riflessi possibili, essere perfetti nei tempi di parata e contrattacco, e schivare a destra i suoi attacchi più letali. Un (mini…?) boss veramente ostico.
Guerriero Shichimen
Difficoltà: 🗡 🗡🗡
Questo strano boss secondario lo incontreremo per la prima volta nelle segrete di Ashina e il primo istinto che avremo sarà quello di lasciarlo perdere, visto che non ostacola in alcun modo il nostro cammino. Affrontare questo boss all’inizio è difatti altamente sconsigliabile, ma a gioco avanzato è utile fargli visita, in quanto ci dropperà un oggetto molto importante, il “Cerimonial Tanto”, un pugnale che ci consente di convertire i nostri punti salute in emblemi spiritici.
Per sconfiggere il Guerriero Shichimen avremo bisogno dei Confetti Divini, oggetti fondamentali per aumentare notevolmente i danni inflitti alle essenze spettrali, nonché di parecchi Agenti Calmanti, per ridurre il terrore che ci infliggerà; per prima cosa saltiamo dall’alto e iniziamo a colpirlo a ripetizione con la spada infiammata; se dobbiamo proteggerci, utilissimo sarà l’Ombrello lilla, anche nei confronti del flusso che ci convoglierà contro al termine della prima fase. Quando si alza in volo, se saremo abbastanza vicini e precisi, potremo provare a sferrare un colpo critico in salto.
La seconda fase è sostanzialmente la stessa della prima, quindi colpiamolo a ripetizione e usiamo gli agenti calmanti quando il nostro livello di terrore inizia a crescere. Un boss secondario all’apparenza ostico e, di fatto, è proprio così!
Sette Lance di Ashina – Shikibu Toshikatsu Yamauchi
Difficoltà: 🗡 🗡
Dimentichiamo tutto quello che abbiamo imparato fino a questo momento: con questo mini-boss, le schivate sono completamente inutili; oltre ad avere HP praticamente infiniti, la sua lancia ha un raggio tale da vanificare la nostra abilità evasiva.
Per prima cosa, bisogna infliggergli un attacco in stealth per liberarsi di una barra della vita: per farlo, dopo aver eliminato – sempre in stealth – tutti i nemici nell’area, passiamo per il burrone a sinistra per aggirarlo e sorprenderlo alle spalle. A questo punto la tattica senza dubbio migliore è quella di incalzarlo costantemente con la tecnica del salto in testa e affondo, da ripetere in serie senza lasciargli praticamente mai l’iniziativa. Se qualcosa dovesse andare storto, è fondamentale allontanarsi il più velocemente possibile dalla sua lancia, ritrovare il tempismo giusto e ricominciare da capo.
Jinsuke Saze
Difficoltà: 🗡 🗡
Probabilmente, il boss più “scarso” di tutto il gioco, eppure conun solo colpo può farci fuori. Com’è possibile che sia il più facile allora, vi chiederete? La risposta è, banalmente, la più scontata: bisogna assolutamenteevitare di farci colpire, sfruttando al contempo la sua difesa debolissima, in termini di postura. Come fare quindi?
Ci sono 2 vie: la prima è quella di parare i suoi colpi velocissimi e contrattaccare; per farlo, occorre essere tempisticamente perfetti: quando la sua lama si illumina, premere immediatamente – e rapidamente – due volte il tasto parata per deviare i suoi colpi, e contrattaccare; basteranno due-tre combo per togliergli la vita.
Se non riusciamo a mettere in pratica la tecnica descritta – eventualità molto probabile visto l’incredibile tempo di reazione richiesto – c’è la seconda: giragli intorno verso sinistra, schivare sempre a sinistra quando parte l’affondo e attaccare, con la spada o, meglio, con l’ascia della scimmia, per fargli più danno; anche in questo caso bastano un paio di colpi per ogni barra di HP.
Genichiro Ashina
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡 🗡
Lo scontro con il boss più “semplice” ci conduce direttamente a quello, probabilmente, più difficile della prima metà della nostra avventura. Incontreremo di nuovo Genichiro Ashina, il guerriero responsabile della nostra protesi e del rapimento di Lord Kuro, il fanciullo che abbiamo giurato di proteggere. Il duello ci chiederà di mettere in pratica tutta l’esperienza e le tecniche che avremo acquisito fino a questo punto.
Prepariamoci a morire un sacco di volte, lo scontro con Genichiro è senza ombra di dubbio il duello che più ci permetterà di “farci le ossa” in Sekiro; non solo, ci servirà per migliorare i nostri tempi di reazione, padroneggiare il combat system e, cosa non banale, memorizzare il suo pattern d’attacco. Senza prendersi rischi inutili, bisogna cercare poco alla volta di indebolire la sua postura, deflettendo colpo su colpo i suoi attacchi, per poi sferrare il colpo mortale. Non è uno scontro facile, considerata l’abilità di Genichiro e la sua velocità, con la quale potrà farci male in ogni momento, soprattutto quando non saremo “perfetti” nelle nostre esecuzioni.
Con pazienza e perseveranza riusciremo ad eliminare le sue due barre HP, ma non potremo ancora tirare un sospiro di sollievo; lo scontro, infatti, non sarà ancora finito. Con nostra sorpresa Genichiro si toglierà l’armatura e diventerà ancora più rapido e furioso, con l’aggiunta di un attacco con fulmini che se non arginato ci ucciderà all’istante.
In questa fase è fondamentale non farsi prendere dal panico: lo scenario intorno a noi cambierà, con tuoni e fulmini, e avremo come l’impressione di avere di fronte un avversario completamente nuovo da affrontare; in realtà basta prestare attenzione ai suoi 2 nuovi attacchi, uno caricato in slancio, da schivare lateralmente o con il Mikiri, e una combinazione di attacchi da parare per poi contrattaccare. Il segreto del successo di questa fase sta nel riuscire a respingere l’attacco con fulmini: quando lo vedremo piantare la spada a terra, attendiamo l’ideogramma rosso e la comparsa dei primi fulmini; quello è il momento esatto per saltare e premere il pulsante di attacco leggero mentre siamo in aria, respingendo l’attacco contro Genichiro: se saremo bravi nelle tempistiche, riusciremo a bloccare la scarica di fulmini e a restituirgli il favore, infliggendogli un sacco di danni.
In questa fase dello scontro ci vuole molto sangue freddo, pazienza e il giusto tempismo per gli attacchi e le schivate. Un duello epico, sicuramente il boss più difficile da affrontare nella prima parte della nostra avventura. Sconfitto Genichiro, ve lo garantisco, non saremo più gli stessi pad alla mano.
Guerriero Corazzato
Difficoltà: 🗡 🗡
Ci imbatteremo per forza in questo guerriero esplorando la regione del Monte Kongo, una delle location più belle e suggestive del nostro viaggio. La cosa importante da sapere sul guerriero corazzato è che non recupera mai la postura nel corso del combattimento, quindi basta giocare bene le nostre carte e concentrarsi su di essa, riducendola piano piano senza correre rischi. Si tratta di un altro scontro di pazienza: occorre rimanere più vicino possibile al boss e parare i suoi attacchi, fino a che non ci colpirà con un affondo: schiviamolo in avanti, andiamo alle sue spalle e colpiamolo, senza esagerare. Proseguire nella strategia indicata fino a quando la barra della postura sarà quasi piena, a questo punto avviciniamoci al balcone e con un colpo mortale potremo scagliarlo nel burrone sottostante. Importante: questo è l’unico modo per eliminarlo, dovremo abbatterlo proprio sul bordo.
Centopiedi Sen’Un
Difficoltà: 🗡
Boss opzionale affrontabile nella location del Monte Kongo – Tempio Senpou. Anche se pare difficile orientarsi tra le tante pagode della regione, il mini-boss si trova in quella più a destra dopo il terzo Idolo dello Scultore; l’unico modo di entrare è attraverso un buco nel tetto.
Per prima cosa, eliminiamo i tre nemici sopra i cornicioni di legno, cercando di non cadere di sotto per non allertare il boss. Una volta ripulita l’area, potremo fare un attacco in caduta per rimuovere una barra degli HP in tutta sicurezza. Uccidiamo i due nemici più piccoli e poi concentriamoci sul nemico: schivare non serve a nulla, ma possiamo deflettere la sua intera combo – una volta memorizzato, il tempismo è piuttosto semplice – e usare il salto al momento giusto per fargli gravissimi danni alla postura e infliggergli un colpo mortale. Uno scontro facilissimo e brevissimo.
Scimmie del Tempio Senpou
Difficoltà: 🗡
Per affrontare le Scimmie del Tempio Senpou, dovremo interagire con l’altare del Tempio Senpou; da ricordare che questo particolare boss non sarà disponibile finché non avremo sconfitto Genichiro Ashina e parlato con Isshin su indicazione di Lord Kuro.
Si tratta di una boss-fight basata sulle meccaniche, un po’ come accadeva con Micolash per chi ha giocato a Bloodborne. Dovremo uccidere 4 scimmie in totale, e correre dietro a ciascuna non ci aiuterà affatto. Ecco come eliminarle tutte:
Scimmia Invisibile: Appena spawniamo nell’area, muoviamo qualche passo in avanti, poi giriamoci subito e attacchiamo lo spazio vuoto dove siamo apparsi; lì si trova la scimmia invisibile e, se avremo fortuna, la abbatteremo subito. In caso non si trovasse nel punto indicato, potremo trovarla nella torre a sinistra dell’arena, nei pressi dell’acqua, dove c’è una nota attaccata al muro.
Scimmia Verde: Saltiamo sul grande albero al centro dell’area, e vedremo la Scimmia Verde saltare sul tetto. Avviciniamoci, ma senza salire sul tetto, rimaniamo al piano terra. C’è una grossa campana con una nota: quando la scimmia è ferma sulla balconata, colpiamo la campana e questa stordirà la scimmia: saliamo sul balcone e colpiamola con un attacco alle spalle. Facilissimo.
Scimmia Viola: Andiamo nella torre di sinistra: la scimmia viola si trova in questa zona, ma non appena ci vedrà comincerà subito a scappare. Per prima cosa, dovremo spegnere le luci; apriamo le porte nella torre di sinistra e il vento spegnerà tutte le torce. A questo punto continuiamo ad inseguire la scimmia viola finché non torna al punto di partenza; una volta che è nella torre, lasciamoci cadere su di lei dal tetto e abbattiamola con un’esecuzione.
Scimmia Rossa: Questa è la scimmia con il tamburello, e non è particolarmente difficile. Dovremo trattarla come un nemico qualsiasi: portiamoci alle sue spalle, silenziosi avviciniamoci lentamente fino a farle un’esecuzione. Non c’è una tattica specifica, dovremo solo inseguirla e prenderla mentre abbassa la guardia.
Shirafuji Occhi di Serpente
Difficoltà: 🗡 🗡
Quando la vedremo per la prima volta – perché si, anche se non sembra, Shirafuji è una boss-fight al femminile – sarà girata dritta verso di noi. Ignoriamola subito, prendiamo il percorso a sinistra e attraversiamo il ponte fino a dove si interrompe. È fondamentale equipaggiare l’ombrello caricato, utilissimo in quest’area per proteggerci dai fucilieri appostati ovunque. Cessata l’allerta, torniamo al boss e avviciniamoci senza farci vedere, dal lato sinistro potremo aggirarla alle spalle e infliggerle un potente attacco in stealth. In fase di combattimento, il consiglio è utilizzare il pugnale Sabimaru fino ad avvelenarla; a questo punto potremo farle un sacco di danni alla postura. Attacchiamo quando ce lo consente, per il resto dovremo deflettere i suoi attacchi in combo (2 o 3 colpi) e stare molto attenti a due cose: anzitutto, ai colpi di fucile che scaglia in chiusura delle combo; in secondo luogo, al suo attacco imparabile, una presa che infligge gravissimi danni. Mai e poi mai, per nessuna ragione, curarsi di fronte a lei: cercare riparo dietro la roccia e bere la fiaschetta solo quando siamo al sicuro. Se affrontato come descritto, risulterà uno scontro abbastanza facile.
Centopiedi Braccia Lunghe Giraffa
Difficoltà: 🗡
Strategia esattamente identica al Centopiedi incontrato sul Monte Kongo, in questo caso senza ulteriori nemici da eliminare. La boss-fight più semplice di sempre.
Scimmia Guardiana
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡
Dopo una serie di boss “accessibili” arriva uno scontro che ci terrà impegnati per parecchie ore, uno tra i boss più pericolosi e furiosi dell’intera avventura.
La Scimmia Guardiana nella prima fase ha un pattern di attacco abbastanza semplice da memorizzare; nonostante ciò, il minimo errore ci condurrà a morte certa. Il segreto sta nel correre e indietreggiare quando la vedremo caricare, restare sempre a dovuta distanza e muoverci di continuo; i momenti buoni per colpirla sono quando si rotola a terra e quando si getta verso di noi, le castagnole Shinobi sono una buona tattica per stordirla e guadagnare secondi preziosi per colpirla. Attenzione al masso che ci lancerà contro, che ci ucciderà sul colpo o ci avvelenerà: schivarlo all’ultimo istante con un salto all’indietro.
Quando con il colpo mortale le taglieremo la testa, con nostra sorpresa la vedremo rialzarsi e, armata di spada, dovremmo affrontarla di nuovo. Ora le cose si fanno complicate: il metodo più semplice, anche se abbastanza lungo, consiste nel correre in circolo facendoci inseguire, aspettare che si tuffa in spazzata, saltare e affondare un colpo, per poi allontanarsi velocemente. Da evitare il raggio d’azione del suo urlo, una nebbia rossa che ci riempirà di terrore fino ad ucciderci. In alternativa, possiamo provare a deviare i suoi colpi e l’affondo finale, così da stordirla e arrecarle molti danni alla postura, ma ciò richiederà tempismo perfetto e nervi saldi, esponendoci di continuo al rischio della sua nebbia di terrore. Qualunque tecnica decideremo di adottare prepariamoci, sarà uno scontro molto lungo.
Shirahagi Occhi di Serpente
Difficoltà: 🗡 🗡
Il boss è molto simile a quello incontrato nella Forra, ma il contesto è diverso e va approcciato con un piano ben definito. Per prima cosa occorre liberare l’arena di scontro dai 3 fucilieri: il primo lo troviamo sotto di noi, eliminabile con un colpo mortale dall’alto; velocemente, utilizzando il rampino tra gli alberi a sinistra, piombiamo sul secondo e lo eliminiamo da dietro; il terzo ci aspetta nell’isolotto centrale, cadiamo dall’alto alle sue spalle e facciamolo fuori.
A questo punto possiamo dedicarci al boss; memorizziamo velocemente le sue combo: tre spazzate con il fucile, spazzata più colpo di fucile, affondo, e colpo di fucile da lontano. Al termine di ogni combo avremo un lasso di tempo per poterla attaccare, con non più di due colpi, al fine di evitare il suo contrattacco. Le due vite del boss sono sostanzialmente identiche, quindi prestiamo attenzione, in particolare ai suoi colpi devastanti con arma da fuoco, ed il gioco è fatto.
Scimmia Guardiana Immortale
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡
Negli abissi di Ashina ritroveremo, con nostra sorpresa, la Scimmia Guardiana senza testa ad attenderci; si, esatto, è proprio lo scimmione al quale avremo tagliato la testa in precedenza, ancora più furioso di prima! La boss-fight è identica alla seconda fase del boss Scimmia Guardiana affrontato nella Forra; nella prima fase dello scontro evitiamo tutti i colpi, in special modo il suo urlo di terrore, e aspettiamo che si slanci in aria e successivamente esegua un affondo di spada a terra: con il giusto tempismo, potremo deviare il colpo, stordirla e arrecarle un sacco di danni. Eliminata la prima vita, sembra incredibile, ma ci troveremo ad affrontare ben due boss: ancora la ScimmiaGuardianasenza testa e la ScimmiaGuardiana della Forra.
Prepariamoci ad una fase di scontro lunghissima, in cui il nostro obiettivo principale sarà quello di evitare gli attacchi di entrambe, in special modo di quella senza testa. Concentriamoci sulla nuova scimmia, più debole e con meno iniziativa: colpiamola dalla distanza con gli Shuriken e attacchiamola con Kusabimaru solamente quando saremo sicuri di poter affondare un colpo in sicurezza, durante il suo grido o quando si lancia a terra; evitiamo qualsiasi iniziativa o leggerezza per cercare di accelerare lo scontro: andremo incontro soltanto a morte certa. Eliminata la nuova scimmia, torniamo ad occuparci della scimmia decapitata – per la quarta volta! – stessa dinamica della prima fase, calma e sangue freddo, deviazione dell’affondo, colpo mortale e finalmente ci saremo liberati di uno degli scontri più incredibili e difficili mai partoriti dalla mente di Miyazaki.
Tokujiro il Ghiottone
Difficoltà: 🗡 🗡
Le dinamiche sono le stesse di Juzou l’Ubriacone; vanno prima eliminati i comprimari del Boss, in questo caso alcune fastidiose scimmie, per poi dedicarci al nostro amico.
Possiamo fargli perdere le nostre tracce sfruttando il percorso a destra, per poi tornare in stealth ed eliminare una barra di HP. Durante lo scontro, evitare o parare la sua lama poderosa e attaccarlo quando ce lo consente, ovvero quando imbeve la lama di veleno e al termine di una combo. Come Juzou, il boss è vulnerabile alle spalle.
Nobile della Nebbia
Difficoltà: 🗡
Giunti alla Foresta Nascosta, troveremo il villaggio completamente avvolto nella nebbia e i suoi abitanti in versione “ombra”; il responsabile di questa illusione è il boss in questione, un “non-si-sa-che-cosa” nascosto all’interno di una pagoda impenetrabile, dalla quale fuoriesce unicamente una melodia di flauto.
Dovremo salire sull’albero più alto vicino alla pagoda ed entrare attraverso una piccola apertura sul tetto; eliminiamo la prima vita del boss dall’alto dopodiché attacchiamolo senza dargli tregua, in breve lo avremo sconfitto. Spodestato il Centopiedi, ecco il boss più facile di sempre.
Senza Testa
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡
Senza dubbio, i tra boss opzionali più temibili dell’intero gioco. Incontreremo ben 5 boss “Senza Testa” nel corso della nostra avventura, in location più o meno nascoste. Ecco dove trovarli, in ordine di apparizione:
Senza Testa 1: Grotta nascosta nei Dintorni di Ashina, “Muro Esterno – “Scalinata”, zona raggiungibile con pochi salti partendo dalla torretta fuori il portone dell’arena di scontro con il Generale Tenzen Yamauchi, proseguendo a destra;
Senza Testa2: Dintorni di Ashina, accedendo alla Forra e proseguendo a destra al primo idolo; raggiunto il lago, immergiamoci e riemergeremo nell’antro del boss;
Senza Testa 3: Castello di Ashina, in fondo allo stagno;
Senza Testa4: Foresta Nascosta, nella zona iniziale avvolta dalla nebbia;
Senza Testa5: Palazzo della Sorgente, in fondo al Lago.
Per affrontare questi pericolosi avversari è fondamentale utilizzare i Confetti Divini per colpirli, altrimenti non gli faremo danni apprezzabili; equipaggiamoci inoltre di agenti calmanti per ridurre il livello di terrore e dell’ombrello lilla, per proteggerci dai loro attacchi spettrali e contrattaccare con l’abilità “proiezione di forza”. Quando eseguono una spazzata e alzano lo spadone siamo pronti a togliere il lock, saltiamo in avanti e giriamoci immediatamente; i boss infatti tenderanno a scomparire e riapparire dietro di noi. Le due fasi dei Senza Testa sono identiche quindi ripetiamo, usiamo soprattutto l’ombrello e riusciremo a sconfiggerli tutti.
Quasi. Infatti, due dei cinque Senza Testa dovremo affrontarli sott’acqua, uno nel lago del Castello di Ashina e uno nel lago del Palazzo della Sorgente. A parte il fatto che non potremo parare, le regole dello scontro non cambiano: armiamoci dei confetti divini prima di immergerci, poi colpiamoli sempre una sola volta e nuotiamogli intorno, evitando i loro attacchi; senza fretta, hanno una sola vita quindi lo scontro sarà piuttosto breve. Quello in fondo al Lago ha un alter ego virtuale ombra: concentriamoci sull’originale ed elimineremo entrambi.
O’Rin dell’Acqua
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡
Probabilmente, il boss secondario più complicato dell’intero gioco. Questa “simpatica” fanciulla con il cesto in testa che suona uno shamisen è in realtà una shinobi formidabile, velocissima e letale; affrontarla in un duello di spada è praticamente impossibile, neanche se fossimo degli Shinobi nel mondo reale; parare i suoi attacchi è fuori discussione, farle danni apprezzabili pure.
Quindi, come si affronta? In realtà non l’ho ancora capito, ma nonostante ciò sono riuscito a sconfiggerla solamente al secondo tentativo. Come? Utilizzando un elemento dello scenario, le lapidi, un pò come accadeva con Padre Gascoigne in Bloodborne. Mettendo tra noi e il boss le lapidi che troveremo sulla destra, intanto riusciremo a respirare, poi avremo quei secondi necessari per attaccarla con il fendente turbine quando si avvicina. Con pazienza, sangue freddo e senza lasciare mai la posizione di vantaggio ottenuta, riusciremo ad avere la meglio ed eliminare una delle insidie più grandi dell’avventura.
Monaca Corrotta
Difficoltà: 🗡 🗡
Uno dei boss principali del gioco, in realtà non difficilissimo, ci arriveremo già “cattivi” e bene allenati. Ha una sola barra di HP, pertanto memorizziamo i suoi attacchi, devastanti ma abbastanza semplici da evitare, correndole lateralmente.
Le finestre ottimali per attaccarla sono al termine delle cinque spazzate e quando affonda a terra; utili sono le castagnole shinobi per stordirla e poterla colpire 2-3 volte, e i confetti di Ako per aumentare i danni inflitti. Abbiamo visto di peggio, e di peggio ancora ne vedremo.
Grande Serpe
Difficoltà: 🗡
Non un vero e proprio boss, ma uno dei grandi esseri che abitano le terre di Ashina. La prima volta lo incontreremo nel passaggio per la Forra dove, nascosti dentro un palanchino, riusciremo a sferrargli il primo colpo mortale; per ucciderlo dovremo recarci al santuario di ingresso al Monte Kongo, utilizzare l’abilità Ninjutsu burattinaio sul nemico col cappello e far volare l’aquilone.
A questo punto potremo raggiungere un altro passaggio per la Forra, sfruttando l’aquilone e il nostro rampino; dopo una serie di salti, raggiungiamo il trampolino di legno per sporgerci sopra il dirupo ed eseguire un colpo mortale dall’alto. Non resta che goderci l’esecuzione più maestosa di Sekiro.
Orco Incatenato – Castello di Ashina
Difficoltà: 🗡
Stessa boss fight affrontata all’inizio del gioco, si tratta sempre di un Orco Incatenato ma questa volta lo scontro si svolge all’interno di una sala del Castello Ashina; eliminiamo la prima vita del boss dall’alto, dopodiché sfruttiamo lo scenario, in particolare la piccola porta, per incastrarlo ed eliminarlo con facilità. Sfruttiamo le nostre protesi di fuoco e prestiamo sempre attenzione alla sua presa, altrimenti andremo incontro a morte certa.
Ombra Solitaria Mano Infida
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡
Nella stanza dove abbiamo affrontato Jinsuke Saze, troveremo ad attenderci un’altra Ombra Solitaria, detta Mano Infida (Vilehand). All’interno della sala c’è anche un altro shinobi, che potremo far combattere con noi attraverso la tecnica Ninjutsu Burattinaio: il suo aiuto sarà prezioso, anche se piuttosto breve.
Il duello sarà ad altissima velocità, quindi non ha senso scappare, cerchiamo di deviare i suoi colpi e contrattaccare quando ce lo consente; memorizziamo i suoi movimenti e studiamo i momenti giusti per la parata. Attenzione ai suoi attacchi con il pugnale avvelenato, da schivare lateralmente, teniamo pronti comunque gli antidoti. Sconfitto il boss, potremo tornare alla terrazza sul tetto, già teatro del duello con Genichiro, verso il primo finale possibile del gioco.
Grande Shinobi Gufo
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡 🗡
Se scegliamo di rinnegare Kuro, ci avvieremo verso il primo finale – il peggiore possibile – del gioco, il finale Shura e dovremo affrontare, in successione, Emma e Isshin. Se invece rimaniamo fedeli al fanciullo, scegliendo la via di Kuro, ci troveremo ad affrontare nostro padre adottivo, il Grande Shinobi Gufo. Inutile dire che si tratta di uno dei boss più forti e complicati dell’intero gioco, i suoi attacchi sono devastanti e se non si trovano subito le giuste contromosse non avremo speranze.
È importante cercare di memorizzare i suoi attacchi:
Quando ci lancia 2 shuriken, salterà e affonderà la spada a terra: schivare lateralmente e utilizzare il fendente turbine o l’arte equipaggiata; è il momento migliore che avremo per attaccarlo:
Quando ci calcia, salterà indietro e ci lancerà contro degli shuriken: saltiamo via e usciamo rapidamente dalla sua combo;
Quando lancia un solo shuriken, ci caricherà con una spazzata: pariamo e corriamo via, cercando di recuperare rapidamente la postura;
Quando ci verrà contro con la spada, potremo parare o deviare i suoi colpi, stando attenti ai danni alla nostra postura;
Quando lancerà una pallina verde, schiviamo laterale o in avanti, sfruttando la finestra temporale per colpirlo; cerchiamo di non respirare la polvere verde o verremo impossibilitati temporaneamente ad usare la fiaschetta curativa.
Le mosse saranno sempre le stesse, tuttavia si tratta di una boss-fight molto complicata per via della sua incredibile rapidità e degli ingenti danni che il Gufo ci procurerà ogni volta che sbaglieremo approccio. In realtà, dopo innumerevoli tentativi di scontro a viso aperto, ho realizzato che la tattica migliore è quella di muoverci di continuo lungo il perimetroe “provocare” il Gufo ad attaccarci, reagendo rapidamente con la contromossa giusta. Quando abbiamo bisogno di curarci, usiamo la Castagnola Shinobi e prendiamo la fiaschetta con calma, senza prenderci inutili rischi.
Riusciti nell’impresa di togliergli una vita, inizierà la seconda fase dello scontro: il move set del boss rimane lo stesso, aggiungerà di tanto in tanto un colpo a terra che solleva un gran polverone, facendocelo perdere di vista temporaneamente: saltiamo indietro, allontaniamoci velocemente e ricominciamo. Una boss fight molto complicata, lunga e, ovviamente, notevolmente appagante.
Ombra Solitaria Masanaga
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡
Una dannata Ombra, di nuovo.
Sconfitto il Gufo, e scelto un finale alternativo al primo, troveremo l’ennesima Ombra Solitaria, questa volta Masanaga, nel tempio della foresta dei bambù; avviciniamoci di soppiatto ed eliminiamo i cani a protezione dell’esterno, poi entriamo dal retro e togliamo una vita al boss con un colpo mortale alle spalle. Lo scontro è identico a quelli già affrontati, per facilitarci il compito teniamo le distanze ed utilizziamo l’ombrello caricato oppure lo scatto d’ombra. Anche Sabimaru è un opzione, a patto di deflettere con precisione i suoi contrattacchi. Ennesimo scontro ad altissima velocità.
Monaca Reale
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡🗡
Raggiunto il Palazzo della Sorgente ci troveremo ad affrontare la Monaca Reale, in uno scenario dalle tinte autunnali bellissimo. Si tratta di una boss fight piuttosto complicata, ma se non abbiamo avuto problemi in precedenza, non li avremo neanche stavolta.
Il Boss ha ben tre barre HP, ma per nostra fortuna la seconda potremo eliminarla sfruttando l’ambiente circostante, nello specifico i rami degli alberi che delimitano il ponte: se saremo veloci e precisi potremo sferrare il colpo mortale dall’alto.
Ma andiamo con ordine: in questa boss fight dovremo concentrarci sulla postura, quindi attacchiamo, memorizziamo bene i colpi (il suo move set non è difficile da ricordare) e pariamo ogni volta che possiamo, allontanandoci quando siamo in difficoltà; se riusciremo a sfruttare la contromossa Mikiri al termine della sua combocon doppio fendente, le arrecheremo ingenti danni alla postura.
Eliminata la prima vita, saliamo velocemente sull’albero più alto a sinistra, aspettiamo che la Monaca si materializzi sotto di noi e sfruttiamo l’attacco dall’alto per sferrarle il secondo colpo mortale.
La terza fase è senza dubbio la più complicata, in quanto il boss cambia completamente move set di attacco e diventa estremamente veloce, perdendo però, per nostra fortuna, parecchia resistenza ai danni da spada: il consiglio è quello di utilizzare le castagnole Shinobi, stordirla e colpirla più volte che possiamo, per poi allontanarci. Se saremo attenti e veloci, riusciremo a danneggiarle in maniera importante la barra della salute (in questa fase concentrarsi solo sulla barra degli HP) e a sferrarle il terzo e definitivo colpo mortale.
Toro Sakura
Difficoltà: 🗡 🗡
Eliminiamo i samurai sul tetto, poi occupiamoci del Toro Sakura. La strategia è la stessa dello scontro con il Toro Ardente, ma in questo caso saremo facilitati dal nostro livello attuale: corriamogli intorno, restiamogli sempre dietro e colpiamolo quando possiamo, sfruttando i confetti di Ako per aumentare il nostro danno e velocizzare lo scontro.
Capo Okami Shizu
Difficoltà: 🗡
Non si tratta di un vero boss, dobbiamo soltanto raggiungerlo con il rampino, evitare saltando il suo attacco in fulmine e riempirlo di botte rapidamente. Una passeggiata.
Drago Divino
Difficoltà: 🗡 🗡
Nel Regno Celeste ci troveremo ad affrontare il Drago Divino, al fine di ottenere il dono delle lacrime e portare a termine la Recisione Immortale (altro finale possibile).
Si tratta di una boss fight finale molto tattica: per prima cosa eliminiamo i Vecchi Draghi dell’Albero, saltando sugli alberi che spuntano dal terreno e attendendo il momento giusto per sferrare i nostri colpi critici, ricordando di prestare attenzione al veleno che ci tireranno addosso. Eliminati i comprimari possiamo affrontare il Drago Divino; la tecnica è semplice: saltiamo di albero in albero fino a raggiungere quelli con l’elettricità ed usiamola contro il Boss premendo il tasto di attacco; quando verremo spazzati a terra, prestiamo attenzione agli affondi e alle spazzate di spadone del Drago, le prime parando e le seconde saltando e correndo velocemente.
Quando gli avremo tolta molta salute il Drago ci attaccherà con una serie di colpi continui e potenti: proteggiamoci con l’ombrello scudo e stiamo pronti a sferrare il colpo finale, mirando alla testa. Ripetiamo la tattica, curiamoci quando siamo a terra lontani da lui, e in men che non si dica avremo eliminato il Boss (forse) finale del gioco.
Genichiro Ashina
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡
Se abbiamo pensato che il Boss finale, tutto sommato, fosse abbastanza facile, è perché il Drago Divino non è il Boss finale. Raggiunto Lord Kuro nel campo dall’erba d’argento di inizio gioco, troveremo ad attenderci il nostro “amico” Genichiro Ashina: spogliato della sua armatura e abbracciata la Via di Tomoe, dovremo affrontarlo ancora una volta in un epico duello.
Lo scontro è difficile ma non “quasi impossibile” come la prima volta, stavolta avremo a disposizione l’intero campo di battaglia per schivare ed evitare i suoi attacchi; il suo pattern è più o meno lo stesso della terza fase dello scontro precedente, integrando un’ampia spazzata con la lama mortale al posto dell’attacco in fulmine. Il segreto è memorizzare il suo pattern e parare la maggior parte dei suoi attacchi, stando attenti al tempismo e alla nostra postura, e contrattaccare quando possiamo; presto scopriremo di avere delle finestre utili al termine dei suoi attacchi, per danneggiare in maniera significativa salute e postura.
Qualora decidessimo di affrontarlo in duello a viso aperto, scelta decisamente più appagante, questa è la guida a tutti i suoi colpi:
Genichiro alza la spada sopra la testa e inizia una combo lunghissima: memorizziamo e deflettiamo tutti i colpi; al termine, salto indietro o contromossa Mikiri: danneggeremmo pesantemente la sua postura;
Colpo caricato con lama mortale: andiamo velocemente alle sue spalle ed effettuiamo un doppio Ichimonji, per spezzare anche l’eventuale secondo colpo;
Colpo con arco e rotolamento in avanti: deflettiamo la freccia, il successivo colpo di spada e contrattacchiamo;
Quando siamo ad una certa distanza, Genichiro attaccherà in slancio; abbiamo diverse opzioni: fermi/avanti e contromossa Mikiri, schivata alla nostra sinistra e fendente turbine, schivata indietro e doppio Ichimonji;
Due affondi pesanti da destra e sinistra: deflettiamo entrambi e contrattacchiamo; mai, per nessuna ragione, scappare all’indietro: verremo colpiti dalle sue frecce;
Attacco con l’arco: pariamo le sue frecce; non proviamo a defletterle, Genichiro è troppo veloce e imprevedibile;
Salto e affondo: pariamo l’attacco in salto e contromossa Mikiri sul successivo affondo, oppure schiviamo lateralmente, mai indietro;
Simbolo della spazzata: saltiamo e colpiamolo sulla testa.
Colpo circolare in salto: pariamo e basta, attenzione a contrattaccare, Genichiro eseguirà un successivo doppio attacco in salto.
Se non vogliamo rischiare di sbagliare tra deviazioni e contrattacchi, restiamo sempre a una certa distanza, costringendolo all’attacco in salto: schiviamolo indietro o a sinistra e rispondiamo con il fendente turbine, per poi allontanarci di nuovo. Tattica lunga ma estremamente più sicura.
Sferriamo l’ennesimo colpo mortale a Genichiro e godiamoci il final…ehm, il prossimo boss!
Isshin Ashina, il Maestro
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡 🗡
Sconfitto, Genichiro punterà la lama mortale contro di se uccidendosi ed evocando dal suo corpo il potente patriarca della famiglia Ashina, il Maestro Isshin Ashina. Dato che, in caso di nostra morte, dovremo ogni volta sconfiggere Genichiro prima di affrontare Isshin, la coppia Genichiro+Isshin Ashina è di gran lunga la boss-fight più difficile e frustrante di Sekiro: Shadows Die Twice.
Lo scontro con Isshin sarà molto lungo e difficile, ben tre saranno le vite del Boss da spezzare, quindi prepariamoci al peggio.
La prima fase, concediamocelo, è la “più facile”: Isshin ci colpirà prevalentemente con tre tipi di attacco:
Quando inizierà a correre alla sua sinistra, ci attaccherà con tre colpi di spada: corriamo anche noi verso sinistra, al termine della combo facciamo in modo di essere alle sue spalle e colpirlo una/due volte;
Quando abbasserà la testa, ci verrà incontro e colpirà sempre tre volte: questa volta stiamo pronti a parare ed, eventualmente, deflettere e contrattaccare al termine, sempre una sola volta;
Quando metterà mano alla spada e vedremo un luccichio, stiamo pronti a correre e, come nel primo attacco, portiamoci alle sue spalle: sarà la nostra finestra migliore per attaccarlo.
A questi colpi potrà aggiungere di tanto in tanto un affondo Ichimonji, da schivare lateralmente o correndo indietro, e una doppia onda d’urto con la spada, da evitare lateralmente, al termine della quale facciamo in modo di trovarci sempre alle sue spalle per colpirlo. Se ripetiamo lo schema, potremo portare a termine un esecuzione pulita, risparmiando preziose fiaschette per le fasi successive. Altra tecnica, per velocizzare la fase di scontro, è restargli attaccati e parare tutti i suoi colpi, per poi eseguire un doppio Ichimonji al termine di ogni sua combo; quando vedremo l’ideogramma rosso, Mikiri e contrattacco; in questo modo danneggeremo la sua postura e concluderemo velocemente la prima fase dello scontro.
Ora le cose si fanno complicate: Isshin si armerà di una lancia dalla gittata improponibile e ci “sparerà” addosso con una pistola. Cerchiamo di restargli abbastanza vicini, ma non troppo, in modo da costringerlo ad attaccare in salto e affondo: questa sarà la finestra migliore che avremo per colpirlo, corriamo e schiviamo in avanti (mai lateralmente o verremo massacrati) andiamo alle spalle e colpiamolo una/due volte, poi pronti in parata. Possiamo parare quasi tutti i suoi colpi ma la nostra postura ne risentirà, quindi appena possibile usciamo dalle sue combo, recuperiamo postura e ricominciamo. Quando ci sparerà 4 colpi di pistola, proviamo e defletterli e prepariamoci per una contromossa Mikiri al termine, altra finestra importantissima da sfruttare. Quando esegue una serie di spazzate teniamoci a distanza, al termine effettuerà un affondo e quando vedremo il relativo ideogramma prepariamoci nuovamente al Mikiri: viene da se che, sbagliando la tempistica, saremo “oneshottati”, quindi proviamoci a nostro rischio e pericolo.
La terza e, finalmente, ultima fase è come la seconda, con l’aggiunta dell’elettricità: sul campo di battaglia inizieranno a cadere fulmini e, se avremo la sfortuna di incapparci, ci “oneshotteranno” all’istante; oltre a ciò, Isshin aggiungerà al suo pattern di attacco anche un doppio affondo di spada, con seguente scarica elettrica oppure onde d’urto, che ci colpiranno se non schiviamo/corriamo lateralmente.
Il segreto è rimanere concentrati e non arretrare, i suoi attacchi base saranno sempre gli stessi quindi non spaventiamoci dei fulmini, anzi: quando vedremo la scarica e Isshin saltare, aspettiamo un istante, saltiamo anche noi e premiamo attacco per restituirgli la scarica e danneggiarlo in maniera importante. Se siamo in possesso dello strumento prostetico “Ombrello Caricato”, possiamo adottare anche un’altra tecnica per le fasi 2 e 3: quando Isshin ci attaccherà, con pistola o in salto, apriamo lo scudo, pariamo tutti i suoi colpi e al termine effettuiamo un contrattacco; danneggeremo sia la postura che la barra della salute, e noi saremo al sicuro. Ripetiamo fino ad esaurire gli emblemi spiritici, poi o utilizziamo il “Cerimonial Tanto” o cambiamo strategia, passando alla prima tecnica descritta.
Quando, finalmente, riusciremo a rompere la sua guardia e sferrare il terzo colpo mortale, sarà una liberazione, giustiziamo Isshin e godiamoci finalmente, in base alle scelte fatte, uno degli altri tre finali del gioco. Ce l’abbiamo fatta!
Shigekichi della Guardia Rossa
Difficoltà: 🗡 🗡
Terminato il gioco, il Castello e i dintorni di Ashina saranno invasi dai soldati del Governo Centrale. Nell’arena dove abbiamo affrontato il Generale Yamauchi ad inizio gioco, potremo scontrarci con un nuovo boss; le dinamiche sono identiche al duello con il boss Juzou l’Ubriacone, stessi pattern di attacco e punti deboli. Prima di affrontare lo scontro, come per Yamauchi, eliminiamo in stealth tutti i nemici dell’area, utilizzando il confetto di Gachiin.
Sette Lance di Ashina – Shume Masaji Oniwa
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡
Nei pressi del lago Ashina troveremo in Boss Sette Lance Shume; utilizziamo il confetto di Gachiin per eliminare il soldato accanto a lui, scappiamo utilizzando i rami sospesi sul burrone a sinistra e torniamo, sempre invisibili, per togliere la prima vita del boss. La sua lancia è devastante, quindi sfruttiamo la stessa tecnica usata con il Sette Lance già incontrato: doppio salto in testa e affondo, ripetiamo fino ad aprire un varco alla sua postura per sferrare l’attacco mortale. Possiamo anche utilizzare la fuliggine per stordirlo ed eseguire un doppio Ichimonji ma esponendoci alla sua lancia, e non è proprio il caso.
Ombra Solitaria Masanaga – Tenuta Hirata
Difficoltà: 🗡 🗡
Seguendo la quest di Emma per il finale “Purificazione”, ad un certo punto otterremo il sonaglio del padre che ci darà accesso a nuovi ricordi presso la Tenuta Hirata. Sulla nostra strada, tra le fiamme della tenuta, troveremo l’ennesima Ombra Solitaria Masanaga ad attenderci: questa volta non potremo coglierla di sorpresa anzi, sarà lei ad anticipare le mosse e a mandarci contro dei cani rabbiosi con un fischio; affrontare lo scontro all’interno del cortile in fiamme è un suicidio, pertanto occorre una strategia di attacco ben definita.
Voltiamoci indietro ed eliminiamo i tre nemici sul ponte; appena entriamo nella tenuta, utilizziamo gli shuriken per bloccare il suo fischio, dopodiché attiriamola fuori, giù per le scale, fino al ponte di legno: il nostro avversario, allo scoperto, perderà le sue abilità e la sua incredibile rapidità, pertanto potremo incalzarlo a colpi di spada e finirlo con calma.
Gufo – Tenuta Hirata
Difficoltà: 🗡 🗡🗡 🗡🗡
All’interno del salone in fiamme, lo stesso dove abbiamo già sconfitto la Falena dovremo fronteggiare ancora il Gufo, questa volta in versione giovane e potenziata: si tratta, senza mezzi termini, di unaboss fight leggendaria. Rispetto allo scontro al castello, il Gufo disporrà di un pattern di attacco ancora più ampio e devastante, comprese castagnole Shinobi e attacchi di fuoco.
Prepariamoci ad uno scontro lungo e che non ammette errori, pertanto fondamentale, ancora una volta, memorizzare ogni singolo attacco/combo e la relativa contromisura:
Shuriken + spazzata: deflettiamo entrambi e recuperiamo postura;
Doppio shuriken più salto in capriola e affondo: pariamo gli shuriken, schivata laterale e affondiamo un colpo caricato;
Doppio attacco lento, spinta, castagnole shinobi e spazzata: deflettiamo i primi due colpi, usciamo dalla combo e proviamo e allontaniamoci;
Doppio attacco veloce + spazzata: deflettiamo i primi due colpi, doppio salto in testa con fendente e in guardia;
Spazzata: saltiamo, recuperiamo la posizione e pronti a schivare lateralmente l’Ichimonji all’ultimissimo momento, per poi affondare un colpo caricato;
Fumo, salto indietro, castagnole shinobi e affondo: saltiamo indietro e pronti per la contromossa Mikiri (la migliore apertura della boss fight);
Scatti veloci laterali + shuriken: deflettiamo e pronti al successivo attacco.
Questi sono i principali attacchi che il Gufo ci scatenerà contro; se saremo perfetti nelle contromisure descritte riusciremo ad avere la meglio, in genere danneggiandoli la postura, e sferrare il primo colpo mortale.
La seconda fase è identica alla prima, se non per un piccolo e “fastidioso” dettaglio: un gufo in forma di spirito che svolazzerà per il salone, creandoci qualche problema di visuale. Gli attacchi del Gufo in carne ed ossa saranno sempre gli stessi, con un paio di novità:
Quando il gufo volatile si posa sulla spalla del Gufo Shinobi (ma che diamine…?) saltiamo per evitare l’attacco di fiamme, per poi eseguire un Mikiri; questa è la seconda migliore apertura della boss-fight;
Di tanto in tanto il Gufo Shinobi scomparirà: quando questo accade, corriamo senza fermarci, quando riapparirà vedremo un lampo di luce, giriamoci immediatamente ed eseguiamo il lock sul Gufo, pronti al suo attacco.
La boss fight sarà piuttosto lunga, non demoralizziamoci se vedremo la sua salute scendere pochissimo, incalzandolo prima o poi la sua postura inizierà a risentirne, e avremo una possibilità di sferrare il colpo mortale. Se escludiamo la boss fight finale con Genichiro e Isshin, questo scontro è senza dubbio il più bello, difficile e appagante dell’intero gioco.
Emma
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡
Se sulla terrazza presteremo fedeltà al Gufo, rifiutando si seguire la Via di Kuro, sbloccheremo il finale Shura con i relativi boss finali. La boss fight con Emma sarà la pre-boss fight finale, complicata ma non troppo, vale lo stesso discorso fatto per Genichiro e Isshin.
Fondamentale in questo scontro sarà l’abilità scatto d’ombra, con la quale potremo fare danni ingenti ad Emma, mantenendo le distanze dalla sua lama. Possiamo anche duellare con lei colpo su colpo, in questo caso memorizziamo il suo pattern d’attacco e deflettiamo con precisione i suoi fendenti e affondi; la nostra priorità deve essere risparmiare quante più fiaschette curative possibile per lo scontro successivo.
Le aperture migliori sono al termine del suo attacco fulmineo con doppio fendente e la sua presa, da evitare semplicemente allontanandoci quel tanto che basta per poi contrattaccare.
Isshin
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡
Sconfitta Emma, eccoci ad affrontare di nuovo Isshin, il boss finale (del finale Shura, ovviamente).
A differenza degli altri finali, in questo caso Isshin ha solo due vite, ma la seconda ci darà parecchio filo da torcere. La prima fase è analoga alla prima fase di Isshin il Maestro: deflettiamo i suoi tre colpi e contrattacchiamo, attendiamo che porti la mano alla spada e il successivo luccichio per sfruttare la migliore apertura della boss fight.
Nella seconda fase, Isshin si divertirà ad incendiare tutta la terrazza ed effettuerà tre tipi di attacco con il fuoco: i primi due sono evitabili lateralmente, correndo intorno e provando a piombargli alle spalle; l’importante è non rimanere di fronte a lui al momento dell’attacco. Il terzo tipo di attacco è devastante: Isshin alzerà dal pavimento il fuoco, dovremo essere veloci e precisi da posizionarci in una zona dove non c’è fuoco per terra, aspettare il suo attacco per poi deflettere rapidamente la sua combo di attacchi invisibili: se sopravviviamo alla sua furia, il resto del combattimento sarà identico alla prima fase, pertanto non si tratta di una boss fight impossibile.
Se riusciamo a risparmiare gli emblemi spiritici per questa fase, sfruttiamo l’abilità scatto d’ombra per danneggiarlo e chiudere rapidamente lo scontro.
Demone dell’Odio
Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡 🗡
Vogliamo completare Sekiro al cento per cento? Allora dovremo sconfiggere tutti i boss, e per farlo la nostra via passerà inevitabilmente per il Demone dell’Odio.
Questo super boss gigantesco, infuocato e cattivissimo comparirà al termine del gioco, completato con il finale relativo all’alleanza con Kuro, nell’area dove abbiamo sconfitto il Generale Gyoubu Oniwa; se credevamo non ci potesse essere nulla di peggiore della coppia Genichiro-Isshin o del Gufo, forse è giunto il momento di ricredersi, il Demone dell’Odio è probabilmente il boss più spietato in Sekiro: Shadows Die Twice.
Questo ammasso di fiamme e cattiveria dispone di attacchi ad ampio raggio devastanti, in grado di ucciderci all’istante. È fondamentale restargli sempre vicino, andargli alle spalle e colpirlo più volte possibile prima che reagisca: pariamo, schiviamo e torniamo alle sue spalle. Quando salterà, corriamo immediatamente verso di lui, per evitare che possa attaccarci dalla distanza; il boss ha tre vite, quindi armiamoci di pazienza, fiaschette e tanta buona volontà. Scontro difficilissimo.
Non riusciamo a sconfiggere il maledetto Demone dell’Odio? Nessun problema, esiste un glitch che ci consente di eliminarlo senza muovere un colpo di spada. Come? Bene, entriamo nell’arena e dirigiamoci a sinistra sull’orlo del burrone, attirando lì il Demone; a questo punto corriamo verso la torretta vicino le mura, saltiamo sullo spigolo sinistro fino a raggiungere il tettino, da qui spicchiamo un balzo in corsa per aggrapparci al tetto delle mura: sembra facile, in realtà la combo di salti appena descritta è quasi più complicata dell’intera boss fight con il Demone. Provateci, e capirete.
Se riusciremo ad appenderci al tetto, portiamoci sopra il Demone e aspettiamo: nella foga di colpirci, il nostro simpatico amico perderà l’equilibrio e cadrà nel burrone, liberandoci dell’ostacolo finale tra noi e il relativo trofeo.
Finali
Illustrando i duelli con i boss, si è accennato ai finali; ebbene, in Sekiro: Shadows Die Twice ce ne sono ben quattro, tutti meritevoli di essere portati a termine per godere dello splendido lavoro compiuto da From Software. Ovviamente, per sbloccarli tutti, non solo occorrono almeno due run complete, ma dovremo effettuare dei particolari step che altrimenti ci precluderanno una o più opzioni per accedere ai diversi finali.
Finale 1: “Shura”
Il finale più semplice e veloce da ottenere, dopo aver raggiunto il Gufo sulla terrazza prestiamogli fedeltà e rinneghiamo Kuro: dovremo affrontare in successione Emma e Isshin, sbloccando così gli ultimi due boss del gioco.
Seguendo questa via, non avremo accesso all’ultima location del gioco, il Palazzo della Sorgente.
Finale 2: “Separazione Immortale”
Il finale standard del gioco: senza cercare ulteriori indizi lungo l’avventura, raggiunto il Gufo sulla terrazza rinneghiamolo, rimanendo fedeli a Kuro; sconfitto il Gufo, proseguiamo con la storia principale, raggiungiamo il Palazzo della Sorgente e sconfiggiamo il Drago Divino, per ottenere l’ultimo oggetto della quest, il “Dono delle Lacrime”, per portare a termine la separazione immortale e recidere il retaggio del Drago.
Finale 3: “Purificazione”
Il primo finale segreto del gioco: si tratta sempre di raggiungere il Gufo e prestare fedeltà a Kuro.
Sconfitto il Gufo, ci sono dei passaggi che dobbiamo necessariamente seguire:
Senza riposare all’idolo, raggiungiamo dai tetti la stanza di Isshin e origliamo la conversazione tra lui ed Emma;
Torniamo nella stanza di Kuro e consegniamo gli oggetti che abbiamo ottenuto fino a quel punto della storia, riposiamo e vedremo comparire Emma: andiamo dietro le paratie ed origliamo la conversazione tra lei e Kuro;
Riposiamo presso l’idolo, saliamo le scale e parliamo con Emma, mostrandoci d’accordo con lei;
Riposiamo ancora, parliamo di nuovo con Emma poi raggiungiamola alle Tombe Antiche, dove si svolgerà un altro dialogo;
Raggiungiamo il Tempio in Rovina e dal retro del tempio origliamo la conversazione tra Emma e lo Scultore; raggiungiamo all’interno Emma ed otteniamo il Sonaglio per sbloccare ulteriori ricordi presso la Tenuta Hirata;
Nella Tenuta Hirata, affronteremo ancora l’Ombra Solitaria e Juzou l’Ubriacone, per poi sfidare il Gufo nella sala dove in precedenza abbiamo combattuto con la Falena;
A questo punto, completiamo normalmente il gioco e scegliamo nel dialogo finale la via della Purificazione.
Finale 4: “Il Ritorno del Drago”
Il più difficile da sbloccare ma, probabilmente, il finalemiglioreche possiamo ottenere in Sekiro: Shadows Die Twice.
Si tratta sempre di restare fedeli a Kuro e sconfiggere il Gufo; a questo punto dobbiamo seguire una fitta rete di passaggi, nonché completare la quest della Fanciulla Celeste:
Per prima cosa, dobbiamo ottenere il Tomo Sacro del Tempio Senpou: se abbiamo raggiunto il Monte Kongo prima della boss-fight con Genichiro, potremo riceverlo dal Monaco nella Sala Principale del Tempio; se ci andiamo dopo, lo troveremo in fondo allo stagno nei pressi del terzo idolo dello scultore;
Raggiungiamo il Sancta Sanctorum del Tempio Senpou e parliamo con la Fanciulla Celeste: chiediamole del riso, che potremo mangiare o regalarlo all’anziana fedele che prega nei pressi del Monte; riposiamo e chiediamo ancora del riso, ripetiamo fino a che non vedremo la Fanciulla starnutire ed ammalarsi;
Per guarirla, doniamole del Loto, ottenibile lungo il percorso del Monte Kongo, acquistabile dal mercante di zona o regalato da Kotaro, se avremo completato la sua quest con la Girandola Bianca Pura;
Curata la malattia, la Fanciulla ci donerà del riso speciale per Kuro; se ci regalerà del riso normale, riposiamo e andiamo da lei di nuovo;
Doniamo il riso a Kuro e questi ci darà dei dolcetti consumabili; a questo punto la Fanciulla si sposterà nella Sala delle Illusioni, dove abbiamo sconfitto le scimmie; può darsi che la Fanciulla si sposti dopo aver combattuto contro il Gufo o dopo l’arrivo del tramonto, controllare dopo ogni step importante della storia principale;
Una volta che sarà nella Sala delle Illusioni, parliamole e verremo a conoscenza di un secondo Tomo Sacro, recuperabile in fondo alla caverna alle spalle della Sala Principale del Tempio Senpou;
Consegnatole il secondo Tomo, il nostro obiettivo sarà la ricerca dei frutti del serpente: per il frutto fresco dovremo sconfiggere la Grande Serpe, azionando l’aquilone del Monte Kongo e raggiungendo la Forra dal grande albero vicino all’anziana fedele; per il ottenere il frutto secco raggiungiamo la valle del Bodhisattva, scendiamo nella parte bassa dove c’è il mercante e raggiungiamo la grotta del Serpente Gigante: utilizziamo il Ninjutsu Burattinaio sulla scimmia così da distrarre il serpente, raggiungiamo il fondo della caverna e prendiamo l’oggetto della quest;
Consegniamo entrambi i frutti alla Fanciulla e questa ci donerà le Lacrime Congelate, oggetto fondamentale per sbloccare l’ultimo finale del gioco.
“Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto.”
Michael Jordan
Ricordi di una notte di mezza estate. La porta socchiusa della cameretta, la TV sintonizzata sul canale 8 (al tempo Videomusic, precursore di MTV) e gli occhi incollati allo schermo, in scena l’ultimo atto del duello infinito tra i Chicago Bulls e gli Utah Jazz. Era l’estate del1998, le immagini erano in differita e in una risoluzione “obsoleta” per gli standard attuali, ma tanto bastò per farmi innamorare di uno spettacolo chiamato NBA, una pallacanestro così lontana e diversa dalla nostra, gli albori di quello che sarebbe diventato di lì a poco un vero e proprio fenomeno di costume. E tanto bastò per rendermi partecipe, nel piccolo della mia stanza, della fine di un’epoca e l’inizio di una leggenda: quella di Michael Jordan e dei suoi ChicagoBulls.
Scopriamo oggi che una troupe cinematografica, forse nella consapevolezza di quello che sarebbe accaduto di lì a poco, seguì per tutta la stagione 1997-98 i Chicago Bulls, dall’inizio della preparazione alle Finals; le telecamere seguirono per mesi giocatori e dirigenti durante gli allenamenti, le partite e le trasferte, nelle palestre, nei palazzetti e negli alberghi, pronte a cogliere ogni singolo particolare della loro cavalcata verso l’ennesimo titolo, immortalando per sempre una delle pagine più belle nella storia dello sport professionistico. Quelle immagini inedite sono diventate una serie Netflix, The Last Dance, l’incredibile e imperdibile racconto dei Chicago Bulls dominatori della NBA. Un emozionante viaggio nei ricordi per chiunque ami questo sport e abbia un ricordo indelebile di quei momenti, ma in grado di appassionare anche chi non conosce nulla di quella storia, non mastica di basket e non ha mai sentito nominare Michael Jordan (se mai ce ne fossero!).
Perché in fondo non è importante conoscere ciò che è stato, The Last Dance riesce a coinvolgere anche lo spettatore più profano, raccontando una bella storia di sport e di vita. La docu-serie alterna le immagini storiche di quella stagione memorabile ad interviste raccolte nel presente dai protagonisti di quella cavalcata trionfale; è indubbio che gran parte della scena, oggi come ieri, sia catturata da Michael Jordan, simbolo di quella squadra, di uno sport, di una nazione intera, probabilmente lo sportivo più famoso di tutti i tempi. Se sul parquet ne abbiamo ammirato le gesta, con The Last Dance ne indaghiamo la personalità complessa, un uomo votato alla causa con uno stoicismo senza precedenti, ma anche una presenza “ingombrante” e difficile da gestire.
“Vincere ha il suo prezzo. E anche essere un leader.”
Emblematico è stato il suo il rapporto con la squadra: più di una testimonianza rappresenta Jordan come una sorta di tiranno, pronto a “bullizzare” e inveire contro quei compagni che in qualche modo non si impegnavano al massimo o non erano in grado di reggere la pressione, deludendo le aspettative. Lo stesso Jordan, intervistato nel presente, riconosce a volte di aver superato il limite, ma mai come mero atto fine a sé stesso; ogni sua azione era sempre votata alla causa ultima della vittoria, da inseguire a tutti i costi.
“Chi giocava con me doveva adattarsi ai miei standard e non avrei accettato niente di meno. Se chiedete ai miei compagni, di sicuro vi diranno che non chiesi mai a nessuno di fare cose che io non facevo.”
Scopriamo un Michael Jordan presuntuoso e autoritario, oppresso da responsabilità schiaccianti, ma anche comprensivo ed empatico, a tratti commovente, come lo è stato il suo rapporto con il padre, fedele spettatore di tutte le partite del figlio e sostegno nelle difficoltà fino alla sua triste dipartita, cui segue un inevitabile periodo di crisi per la superstar. Dopo tre titoli di fila (dal 1991 al 1993) assistiamo alla caduta, ovvero il primo, chiacchierato ritiro di MJ, che porta Chicago ad interrompere il suo ciclo di vittorie.
Prima della rinascita; perché ormai il mondo aveva conosciuto Michael Jordan, tutti aspettavano il suo ritorno e a lui bastano due parole per decretarlo: “I’m back”. Jordanritorna in pista nel marzo del 1995 quando la stagione si stava già avviando verso i playoffs. Torna in campo, e, dopo qualche minuto d’assestamento, è subito magia, di nuovo; la dinastia dei Bulls riprende da dove si era interrotta, ed il resto è storia. Una carriera, quella di MJ, costellata da successi e grandi imprese sia dentro che fuori dal campo, capace a soli 21 anni di strappare un contratto di sponsorizzazione milionario e di lanciare un’azienda come la Nike hai vertici del suo settore. Ancora oggi le Air Jordan, le mitiche scarpe indossate dal campione nelle sue sei stagioni vincenti, sono un fenomeno culturale, un’icona di stile che ha raggiunto ben 34 edizioni e non accenna a rallentare nelle vendite.
“Posso accettare la sconfitta, tutti falliscono in qualcosa. Ma non posso accettare di rinunciare a provarci.”
Successi. ma anche sconfitte, tante. Quelle subite dai Bulls e da un giovane Michael Jordan a cavallo tra gli anni ’80 e ’90; se oggi parliamo di una franchigia leggendaria è anche perché tante sono state le difficoltà incontrate lungo il percorso di crescita, a partire dalle sonore batoste inflitte dagli acerrimi nemici di sempre, i Detroit Pistons. Sconfitte che hanno temprato il gruppo stagione dopo stagione, compattandolo attorno al proprio leader, sempre il primo ad arrivare agli allenamenti e l’ultimo ad andarsene. Una dedizione totale alla causa, al costante miglioramento personale e dei compagni, che ha portato una squadra tutto sommato ordinaria, al tempo spesso sottovalutata e criticata, a compiere un’impresa straordinaria e a prendersi la sua meritata rivincita nelle finali di Conference del ’91, con un secco 4-0 ai danni dei Pistons, spianandosi la strada per la conquista del primo titolo NBA.
Jordan è il fulcro, l’aggregatore, il vincente attorno a cui gira tutto. Ma anche il Campione si rende conto che da solo non avrebbe mai vinto niente, sarebbe stato ricordato solo come una lista di dati statistici, seppure straordinari. Ecco quindi che la serie lascia spazio ai suoi “comprimari”, se tali si possono definire. Perché giocatori del calibro di Scottie Pippen e Dennis Rodman hanno rappresentato ben più di un contorno, sono stati l’anima di una squadra imbattibile, costruita attorno a un fenomeno ma in cui ogni tassello era incastonato alla perfezione. Senza Pippen, probabilmente Jordan non sarebbe stato lo stesso; è vero, non abbiamo la controprova, ma è tangibile come il loro legame dentro e fuori dal campo sia stata una delle chiavi di volta dei successi dei Bulls. La puntata dedicata a Scottie è meravigliosa, l’infanzia difficile di Pippen, le grane contrattuali, il valore di un giocatore dominante e imprescindibile forse mai pienamente riconosciuto e premiato come avrebbe meritato.
E come non menzionare l’episodio dedicato alla figura “imprevedibile” di Dennis Rodman; un personaggio totalmente fuori dagli schemi, capace di abbandonare il ritiro della squadra durante le finali per “perdersi” in un turbine di alcol, sesso e chissà cosa in quel di Las Vegas. Per poi tornare, più decisivo di prima. Perché se Rodman era il “bad boy”, incontrollabile fuori dal campo, sul parquet è stato uno dei difensori più forti e determinanti della NBA; la sua dedizione alla causa era totale: ore e ore dedicate allo studio degli attaccanti avversari, nonché di ogni possibile traiettoria della palla all’impatto con canestro e tabellone, tanto da renderlo un dominatore del gioco aereo e fargli conquistare per ben sette anni di fila il titolo di miglior rimbalzista della Lega.
Nessun difensore come lui, nessuna squadra come i Bulls. Nel corso di un decennio indimenticabile, ben 6 titoli in 8 anni, sono spesso cambiati gli attori attorno a MJ, ma lo spirito e la mentalità vincente della squadra non sono mai stati intaccati; e di questo, grande merito spetta senza dubbio all’uomo al timone, un mentore più che un allenatore. I successi dei Bulls non sarebbero stati possibili senza coach Phil Jackson, vero spirito guida dei Bulls, non solo in riferimento alla sua passione per i nativi americani, ma soprattutto per la sua concezione del gioco di squadra, capace di ridistribuire il peso delle vittorie e delle responsabilità sulle spalle di tutti i giocatori, al di là del dominio incontrastato di Jordan.
Un allenatore unico nel suo stile, un vincente di natura, come dimostra la sua inimitabile carriera: archiviati i trionfi a Chicago, i suoi successi sono proseguiti con i Los Angeles Lakers di Shaquille O’Neal e dell’indimenticato Kobe Bryant, fenomenale erede cestistico di Jordan, cresciuto nel suo mito e a lui legato da una profonda e sincera amicizia nonché rivalità sportiva, alla cui memoria è dedicata un’intera puntata.
The Last Dance scorre via che è un piacere, una carrellata di immagini e giocate spettacolari godibile ai neofiti e pura scarica di adrenalina per tutti quelli che sono cresciuti nel mito dei Bulls e del numero 23. Nel presente, le interviste indagano le personalità dei singoli protagonisti con una profondità esemplare, rendendo ancor più vivi i ricordi delle loro gesta, ripercorse da nuovi e insoliti punti di vista; e non certo con minore enfasi vengono svelate le sequenze inedite del passato, la cui narrazione procede secondo due filoni principali: da una parte, il racconto dell’ultima stagione, la regular season che ha visto la franchigia protagonista di una cavalcata trionfale fino alle finali e al sesto leggendario titolo, l’ultimo di Jordan & co. Dall’altra, un focus per immagini e spezzoni sugli anni precedenti, le prime stagioni che hanno gettato le basi verso l’ascesa di una squadra al dominio della Lega; ma anche i momenti bui, le sconfitte e i problemi personali di MJ. Perché Michael Jordan non era una divinità, onnipotente sul campo da gioco ma comune mortale fuori, un uomo con i suoi tormenti e le sue debolezze. Dal complicato rapporto con i media alla sua dipendenza dalle scommesse ed il gioco d’azzardo, passando per una passeggera quanto infelice parentesi da giocatore di baseball, tutto è raccontato con dovizia di particolari e di sfumature, rendendo ancora più profonda e sfaccettata una serie solo all’apparenza superficiale.
Dall’ultima giocata della sua straordinaria carriera cestistica, quel canestro che vale una stagione intera, al Michael solitario seduto in poltrona, a rivivere quei momenti di fronte a una telecamera; nel mezzo il viaggio di uomo dalle capacità fuori dal comune, oppresso dal senso di responsabilità e ossessionato dalla vittoria a tutti i costi, più umano di quanto non ci si aspetti, capace di commuoversi e di commuovere lo spettatore, rapito da un racconto che sembra l’opera magna di un grande sceneggiatore, in realtà semplice cronaca di un’autentica pagina di sport scritta dai suoi protagonisti, svelati come uomini prima ancora che campioni. Forse è anche per questo che la serie, al di là dell’incredibile successo di pubblico ottenuto, ha ricevuto anche inevitabilicritiche; una parte di addetti ai lavori, tra i quali ex “colleghi” di MJ, si è sentita offesa dalla rivelazione di alcuni retroscena di spogliatoio, ma c’è anche chi parla di dettagli completamente inventati e di altri omessi e, in generale, di una narrazione ritenuta un pò troppo “parziale”. Ma nel grande ballo di The Last Dance c’è posto anche per questo; anzi, è proprio l’alone mistico e lo stile “romanzato” del progetto ad affascinare ed accrescere ulteriormente la leggenda di un’epopea sportiva già grande di suo; perché, in fondo, tutte le grandi storie meritano un’infiorettatura.
Appassionante e coinvolgente, non serve aggiungere altro. Che siate appassionati di basket, cresciuti nel mito di Michael Jordan o che non ne sappiate nulla, The Last Dance è unaserie imprescindibile che non posso che consigliare a chiunque. Un racconto assemblato magistralmente e dettagliato come pochi che riesce pienamente nel suo intento, quello di immortalare ai posteri le imprese di una dellepiù grandi squadre di sempre e del suo leggendario trascinatore.
Uno strano omino di stoffa, dal passo lieve, danza leggero nell’aria trascinato dal vento, attraverso paesaggi di pura poesia e sinfonie che sembrano comporsi da sole lungo il cammino. Una distesa sabbiosa, sullo sfondo una montagna eterna, solcata da una cicatrice di luce, la meta finale del nostro viaggio.
Descrivere Journey con ulteriori parole è difficile, per comprenderlo bisogna provarlo; dura poco più di un film, ma è un’esperienza commuovente e indimenticabile, un viaggio virtuale e spirituale in cui ognuno di noi è libero di ricercare significati nascosti o trovare le risposte che cerca. Mi stupisce parlarne qui, sono sincero, ma molte delle sensazioni che mi ha regalato non sono riuscito a ritrovarle più, neanche nei titoli più blasonati, e ancora oggi lo ricordo con estremo piacere e un briciolo di nostalgia.
Emozionarsi con semplicità e leggerezza. Perché niente è più semplice del gameplay di Journey; non c’è un tasto per l’attacco, né uno per la difesa. Non ci sono tecniche complesse da padroneggiare o abilità speciali da sbloccare. L’unico tasto attivo è quello che ci permette di spiccare un piccolo salto, tutto qui. E niente è più leggero del nostro personaggio, quasi quanto uno stelo d’erba che ondeggia al vento. È difficile comprendere il nostro ruolo in tutto questo. Vediamo delle rovine tra la sabbia e il nostro istinto ci suggerisce di avvicinarci. Forse i resti di un’antica civiltà. Notiamo una stele di pietra con un simbolo luminoso, una sorta di runa; attorno, dei quadratini di stoffa che si librano nel vento, simili a quello che abbiamo dietro il collo. Ci accostiamo, ne assorbiamo l’energia e i due pezzetti si uniscono a formare una sorta di sciarpa. I nostri balzi sembrano migliorati, ora possiamo saltare più in alto. È questa l’unica meccanica che ci serve conoscere, non abbiamo bisogno di altro. Emettiamo un suono, una sorta di nota, sempre diversa ad ogni partita e per ogni personaggio. Un linguaggio minimale, senza significato, eppure ci sentiamo meno soli.
Avanziamo leggeri in questo strano paesaggio, ci colpisce la palette cromatica di questo mondo abbandonato. Ma c’è ancora vita, e magia. La percepiamo, nelle rune e nei glifi che incontriamo, narratori silenziosi di una storia più grande di noi, forse di ciò che è stato, forse di quello che sarà. Ricostruiamo ponti di stoffa, incontriamo creature simili ad aquiloni, ci vorticano attorno, quasi a ringraziarci di essere lì; la grande montagna sullo sfondo, sempre lì, imponente e immutabile. Strane figure, simili a bianchi sacerdoti, ci accolgono silenziosi alla fine di ogni livello, ripercorriamo il nostro viaggio, la storia si compone innanzi a noi. La danza continua, sempre più veloce, le musiche sono un’estasi che ci fanno vibrare dentro; suoni e immagini sono un tutt’uno, una discesa veloce e poetica di cui non abbiamo memoria, eppure è come se l’avessimo già affrontata. Sempre più giù, poi il buio. L’oscurità eclissa la luce, toni bluastri prendono il posto delle tinte dorate, siamo sul fondo. L’atmosfera è più cupa, avanziamo sommessi. Proseguiamo ma il cuore si stringe, strane creature volano sopra noi, percepiamo la paura, una sorta di terrore ancestrale. Poi una torre, la fine dell’oblio. La risalita è un’estasi di luce e di suoni, siamo di nuovo fuori. E ai piedi della montagna. Inizia la salita finale. Ma in cuor nostro, abbiamo già capito
Journey è un viaggio che racconta la vita, lo percepiamo dentro. All’inizio si cammina, con stupore, in un mondo nuovo; impariamo a saltare, superiamo ostacoli e siamo sempre più in alto, la nostra sciarpa cresce e noi con lei. Cresciamo, e affrontiamo le prime difficoltà, dobbiamo ingegnarci per raggiungere punti apparentemente irraggiungibili; ma sono lì davanti a noi, sappiamo che c’è un modo per raggiungerli e di avere tutti i mezzi per farlo. Le piccole gioie dei successi e la tristezza dei fallimenti, siamo a terra ma possiamo sempre risalire, e la luce che ci accoglie è più forte di prima. La nostra storia è sempre con noi, il quadro finale si compone e riassume tutto quello che è stato. I glifi parlavano di noi, il nostro percorso in un mondo di rovine che forse è lì da sempre, spettatore silente di chissà quanti viaggi prima del nostro e quanti ancora a venire.
Journey ci dà una piccola spinta, lasciando il resto alla nostra fantasia. Ogni viaggio è una scoperta, e una condivisione. Perché capiterà, non di rado, di incontrare viaggiatori silenziosi come noi, qualcuno sta affrontando lo stesso viaggio da chissà quale parte del mondo. Una sola nota per comunicare, ma tanto basta per comprendersi; si avanza leggeri dettando la via, si condividono segreti e simboli nascosti. E storia e il quadro finale ne tengono conto, il dipinto che si va a comporre non è più quello di un pellegrinaggio solitario, ma condiviso, un’amicizia che dura una vita o forse qualcosa di più.
Ciascuno è libero di leggere in Journey un significato diverso, una propria interpretazione del viaggio, magari dettata dalle singole esperienze individuali. Una cosa è certa, Journey non lascerà indifferenti, a meno di essere completamente aridi dentro. Alla data odierna, è pure scaricabile gratuitamente dal PS Store, un motivo in più per dargli una possibilità e regalarsi un’esperienza indimenticabile.
Un pomeriggio freddo e nevoso, il caminetto acceso, io e mia moglie con un plaid sul divano e una nuova serie danese da godersi tutta d’un fiato. Equinox sbarca su Netflix sulla scia di The Rain e Ragnarok, e ancora una volta i nostri amici nordici dimostrano la loro abilità nel saper intrattenere e coinvolgere lo spettatore.
Ci viene subito introdotta la protagonista principale della storia, Astrid, una bambina di 9 anni. È il 1999, la classe appena diplomata sta festeggiando su di un carro, c’è allegria e voglia di divertirsi, alcol e risate scorrono a fiumi; tutti sembrano felici tranne una ragazza, Ida, la sorella maggiore di Astrid. Di lì a poco, tutti i studenti spariranno inspiegabilmente nel nulla. Ci spostiamo nel presente, siamo nel 2020, Astrid è cresciuta ma non ha mai dimenticato; una telefonata misteriosa è il pretesto per rimettersi sulle tracce della verità, fare luce sul tragico evento accaduto 21 anni prima e trovare una risposta a quelle inquietanti sparizioni.
È questo l’incipit di Equinox, una serie raccontata nell’arco di 3 linee temporali distinte e che mescola al suo interno elementi investigativi e soprannaturali, attingendo a piene mani dal folklore e dai riti pagani e ancestrali propri della cultura danese. Partono le immagini a schermo e forte è il richiamo a Dark, alle sue atmosfere cupe e nostalgiche, ai suoi personaggi enigmatici che sembrano pedine di un gioco più grande e incomprensibile. Equinox scorre via lentamente, i suoi tempi sono volutamente dilatati eppure non ci sono mai momenti di stallo, tutto scorre fluido e coerente, con i sei episodi più che sufficienti a chiudere gli archi narrativi esplorati. La storia principale si svolge nel presente, dove l’indagine di Astrid è volta di rimettere insieme i singoli pezzi di una storia che tutti sembrano voler dimenticare; ma è nel passato che si trovano le risposte, in quel maledetto giorno della scomparsa e nel periodo successivo, dove Astrid e la sua famiglia si ritrovano a dover metabolizzare la perdita, con risvolti spesso inaspettati.
La storia è coinvolgente sin dalle prime battute e gran parte del merito va sopratutto alle due attrici protagoniste, entrambe danesi. Stiamo parlando di Karoline Hamm, nelle vesti di Ida, e Danica Curcic, la Astrid adulta che indaga nel presente, ambedue perfette nel restituire la complessità e il dolore di due sorelle forse mai state felici veramente nelle loro vite, ma legate da un profondo e sincero affetto reciproco.
Se la prima restituisce a schermo grande malinconia e rappresenta il cuore del mistero, è la seconda a sorreggere gran parte del racconto, con la sua ricerca senza sosta di una verità che la condurrà inesorabilmente a ricostruire un passato oscuro del quale ella stessa aveva perso memoria. Un’indagine destinata a rivelare un antico culto pagano, in cui rivestono un ruolo centrale i numeri e un dimenticato simbolo ancestrale. Non è un caso che siano 21 gli studenti scomparsi, e che siano passati esattamente 21 anni da quelle sparizioni; tutto ruota attorno al ciclo delle stagioni, ai solstizi e agli equinozi; in particolare, all’Equinozio di Primavera, il primo dei due momenti dell’anno solare in cui luce e tenebra si trovano perfettamente alla pari, da sempre un momento di rinascita in cui la terra viene di nuovo riscaldata dal calore del sole. Una vicenda in cui realtà e mondo onirico si mescolano senza tuttavia mai sfociare apertamente nella fantascienza, mantenendo sempre quella giusta dose di mistero che appassiona lo spettatore e lo conduce per mano verso un finale per nulla scontato, ma che probabilmente non accontenterà tutti.
Una menzione speciale merita la fotografia, avvolgente e di impatto, capace di restituire a schermo la malinconia intrinseca del racconto con le sue inquadrature dall’alto di una Copenaghen grigia e distaccata; purtroppo non dello stesso livello la colonna sonora, appena accennata e quasi mai percepibile durante le scene, un peccato per un fattore che avrebbe potuto rimarcare ed approfondire il senso di mistero generale.
Equinox è senza dubbio una piacevole scoperta, una serie godibile che scivola via senza nemmeno accorgersene, merito di una storia mai complessa da seguire e che si svela con i tempi giusti, con protagonisti che bene restituiscono quell’atmosfera nostalgica e cupa che permea l’intero racconto.
Una serie ipnotica da vivere accettandone i tempi sopiti, una bella storia sul folklore danese sospesa tra sogno e realtà.
Gettare via il DualShock e rifiutarsi di proseguire una sequenza d’azione, seppur digitale, ma che va contro ogni nostro principio morale, realizzando che, forse, ciò che abbiamo tra le mani va ben oltre il concetto di prodotto videoludico. Chi vi scrive ha provato esattamente questo durante l’ultima avventura di Ellie e Joel, lasciati nel lontano 2013 con quella scena potente, tanto un videogioco aveva osato sfidarci come nessuno prima d’ora.
The Last of Us: Parte II è il proseguo e la conclusione di quell’avventura iniziata sette anni fa, e se il primo capitolo ci ha fatto innamorare per poi scherzare con i nostri sentimenti, la seconda parte ci prende letteralmente a pugni, mette in discussione tutte le nostre certezze e ci scaraventa ancor più in profondità in quel mondo post-pandemico dove non esistono più scelte giuste o sbagliate, ma soltanto decisioni e relative conseguenze, il cui peso lo porteremo con noi sino alla fine dell’avventura.
“Giurami che tutto quello che mi hai raccontato è vero.”
Ellie, The Last of Us
L’ultima fatica di Naughty Dog muove i suoi primi passi riprendendo esattamente da dove si era fermato il primo capitolo; quella scena così potente e spiazzante, il dialogo tra Ellie e Joel che ha cambiato per sempre il modo di concepire la narrativa all’interno dell’esperienza videoludica. Ricordo ancora la mia incredulità, come uno schiaffo in faccia, quella semplice e potente risposta – “Lo giuro” – con cui Joel celava ad un’inconsapevole Ellie la scelta di condannare l’umanità intera per un puro e semplice atto egoistico. Sacrificarla per dare una speranza al mondo o strapparla al suo destino, salvare quella ragazzina anticonformista, conosciuta per caso, che aveva portato una luce nel grigio della sua esistenza. La nostraEllie, colei in cui Joel rivedeva le speranze e i sogni infranti della figlia Sarah, la cui vita gli era stata strappata via tra le braccia durante quello che fu l’inizio, o meglio, la fine di ogni cosa; la stessaEllie, immune al virus, forse la chiave per trovare finalmente un vaccino all’infezione che ha cambiato per sempre il volto del mondo.
Parlando a cuor sincero, chi non avrebbe fatto la stessa scelta di Joel? Chi mai avrebbe condannato a morte una ragazzina con cui, tra mille difficoltà, aveva condiviso un lungo viaggio attraverso quello che resta degli Stati Uniti, anteponendole l’idea di una cura per un mondo “malato”, non solo per via del virus, ma devastato nel profondo dell’animo, un’umanità apatica, diffidente e spietata, il cui unico fine è la propria sopravvivenza a discapito del prossimo. Probabilmente chiunque avrebbe fatto quella sceltaegoistica, il fatto straordinario è averla inserita in un contesto ludico in cui ci si aspetta sempre il lieto fine, l’eroe che salva il mondo compiendo il sacrificio estremo. Non ci siamo abituati, vedere il protagonista che antepone il proprio bene rispetto a quello comune. Troppo realismo sbattuto di colpo in un videogioco, senza darci le istruzioni. E senza eroi, lasciandoci in mano semplici esseri umani con le loro fragilità e debolezze.
Ma i videogiochi sono “cresciuti“, sono maturati così come ormai lo sono la stragrande maggioranza dei suoi giocatori, i ragazzini di una volta che sono cresciuti a pane e joystick; siamo maturi e siamo pronti, ci aspettiamo ormai qualcosa in più da questa meravigliosa forma d’intrattenimento. Il confine con il concetto di esperienza realistica è sempre più labile, non solo da punto di vista grafico, ma soprattutto nei contenuti, nei temi trattati e nelle decisioni da prendere; come nella vita reale, dove non c’è una decisione importante che non sia sofferta, che accontenti tutti e ci lasci senza macchia, così nei prodotti videoludici odierni ogni decisione va presa accentandone il peso delle conseguenze, giuste o sbagliate sarà solo il tempo a dircelo.
Joel ha preso la sua decisione, e insieme ad Ellie li ritroviamo a Jackson, uno degli ultimi baluardi di una civiltà che non c’è più. Le loro vite continuano, così come quelle degli altri, ignari di quello che è stato e che poteva essere. Ma il peso delle conseguenze sta per arrivare forte come un macigno, perché se la parabola di Ellie e Joel ha seminato una scia di atti violenti e uccisioni “ludicamente” accettabili, ecco che il gioco sta per sbatterci in faccia un punto di vista differente, di chi sta dall’altra parte, di chi quelle perdite le ha subite sulla propria pelle.
Ed è qui che The Last of Us: Parte II emerge con forza, differenziandosi da tutto il resto. Finora ogni titolo ci ha sempre raccontato la storia da un singolo punto di vista, sai benissimo chi è il tuo alter ego digitale, conosci il suo background, le sue abilità e le sue motivazioni, vai avanti eliminando chi ti sta di fronte, perché è il tuo fine quello corretto, sei tu il protagonista della storia. Giusto? Non necessariamente, e Naughty Dog ce lo ricorda fin dai primissimi minuti. Ci ritroviamo inaspettatamente a giocare con un altro personaggio, non sappiamo chi sia o da dove venga. Ne conosciamo solo il nome, Abby, così la chiamano i suoi amici, degli estranei ai nostri occhi. Proseguiamo senza capire, percependo tuttavia che stiamo dando la caccia a qualcuno, abbiamo un conto importante in sospeso. Siamo sulle tracce di Joel, lo capiremo di lì a poco, lo stiamo braccando ma non ne comprendiamo le motivazioni. Abby non ci sta simpatica, ci dà fastidio giocare nei suoi panni, è tangibile, un disagio che si trasforma in odio quando la situazione precipita e ci ritroviamo di fronte all’inevitabile. Joel finisce nella mani del gruppo e viene brutalmente ucciso. La vicenda la viviamo dalla prospettiva di Ellie, spettatrice impotente del massacro. Joel non c’è più, il protagonista con il quale abbiamo vissuto l’intero primo capitolo, ne abbiamo condiviso i dolori e le sofferenze, l’indifferenza che si è trasformata in affetto verso Ellie, ma anche la rabbia e gli atti violenti con cui ci siamo fatti largo per arrivare sino a quel punto di non ritorno. È questo il potente incipit di The Last of Us: Parte II, il grande motore di vendetta che ci mette in moto, un ultimo viaggio nei panni di Ellie sulle tracce di Abby e del suo gruppo, responsabili di quel crimine inspiegabile ai nostri occhi. Ma sono effettivamente loro i criminali? Perché abbiamo impersonato Abby solo per quel dannato spezzone di gioco al quale mai avremmo voluto assistere? Cosa c’è dietro l’intera vicenda? Non lo comprendiamo ancora, possiamo solo percepire una profondità inquietante alla quale dovremo scavare per trovare le nostre risposte.
Neil Druckmann, direttore creativo del progetto e co-presidente di Naughty Dog, ci ha regalato negli ultimi anni delle sceneggiature memorabili. La saga di Uncharted e, ovviamente il primo The Last of Us, sono il biglietto dal vista di una delle menti creative più brillanti del mondo videoludico nonché esempio, più in generale, di come vanno raccontate le belle storie; perché non basta avere una buona idea, bisogna saperla rivelare con i tempi giusti, coinvolgendo l’utente e suscitando in lui le stesse sensazioni che proverebbe vivendole sulla propria pelle. Solo così le belle storie diventano reali, ti entrano dentro e non ne escono più.
Tre giorni piovosi in una Seattle spettrale, con l’ombra degli infetti e di un nemico senza nome, che si muove nell’ombra. Tre giorni a disposizione di Ellie e la sua compagna Dina per dare risposta a tutte le domande in sospeso, in un crescendo di suspense e violenza che già intuiamo dove ci sta conducendo. Intanto scopriamo che Dina è incinta; cosa abbiamo fatto: l’abbiamo trascinata in questo inferno. In realtà è stata una sua scelta, ma sapevamo che sarebbe stato così, non ci avrebbe mai lasciato da sole. Un teatro abbandonato come ricovero, la base da dove iniziare la ricerca; fuori piove incessantemente, Dina sta male, è debole e febbricitante, non può uscire insieme a noi. E da soli, là fuori, è ancora peggio. Fuggiamo da orrori di ogni tipo, ci lasciamo dietro una scia di sangue e ci macchiamo di violenze che ci fanno stare male, non ne comprendiamo bene il motivo ma sentiamo che qualcosa non va per il verso giusto, iniziamo a mettere in discussione le nostre certezze. Nella nostra spirale di vendetta uccidiamo una ragazza e il suo compagno, a sangue freddo; scopriamo solo dopo che la ragazza era incinta. Il pensiero vola subito a Dina; Ellie si sente male, noi con lei. Non possiamo più andare avanti, per fortuna sentiamo di essere prossimi all’epilogo. Almeno così crediamo. Perché l’inevitabile scontro con Abby non è la fine, è solo l’inizio. O meglio un nuovo, sconvolgente inizio.
Lo schermo si oscura, torna la luce e ci ritroviamo di nuovo nei panni di Abby, stavolta adolescente, in un bosco insieme al padre. Stiamo prestando soccorso ad una zebra ferita; i colori sono più accesi, si respira un aria nuova, c’è amore, serenità, la voglia di vivere e la speranza si toccano con mano. E poi, finalmente, capiamo. La verità ci travolge come una tempesta, Druckmann sfodera il suo asso nella manica, The Last of Us: Parte II ci colpisce forte allo stomaco. Perché c’eravamo anche noi nel viaggio di Ellie e Joel attraverso il Paese, siamo anche noi responsabili della scia di sangue che è stata lasciata alle spalle, sino a quel maledetto ospedale di Salt Lake City, dove la scelta di Joel ha cambiato per sempre il corso degli eventi. Siamo usciti da quell’ospedale con Ellie tra le braccia, colpevoli forse di aver annientato l’ultima speranza del genere umano, di certo consapevoli di aver spezzato le vite dei medici che stavano lottando per sviluppare finalmente una cura. Ma al tempo nessuno ci aveva prestato caso, l’amore tra Ellie e Joel era troppo forte, più grande di ogni altra cosa, del mondo intero, importava solo quello. Scoprire che il padre di Abby era a capo di quell’equipe medica ci fa male, solo ora percepiamo le conseguenze delle nostre azioni. Non sappiamo più cosa pensare.
E sono ancora tre giorni piovosi a Seattle, gli stessi tre giorni ma vissuti dall’altra parte della barricata, dove assistiamo alle vite spezzate dei nostri affetti, di una Mel in dolce attesa e del suo compagno Owen, il ragazzo con cui siamo cresciute e che abbiamo amato sin da piccole. Ora quei corpi freddi hanno un nome, da vittime sacrificali del nostro viaggio di vendetta diventano improvvisamente personaggi con una vita, un passato, con i loro sogni e speranze infranti da un turbine di violenza assurda lasciata alle spalle da una spietata ragazzina anticonformista. E il mondo ci cade addosso, odiamo noi stessi per aver odiato una Abby di cui non sapevamo nulla, per noi era solo la “cattiva” del videogioco. Invece di cattivo non ha un bel niente, è solo un’altra faccia della stessa medaglia, una persona che come tante ha lottato per sopravvivere in questo mondo dilaniato dall’infezione, che ha voluto bene al padre, ha pianto e sofferto. Ha vissuto gli orrori e i pochi momenti di felicità sulla propria pelle, proprio come Ellie. E come noi dall’altra parte dello schermo. E odiamo Ellie, dopo averla tanto amata. Tanto ci ha fatto commuovere al tempo quanto ci fa arrabbiare adesso.
Sappiamo che, prima o poi, dovremo rivivere lo scontro tra Ellie e Abby e già stiamo male. Sappiamo che non sarà come affrontare il classico boss di fine gioco, stiamo imparando che The Last of Us: Parte II non è il classico videogioco. È un’esperienza totalizzante e sconvolgente, ci sta dando una lezione, ci sta insegnando a non giudicare, emettere sentenze senza prima comprendere, senza mettersi nei panni dell’altro. La vendetta per noi ha perso ogni significato, ma non per Ellie, una Ellie scavata in volto, segnata dalla violenza e dal quel maledetto desiderio al quale non riesce a staccarsi. Noi lo abbiamo fatto già da un pezzo, siamo stanchi. Abbiamo già perso Joel, ora stiamo rinunciando a quello resta, all’affetto di Dina, a una vita “tranquilla” per quanto possibile dopo gli orrori di una vita vissuta sempre in fuga, a guardarci le spalle. Vorremo urlarle contro “basta così, ti prego”. Ma il videogioco non ha ancora finito con noi, la lezione non è ancora finita, c’è ancora una sequenza tremenda da affrontare.
Siamo in una spiaggia dalle tinte spente, domina un grigio funereo; Ellie stringe tra le mani il collo di Abby, il lungo viaggio è finito. Il Dualshock in mano e solo un tasto da premere. Ora ditemi voi quante altre volte vi siete trovati a rifiutarvi di premere un maledetto tasto, di gettare via il pad e non volerne più sapere niente. Ve lo dico io, mai. Perché mai un videogioco è riuscito a fare questo, a rompere la quarta parete e renderci così coinvolti in quanto sta accadendo a schermo, di toccarci a tal punto da farci portare il peso reale delle conseguenze di un azione digitale.
“Non credo che potrò mai perdonarti. Ma mi piacerebbe provarci.“
Ellie, The Last of Us: Parte II
Eppure siamo costretti a farlo, il gioco è lì che aspetta e non accenna a muoversi senza di noi; premiamo quel maledetto tasto, quasi senza guardare; per fortuna dura poco. È un attimo: Ellie è al culmine della vendetta quando lo vede, rivede Joel seduto in veranda con la chitarra in mano, la sera prima di morire; la sera in cui Ellie aveva deciso di dargli una possibilità, di perdonarlo nonostante la sua decisione e tutto quello che ne era seguito. Perché si, alla fine Ellie lo aveva capito. La grande bugia di Joel, l’atto che aveva condannato l’umanità intera, e che Ellie non gli aveva mai perdonato. Forse in cuor suo lo aveva sempre saputo, ma non voleva ammetterlo. È solo un attimo, un fugace ricordo ma tanto basta per redimerla, per accettare che ormai niente e nessuno potrà cambiare quello che è stato. E la lascia andare. Abby si allontana in barca, Ellie rimane seduta a riva, sola nel grigio di quel momento spettrale. Tiriamo un sospiro di sollievo, ma non siamo sollevati, ci siamo spinti troppo oltre per poter tornare indietro, niente sarà mai più come prima.
Non sappiamo se il mondo dei videogiochi sarà più lo stesso dopo questo capolavoro, solo il tempo potrà dircelo. Se un giorno si parlerà di un pre e post The Last of Us: Parte II, come una sorta di spartiacque più che generazionale, di tipo esperienziale. Di certo Naughty Dog ha dimostrato a tutti che infrangere la quarta parete è possibile, raccontare una storia dal respiro cinematografico combinandola all’esperienza ludica è possibile; e che vivere il paradosso delle nostre emozioni in un istante e mettere in discussione il nostro operato, seppur digitale, è possibile. Ma soprattutto, che è possibile raccontare una storia da due punti di vista opposti, insegnandoci quanto sia sbagliato trarre conclusioni affrettate o elargire facili giudizi sulle persone che incontriamo, nel gioco come nella vita, perché non siamo sempre e solo noi i protagonisti.
Ed è questa la vera grandezza di The Last of Us: Parte II.
Mai citazione fu più azzeccata per coglierne l’essenza, nonché lo spirito con cui si dovrebbe approcciare l’ultima pellicola di Christopher Nolan.
Perché Tenet è un film pericoloso se approcciato nella maniera sbagliata, è un viaggio senza ritorno nella “problematica” mente di un Nolan all’apice della sua complessità creativa. Se manipolare le leggi della meccanica quantistica è un gioco da ragazzi per il regista londinese, scherzare con l’intelligenza dello spettatore è ben altra cosa; ecco perché Tenet è un film da vedere a cuor leggero e a mente libera, senza sforzarsi nel tentativo di dare una spiegazione a tutte le cose “anomale” che accadono a schermo, altrimenti si rischia il black-out ben prima dei titoli di coda.
Non che sia una novità, chiaro. Il cinema di Christopher Nolan è da sempre sinonimo di complessità. L’intreccio narrativo che caratterizza le sue opere, la non linearità temporale degli eventi e i suoi contenuti che giocano apertamente con le leggi della fisica dividono da sempre, in maniera netta, il pubblico. Chi vi scrive, oltre ad essere un’appassionato e studioso di materie scientifiche, prova da sempre ammirazione per le pellicole del regista inglese e per la sua particolare visione del cinema, volta a instaurare con lo spettatore un rapporto quasi di sfida, del tipo “la mia storia è semplice ma ora ti confondo le idee, vediamo se riesce a starmi dietro“. Una sorta di “ego fuori controllo” quello di Nolan il quale, conscio di avere una buona formazione di base, delle idee tutto sommato brillanti e le giuste tecnologie – nonché il budget – a disposizione, ogni volta catapulta lo spettatore all’interno di un racconto disarticolato, distorto e ricomposto da qualche parte nello spazio-tempo, mostrando a tutti chi ce l’ha più lungo. E sbattendoti in faccia le sue regole, ben precise e confinate, che vanno capite quanto prima per tenere il filo della narrazione senza arrivare storditi alla fine.
Per chi come me ha bisogno di avere sempre tutto “sotto controllo”, la visione di ogni nuovo film di Nolan è sempre una sfida stimolante, ma anche snervante, non riesco proprio a godermi un singolo fotogramma senza comprendere a fondo il motore scatenante di quel singolo fotogramma, il come e il quando, da dove è venuto e dove sta andando. Insomma per farla breve ed entrare in tema, avere il pieno controllo della sua entropia.
In Tenet tutto questo è mentalmente impossibile. Il film corre via veloce fin da subito, scaraventando lo spettatore nel pieno dell’azione adrenalinica di un assalto al Teatro dell’Opera di Kiev, non dandogli il tempo di capire cosa stia succedendo e perché. E le cose peggiorano quando vengono introdotti – male – i primi concetti di fisica “fai da te” sul comportamento del tempo intrinseco in alcuni oggetti; in men che non si dica siamo già alienati dalla pellicola, assistiamo impotenti allo scorrere di immagini a schermo senza alcun apparente nesso logico, basiti innanzi all’escalation dell’entropia nolaniana. A memoria, neanche durante il corso di Meccanica Razionale ero mai andato così in difficoltà.
Ma perché è così difficile seguire Tenet?
In effetti la sua trama è quanto di più semplice si possa immaginare; se dovessi raccontarla in poche parole a chi non ha visto il film, sarebbe una cosa del tipo: “un cattivo russo ha in mano un dispositivo per la fine del mondo, un agente segreto ha il compito di fermarlo“. Tutto qui, niente di più semplice. La pellicola ha tutti i connotati della classica Spy Story alla James Bond, o del nuovo capitolo della saga di Mission Impossible; in Tenet non c’è davvero nulla di innovativo nel plot narrativo, ci sono i classici inseguimenti, le sparatorie, gli abiti alla moda, il cattivone di turno, tutti i cliché del genere sono al loro posto.
Ma, quindi, cos’è che rende Tenet così complicato da seguire? Il fatto di essere un film di Nolan è già un indizio, perché lo sappiamo, al regista londinese non piace mai raccontare una storia semplice e lineare, deve per forza incasinare tutto. E questa volta lo fa partendo tutto sommato da un’ideabrillante; peccato che poi si perda irrimediabilmente nel suo sviluppo, ma andiamo con ordine.
“Viviamo in un mondo crepuscolare”
L’idea di base della pellicola è il concetto di inversione temporale. In un futuro non meglio precisato, colpito da un cataclisma causato dagli errori della generazione presente, è stata inventata una tecnologia che consente di “invertire” il normale scorrere del tempo e ripercorrere gli eventi a ritroso. Questa tecnologia può essere applicata anche agli oggetti ed è stata impiantata in un algoritmo, una sorta di congegno meccanico scomposto in nove elementi che vengono rispediti indietro nel tempo. Nel presente, l’algoritmo finisce nelle mani di un criminale russo malato di tumore il quale, in accordo con l’umanità del futuro – non si capisce in quale modo – decide di trascinare l’umanità del presente nel suo tragico destino, cancellando così la generazione colpevole del futuro disastro. In questo scenario entra in gioco il nostro eroe, l’agente segreto senza nome al servizio della Tenet, un’organizzazione creata allo scopo di vigilare sull’intero loop temporale generato, con l’ingrato compito di sventare l’imminente apocalisse.
Tuttavia, se il concetto di “reverse” introdotto da Nolan è geniale nelle intenzioni, nella messa in pratica finisce per creare una confusione senza precedenti, rendendo di fatto tremendamente complicato tenere il filo di una storia che in realtà non lo è affatto. A schermo la tecnologia ci viene mostrata la prima volta con l’esempio della pallottola che rientra nella canna dell’arma da cui è stata esplosa. Pochi minuti dopo ecco la scienziata di turno che spiega al nostro “Protagonista” – si chiama davvero così, non ha un altro nome – come nel futuro sia possibile invertire gli oggetti grazie ad un’inversione di entropia e, nel caso specifico, come una pallottola invertita possa fare molti più danni di una normale. E perché? Non lo sappiamo, nessuno ce lo spiega e va bene così, non vogliamo saperlo. In realtà all’inizio sembra tutto dannatamente interessante, finalmente un qualcosa di nuovo sul tema, non vediamo l’ora di vedere come verrà sfruttata questa incredibile tecnologia. Ve lo dico subito: malissimo, e la puzza di bruciato inizia a sentirsi già verso la metà del film, quando si arriva alla fatidica sequenza del “tornello“.
Perché in realtà la misteriosa e mirabolante inversione temporale altro non è che uno specchietto per le allodole; le allodole siamo noi, e lo specchietto serve ad introdurre l’ennesimo, inflazionato e stra-abusato concetto di viaggio nel tempo. Evviva. Il tornello è “chiaramente” un tornello temporale, ci entri in avanti, esci dall’altra parte andando all’indietro. Nel senso che dall’altra parte sei tu ad andare all’indietro, il mondo va avanti sempre e comunque, sei tu l’oggetto invertito che procede al contrario, parla al contrario e quindi può tornare indietro nel tempo. Indossando una mascherina per l’ossigeno, altrimenti i polmoni invertiti non riescono a gestire l’aria che procede nel verso normale. E perché? Non lo sappiamo, nessuno ce lo spiega e va bene così, non vogliamo saperlo. Ah, e se prendi fuoco ti congeli. E, diamine, almeno qualcuno ci spiega come è stato realizzato quel maledetto tornello nel presente, se la tecnologia ancora non esiste? D’accordo Christopher, non vogliamo sapere neanche questo.
A metà film è chiaro quindi come la pellicola abbia raggiunto la fine, da lì in avanti si procede a ritroso, con i nostri eroi che vanno letteralmente all’indietro, incontrando gli stessi del passato che vanno in avanti, in una confusione scenica che ci accompagna sino ai titoli di coda. Titoli di coda ai quali si arriva inevitabilmente con il mal di testa, e con quella sensazione di insoddisfazione non tanto per non aver compreso il finale, quanto per le dinamiche che ci hanno condotto sin lì.
“Nessun amico al tramonto”
Un vuoto dentro, un vuoto freddo come il film, perché ad aggiungersi alla complessità visiva generale, che detto tra noi ci può anche stare – alla fine è sempre un film di Nolan – c’è una caratterizzazione dei personaggi praticamente inesistente. Ed è questo il vero, grande problema del film. Dannazione Christopher, ma come faccio ad appassionarmi al tuo film, che già faccio fatica a seguire, se non so praticamente nulla dei suoi personaggi? Del “protagonista”, interpretato dal buon John David Washington figlio del più famoso Denzel, non sappiamo niente, del suo passato, delle sue motivazioni, di nulla; lo troviamo lì, che va avanti, poi indietro, senza farsi mai troppe domande sugli eventi bizzarri che gli capitano attorno – e già questo è sconvolgente di suo – per poi scoprire alla fine della fiera che in realtà è stato proprio lui a fondare la Tenet nel futuro e a reclutare il sé stesso del presente, nonché tutti gli altri comprimari. Una rilevazione che purtroppo non risulta per nulla interessante, non perché non lo sia, ma perché arriva con una bella dose di apatia generale ad uno spettatore ormai stordito. Ben più interessante sembra essere il comprimario Neil, grazie anche ad un’ottima interpretazione di Robert Pattinson, se non fosse che anche il suo personaggio manca del più benché minimo approfondimento, risultando alla fine freddo quasi quanto tutto il resto. Non c’è eccezione a questo dogma intrinseco del film, neanche per il villain Andrei Sator, un Kenneth Branagh senza infamia e senza lode, mai a pieno agio in una parte evidentemente non sua. E per l’immancabile Bond /Tenet Girl della Spy Story, Elizabeth Debicki alias Kat, unico personaggio con un minimo di background seppur poco rifinito, nonostante sia la sola a restituire un pò di umanità a schermo.
L’assenza totale di caratterizzazione stona con il livello complessivo di recitazione regalato dal cast, rendendo di fatto impossibile l’empatia con i personaggi; ma si tratta di una precisa scelta registica, al centro della scena devono restare l’azione e il tema dell’inversione temporale. Peccato però che quello che doveva essere il punto di forza finisca inevitabilmente per essere solo un confusionario anello debole. Per tutta la durata del film si ha una costante sensazione di mancanza, sembra mancare sempre qualcosa, che siano spiegazioni un pò più chiare e coerenti di fatti astrusi o addirittura intere sequenze. Durante la mia prima visione, sono sincero, ero convinto che avessi perso conoscenza, dovevo per forza essermi perso qualcosa perché c’era troppa confusione nel montaggio; la seconda visione mi ha confermato che in realtà non ero svenuto, la pellicola è confusionaria di suo. E quando si ha la netta percezione di scene mancanti, di qualcosa che non torna, e non perché deve rimanere volutamente un mistero ma perché è stato spiegato male, è segno che il film non ha fatto il suo dovere.
E non voglio neanche scomodare l’enigma del palindromo alla base dell’intera pellicola di Nolan, il celebre quanto misterioso quadrato del Sator che recita: “SATOR-OPERA-TENET-AREPO-ROTAS” per il quale potrei aprire altre cento parentesi senza trovare alcun nesso logico con il tema del film. Non ci sono significati profondi o nascosti – o almeno io non li ho trovati – se non una quantomai casuale attribuzione dei suddetti nomi a diversi soggetti presenti all’interno del film per far tornare i conti, un pretesto per giustificare il suo impiego all’interno di un racconto nel quale non ce n’era davvero bisogno. Un MacGuffin, insomma.
“L’ignoranza è la nostra salvezza”
Perfetto! Ce lo dice proprio il film, anzi lo ripetono di continuo al protagonista che per giunta non sembra neanche porsi troppe domande al riguardo, quindi che motivo abbiamo noi di affannarci così tanto a risolvere il mistero. Quello che ho capito – perché in fondo qualcosa l’ho capita in questo film – è che bisogna guardare Tenet a cuor leggero, senza l’ossessione di voler comprendere tutto. Per quanto ci si possa provare e, fidatevi, le ho provate tutte, addirittura mettendo in pausa e riavvolgendo le scene già invertite con il rewind – si lo so, è complicato – per ricomporre il flusso degli eventi, resta sempre qualcosa di inafferrabile, il più delle volte si corre il rischio di aprire una scatola per trovarne all’interno altre due.
Tenet è dunque un film da vedere? Ma certamente, dovete “flipparvi” il cervello pure voi. Battute a parte, qualcosa di buono c’è in effetti, come la fotografia generale e la colonna sonora a temi invertiti firmata Ludwig Göransson. E, ovviamente, le scene d’azione, certo caotiche, ma di una confusione tecnicamente memorabile; vedere soldati che avanzano accanto ad altri che indietreggiano, palazzi distrutti che si ricompongono per poi crollare di nuovo, è un’esperienza visiva unica nel panorama cinematografico, e pure divertente (in realtà volevo dire comica ma ho già scritto troppe cattiverie).
Chi avrà la capacità di approcciare Tenet con la giusta spensieratezza, potrà sperimentare un paio d’ore di caotico intrattenimento, tutto sommato il film è un perfetto e costosissimo esercizio di stile, asettico ma meritevole di essere quantomeno visto.
Ma senza porsi troppe domande, mi raccomando. Fa male all’entropia.
Amo Quentin Tarantino. Il suo cinema, si intenda. E adoro i suoi film.
Me ne sono innamorato ancora giovanissimo un giorno a scuola quando, durante i giorni dell’occupazione – un classico di fine novembre – gli studenti più grandi, in quella che ribattezzarono “l’aula cinema”, mi mostrarono per la prima volta Le Iene. Al tempo non conoscevo ancora Tarantino, né avevo idea di cosa aspettarmi da quel film.
Rimasi estasiato. Furono sufficienti i primi dieci minuti per realizzare che avrei adorato quello stile di cinema, nulla era ancora accaduto a schermo, la trama neppure accennata eppure ero già coinvolto nell’intera vicenda. L’oggetto della discussione, tra quelli che presumevo fossero i protagonisti, era il significato di “Like a Virgin“ di Madonna, nulla a che fare con il plot narrativo del film. Il linguaggio diretto e ironico, la costruzione spontanea dei personaggi, i dialoghi che si prendono la scena, sostituiscono l’azione e sono il pilastro attorno al quale si sviluppa l’intera vicenda. Fu come un’illuminazione.
Bastarono quei primi dieci minuti per cambiare la mia visione del cinema. E bastano quei primi dieci minuti per spiegare a chiunque l’essenza di quello che, di lì a poco, sarebbe diventato il cinema “tarantiniano”.
1992. Le Iene
“Fate Mezzogiorno di fuoco in una gioielleria e vi sorprendete perché arrivano gli sbirri?”
Eddie
Le Iene racconta di una rapina andata male; una rapina che non viene mai mostrata a schermo, eppure lo spettatore è come se ne avesse preso parte. La lenta ricostruzione dei fatti è affidata unicamente ai dialoghi dei sei partecipanti al colpo i quali, rifugiatisi all’interno di un capannone abbandonato, iniziano a ragionare sulle cause della disfatta e a sospettare l’uno dell’altro, in una spirale di delirio che conduce inesorabilmente la banda all’autodistruzione.
Dialoghi taglienti e ironici, diretti, pieni di digressioni apparentemente senza senso, semplicemente geniali nella scrittura. Tanti dialoghi, e tanta, tanta violenza. Forse anche troppa. Perché il cinema di Tarantino è anche questo. Una celebrazione della violenza che diventa “arte” tra le mani del regista, le scene più crude oggi sono sequenze emblematiche, fanno parte dell’immaginario collettivo, al punto che la grottesca ironia intrinseca nelle stesse supera il concetto di brutalità e ferocia che esse palesano.
In questo senso, una delle sequenze più celebri del film, la scena della tortura messa in atto da Mr. Blonde (Michael Madsen) ai danni di uno sventurato poliziotto, sulle note di “Stuck in the Middle with You”, è l’esempio perfetto che sintetizza il paradosso della violenza tarantiniana: una scena che lo stesso attore, appena divenuto padre, si rifiutò più volte di girare, che addirittura fece abbandonare la sala a Wes Craven durante una delle prime proiezioni, è oggi una delle sequenze più iconiche e riconoscibili del cinema moderno, fonte di citazioni più disparate e meritevole di action figure dedicate.
Le Iene oggi è considerato un cult, l’inizio di una lunga carriera dietro la macchina da presa che ha cambiato per sempre la storia del cinema. Ma l’accoglienza del pubblico non fu così calorosa: si parlò di violenza gratuita ed eccessiva, ci fu anche chi accusò Tarantino di plagio; certamente non si può dire che il film passò inosservato. Fu evidente come quel genere di cinema necessitava di tempo per essere metabolizzato dalla massa, come puntualmente colto dalla critica:
“Non penso che il pubblico fosse pronto. Non sapevano cosa fare con Le Iene. Fu come il primo film muto, quando la gente vide il treno che arrivava verso la telecamera e uscì dalla sala di proiezione.”
Jami Bernard, New York Daily News
Selaprima opera del regista di Knoxville si può etichettare come qualcosa di inaspettato e rivoluzionario, è con la seconda, nel 1994, che arriva la prima, vera consacrazione.
1994. Pulp Fiction
“Il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi. Benedetto sia colui che nel nome della carità e della buona volontà conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre; perché egli è in verità il pastore di suo fratello e il ricercatore dei figli smarriti. E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare ed infine a distruggere i miei fratelli. E tu saprai che il mio nome è quello del Signore quando farò calare la mia vendetta sopra di te.”
Ezechiele 25,17
Chi ama il cinema di Tarantino probabilmente conosce questi versi a memoria; sfido chiunque abbia visto il film la prima volta ad ammettere di non essere corso a procurarsi una Bibbia per ritrovare il passo in questione – in realtà fittizio – nel libro di Ezechiele; oggi basta digitare il nome del profeta su Google che subito appare il celebre versetto, e penso questo sia sufficiente a dare l’idea dell’impatto che avuto il cinema di Tarantino sulla nostra cultura di massa.
Il versetto, qui recitato da un Samuel L. Jackson in stato di grazia, diventa la classica frase ad effetto da elargire prima di un’esecuzione a sangue freddo. Perché questo è quello che fanno i gangster nella Los Angeles di Tarantino, la giornata tipica di Jules Winnfield, appunto Jackson, e Vincent Vega, nel ruolo che vale la rinascita per John Travolta. L’intero film vanta un cast incredibile: da Bruce Willis nei panni del pugile Butch, ad Harvey Keitel, l’indimenticabile Mr. Wolf che “risolve problemi”, fino ad arrivare ad una giovanissima, e sorprendente, Uma Thurman, il cui volto divenne di fatto il simbolo di Pulp Fiction; la sua posa sul letto con la sigaretta tra le dita, la pistola e la rivista pulp accanto, è senza ombra di dubbio una delle locandine più iconiche della storia del cinema.
Pulp Fiction è un mosaico di sequenze memorabili, in cui interi dialoghi sono costruiti su fatti o eventi mai portati a schermo – come dimenticare in tal senso il celebre “massaggio ai piedi” – ma necessari a introdurre i diversi personaggi in scena e che fungono da collante tra i vari capitoli. Un nuovo modo di fare cinema, in cui scambi di battute taglienti ed ironiche si alternano ad una violenza gratuita, trattata il più delle volte con leggerezza, una sorta di umorismo nero che pervade le sue pellicole ed è tratto tipico dei suoi protagonisti.
Il citazionismo tanto amato da Tarantino, e che permea indistintamente tutte le sue opere, trova in Pulp Fiction la sua massima espressione nella “misteriosa valigetta” dal contenuto luminoso, trasportata a destra e manca dal povero Vincent Vega; come non tirare in ballo il geniale MacGuffin di Alfred Hitchcock, termine coniato dallo stesso regista per indicare un elemento scenico di importanza cruciale per i protagonisti, in realtà privo di un vero significato per lo spettatore, ma unicamente un espediente narrativo per mettere in moto gli eventi che seguono.
Eventi che sono messi in scena con abile “disordine” dal parte del genio di Knoxville. Storie di gangster, di un pugile e della moglie del boss si intrecciano sullo sfondo di una Los Angeles quotidiana, raccontata attraverso scorci urbani semplici, in cui tuttavia emerge l’amore di Tarantino nei confronti della città, un amore che esploderà con forza più avanti, nella sua più recente e ultima opera.
Non tutti sanno che Pulp Fiction doveva inizialmente nascere come il primo di un serie di cortometraggi incentrati sul mondo del crimine; l’idea di Tarantino era quella di partire da situazioni “classiche” per poi inserire qualche imprevisto che facesse precipitare la situazione. E se le situazioni raccontate sono piuttosto “semplici”, la vera grandezza del film sta nella particolare narrazione degli eventi. Con Pulp Fiction nasce di fatto la celebre “scomposizione cronologica” degli accadimenti, marchio di fabbrica delle produzioni di Tarantino: sequenze appartenenti a momenti temporali diversi vengono collocate in una forma apparentemente lineare; si viene pertanto a creare una narrazione circolare ed irregolare, in cui il quadro d’insieme si può avere solamente raggiunti i titoli di coda.
Al netto di qualche critica iniziale, Pulp Fiction è stato un successo di pubblico e riconoscimenti, a partire dalla Palma d’Oro al Festival di Cannes e l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale, e continua ancora oggi ad essere riconosciuto come uno dei più grandi capolavori della storia della cinematografia mondiale.
1997. Jackie Brown
Se con i primi due film la strada sembra tracciata, con il terzo Tarantino cambia decisamente rotta.
“Se oggi come oggi, senza un’occupazione, avessi la possibilità di scappare con mezzo milione di dollari, l’afferreresti?”
Ordell
Jackie Brown è un film abbastanza diverso dai suoi predecessori, in un certo senso forse il film meno “tarantiniano” dell’intera filmografia del regista di Knoxville. Un film quasi privo di quella violenza gratuita vista nei primi due, Jackie Brown è ispirato al romanzo “Punch al Rum” di Elmore Leonard, che inevitabilmente ha finito per ispirare Tarantino nella costruzione dei personaggi e del plot narrativo, dai tempi decisamente più dilatati.
Nel film, Jackie Brown è una hostess di volo che contrabbanda denaro per un mercante d’armi; scoperta e arrestata, si trova di fronte al classico dilemma “da che parte stare”, in una situazione destinata ben presto a degenerare. Il racconto, a differenza di Pulp Fiction, è pressoché lineare, dai toni e dalle situazioni più “realistiche”, con la violenza messa in disparte a favore di una narrazione più calma, in cui non mancano comunque una buona dose di suspense e un finale decisamente movimentato.
È forse il film meno personale del regista, anche perché l’unico dalla sceneggiatura non originale, una pellicola nella quale Tarantino è costretto a limitare gli eccessi e la sfrontatezza dei predecessori, abbracciando toni più delicati, quasi intimi. Non ci sono dialoghi surreali e situazioni borderline destinate a diventare cult, il film è un esercizio di stile confezionato a regola d’arte. E con ottime prove di recitazione, su tutte quella dell’interprete di Jackie Brown, Pam Grier. Tarantino, al netto delle critiche misogine che gli vengono da sempre addossate, dimostra grande bravura nella costruzione dei suo personaggi femminili, sulla scia di Pulp Fiction con Uma Thurman, e in preparazione di quello che sarebbe stato di lì a poco il suo nuovo capolavoro.
Al netto dell’ormai ingombrante nome che porta alla voce regia e il carico di aspettative che inevitabilmente ne consegue, Jackie Brown è un film godibile, dall’inizio ai titoli di coda, a detta di Samuel L. Jackson, addirittura “il miglior film di Tarantino”. Un progetto che mette in luce una discreta maturità raggiunta da Quentin Tarantino e la capacità di saper abbracciare anche uno stile diverso dal suo. Anche se forse, proprio per il fatto che la vera impronta del regista non riesce quasi mai ad emergere, rimane la sua pellicola più “fredda” in termini di accoglienza e di impatto.
2003-2004. Kill Bill Volume 1 e 2
Se con Pulp Fiction è arrivata la consacrazione a livello internazionale, con i due volumi di Kill Bill Tarantino entra di diritto nella leggenda del cinema. Kill Bill è il trionfo dell’azione, un contenitore di generi e stili diversi con cui il regista di Knoxville si esalta e dà libero sfogo al suo cinema esagerato e citazionista.
Kill Bill è un film che ha spaccato la critica, chi lo ha amato alla follia – come il sottoscritto – chi lo ha criticato aspramente per la sua “confusione” di generi; in realtà, l’apparente mix di stili e situazioni al limite di cui il film è strabordante mostra tutta la lucidità di Tarantino, le cui idee sono ben chiare dal primo all’ultimo ciak. Una dimostrazione senza eguali di potenza comunicativa al suo livello più alto, in cui lo stile adottato in ciascuna scena, che sia d’animazione o in bianco e nero, è il veicolo perfetto per punzecchiare le giuste corde dello spettatore.
Una storia di vendetta, quella che porta Beatrix, ieri celebre assassina soprannominata Black Mamba, oggi ragazza incinta e promessa sposa, ritiratasi ormai dalla professione, a ricercare uno dopo l’altro i suoi sicari, guidati da Bill, in una spirale di violenza e situazioni al limite dell’assurdo.
Kill Bill è un film cucito sulla pelle di Uma Thurman, come ha affermato lo stesso Tarantino; un’idea nata ai tempi di Pulp Fiction, poi ripresa in mano anni dopo, quasi un regalo di compleanno per i 30 anni dell’attrice. E di fatto Uma Thurman è semplicemente perfetta nel ruolo di Beatrix Kiddo, come dimostrato dalla sua totale dedizione al ruolo; nonostante fosse diventata recentemente madre e fosse in piena fase di allattamento durante le riprese, la Thurman ha dedicato mesi alla comprensione delle tecniche della spada e all’addestramento, avvalendosi di veri maestri dello stile orientale. Non solo Beatrix, ma l’intero cast ha dedicato ore alla preparazione fisica delle scene di combattimento, con risultati grandiosi: nella loro esagerazione, le scene di combattimento restituiscono paradossalmente una credibilità unica, merito anche di una regia impeccabile.
L’azione è il vero cuore pulsante di Kill Bill, questa ricerca spasmodica della vendetta che funge da motore per l’introduzione dei vari personaggi antagonisti di Beatrix, ognuno con la sua caratterizzazione unica; se il primo volume è un chiaro omaggio alla cultura orientale, con il secondo si vira decisamente verso il genere western, con l’introduzione della figura di Bill, interpretato da un grande David Carradine, solo citato nel primo volume, nel secondo si prende la scena da antagonista principale ed elargitore di perle indimenticabili.
“Mi trovi sadico? Sai bimba, mi piace pensare che tu sia abbastanza lucida persino ora da sapere che non c’è nulla di sadico nelle mie azioni. In questo momento sono proprio io, all’apice del mio masochismo”
Bill
Torna la scomposizione temporale della storia, raccontata con capitoli quasi mai temporalmente lineari, celebre al riguardo il capitolo che racconta il durissimo addestramento affrontato anni addietro da Beatrix con il maestro Pai Mei, e la sua ricerca di Hattori Hanzo, leggendario armaiolo giapponese creatore delle spade più affilate del mondo; capitolo che, oltre ad essere di fatto la trasposizione scenica del “vero” addestramento affrontato da Uma Thurman sul set, rappresenta un esempio di indiscutibile maestria nella regia e nella recitazione.
Kill Bill è film esagerato e violento, a tratti insostenibile, ma è il tripudio dell’essenza tarantiniana all’ennesima potenza; un film da vedere, un esempio unico e autentico di ricchezza cinematografica e libertà espressiva dietro la macchina da presa.
2007. Grindhouse – A Prova di Morte
Nelle intenzioni, Grindhouse doveva essere un’unico progetto condiviso da Tarantino con l’amico regista Robert Rodriguez. A seguito del flop ottenuto ai botteghini americani, la pellicola venne spezzata nei due episodi, uscendo nel resto del mondo come due film separati: A prova di Morte, scritto e diretto da Quentin Tarantino, e Planet Terror, uno splatter fuori di testa a tema zombie firmato Robert Rodriguez.
“La gente non aveva capito nulla. Non avevano la minima dea di cosa ca**o stessero guardando. Quello che stavamo facendo non aveva alcun senso per loro.”
Quentin Tarantino
Il progetto originario era un chiaro omaggio alle Grindhouse, sale cinematografiche tipiche delle metropoli americane degli anni ’70, in cui i vagabondi trovavano ricovero e dove venivano proiettate vere e proprie maratone di b-movie caratterizzati da una profonda impronta violenta e dai contenuti esplicitamente sessuali, il cinema “d’exploitation”.
Grindhouse: A Prova di Morte è una pellicola a sua volta divisa in due parti, il cui collante è Stuntman Mike, il protagonista/antagonista della vicenda, nonché chiaro omaggio alla passione che da sempre lega Tarantino al mondo degli acrobati spericolati del cinema. Interpretato da un perfetto Kurt Russell, A Prova di Morte è la storia di uno stuntman in pensione che prova eccitazione a terrorizzare e uccidere giovani ragazze a bordo della sua macchina, appunto, a “prova di morte”. Lo stacco tra le due parti è ben visibile anche dallo stile registico adottato: colori sbiaditi nella prima parte, inquadrature lasciate al caso, stacchi improvvisi nel montaggio tipici delle vecchie pellicole rovinate; il regista sembra scherzare con lo spettatore, omaggiando al contempo le pellicole degli anni ’70. Introdotti tutti gli elementi e personaggi a schermo, il turbine di delirio e violenza ha inizio, ma presto si interrompe. Il film “ricomincia”, una seconda parte dai colori più accesi e con nuove protagoniste, fino al finale non ti aspetti. Una pellicola che ripropone la vendetta al femminile sul filone di Kill Bill, condita dal “chiacchiericcio” iconico tra le protagoniste, a cui si contrappone la perversione maschile, identificata nel voyeurismo sadico del “cattivo” e nei contenuti esplicitamente feticisti, già emersi sottovoce in Pulp Fiction nel tema del famoso “massaggio ai piedi”, qui manifestati apertamente.
Film d’azione, dai toni splatter, dominato tuttavia per larghi tratti da interminabili dialoghi, di solito inconcludenti, tra le protagoniste della vicenda. Non che questo sia una novità per le pellicole del regista, ma i dialoghi stavolta sembrano un po’ meno ispirati del solito, da soli non riescono a sorreggere il peso della sceneggiatura e catturare lo spettatore, come accade in Pulp Fiction o ne Le Iene. La divisione in due del progetto iniziale ha inevitabilmente influito sul ritmo della pellicola di Tarantino, che soffre di qualche momento di stallo, al netto comunque di sequenze riuscite e iconiche, su tutte l’improvvisata lap dance di “Butterfly” Arlene all’interno del Texas Chili Parlor.
Grindhouse: A Prova di Morte è a conti fatti un buon film, ma forse il “più debole” del regista di Knoxville, quello di cui lo stesso Tarantino va meno fiero, come ha recentemente dichiarato. Unica pellicola della sua filmografia a non ottenere alcuna candidatura agli oscar.
2009. Bastardi senza gloria
Il rilancio di Tarantino passa dalla Storia, o meglio, dalla “sua” Storia riveduta e corretta. Dopo aver scardinato le regole del cinema e dei suoi generi, il regista di Knoxville decide che è arrivato il momento di reinterpretare anche gli eventi storici, e lo fa prendendo in esame il tema più delicato e forte al tempo stesso del secolo scorso.
I Bastardi senza gloria (“The Inglorius Basterds” nella lingua originale, reinterpretazione tarantiniana di “The Inglorius Bastards” film di Enzo G. Castellari del 1977) sono una squadra speciale di soldati ebrei, guidati dal tenente Aldo Raine di un immenso Brad Pitt, con un unico scopo: sterminare i nazisti e la loro leadership.
Nomi e situazioni di fantasia sullo sfondo della vera occupazione europea da parte dei nazisti, con Bastardi senza gloria Tarantino ripropone il suo classico schema a blocchi, con capitoli dedicati a linee narrative diverse nel tempo e nello spazio, destinate a convergere in un unico, trionfale, irriverente, “tarantiniano” finale.
“Combattere in uno scantinato presenta numerosi inconvenienti, primo fra i quali combattere in uno scantinato“
Aldo Raine
Così mette in guardia con la sua esclusiva ironia Aldo Raine, prima che a schermo si manifesti una delle scene più memorabili del film. La sequenza dello scantinato è pressoché perfetta, sulla carta e nei fatti, e rappresenta di fatto la sintesi del modo di scrivere e fare cinema del regista. Una chiave di lettura esemplare per comprenderlo, perché racchiude un pò tutto il suo stile. È forse la sua scena perfetta.
Ma il film è un concentrato di sequenze e indimenticabili, e prove attoriali memorabili. Come quella regalata da uno straordinario e, al tempo, semi-sconosciuto Christopher Waltz nei panni del colonnello nazista Hans Landa; nel film Waltz recita in ben quattro lingue, compreso l’italiano nella scena cult con Brad Pitt che scimmiotta il Padrino, un’interpretazione che gli vale fama internazionale, Oscar e Golden Globe come miglior attore non protagonista, e un ruolo da “intoccabile” nella successiva pellicola del regista.
Non certo il film perfetto, ma di certo il più audace, Bastardi senza gloria è la pellicola con la quale Tarantino celebra la potenza del cinema, del suo cinema, in grado di cambiare persino il corso della storia, tema che trova il suo compimento nella scena finale, non a caso ambientata all’interno di un cinema.
Con un successo incredibile al botteghino, ad oggi, Bastardi senza gloria è il secondo film di Tarantino per incassi; e indovinare quale sia il primo non è poi così difficile.
2012. Django Unchained
“Signori, avevate la mia curiosità, ora avete la mia attenzione”
Calvin Candie
Sono costretto a mettere le mani avanti. Nella mia personalissima classifica dei film di Quentin Tarantino, Django Unchained occupa, senza alcuna discussione, il primo posto. Detto questo, chi continuerà nella lettura potrà comprendere il trasporto emotivo con il quale ne parlerò.
Django Unchained arriva nel momento di massima maturità del regista, l’esperienza, la conoscenza profonda dei suoi attori, i tentativi riusciti e quelli “meno” messi in pratica in passato, tutto converge e si condensa in una pellicola, che trasuda stile e passione da ogni singolo fotogramma.
Il film è un atto d’amore di Tarantino verso il cinema western, in particolare quello italiano, verso cui il regista non ha mai nascosto ammirazione, e la sua riproposizione del Django di Sergio Corbucci con protagonista Franco Nero, che compare come cameo nel film, ne è la prova definitiva. Django, schiavo nero interpretato da Jamie Foxx, viene liberato dal cacciatore di taglie King Schultz (ChristopherWaltz) e si unisce a lui in un viaggio di vendetta alla ricerca della moglie, anch’essa resa schiava. Un western nei titoli, di fatto un film che vira ben presto su toni razziali, con il tema dello schiavismo che emerge con forza, trattato a suo modo “leggero”, talvolta autoironico, come consuetudine del regista.
La storia è piuttosto semplice, certo condita dagli immancabili momenti “tarantiniani”, ma piuttosto lineare nel suo decorso. A rendere Django Unchained un film straordinario e indimenticabile sono i suoi interpreti, gli attori del cast che sono in un autentico “stato di grazia”, ciascuno all’apice della sua verve artistica. E questa non è la classica frase ad effetto buttata là per infiocchettare un giudizio positivo; dal mio modesto e umile punto di vista, le interpretazioni di Jamie Foxx, Leonardo di Caprio, Christopher Waltz e Samuel L. Jackson sono le migliori performance della loro carriera.
Christopher Waltz, ormai a suo agio nei ruoli di co-protagonista, ottiene la sua seconda statuetta per un’interpretazione clamorosa, ormai i suoi personaggi sono la parodia stessa dei suoi personaggi, e perdonatemi il gioco di parole riuscito male. Un Jamie Foxx che sprigiona furia e azione da ogni particella del suo corpo, il ruolo di Django sembra cucitogli addosso, e come non citare la performance di Samuel L. Jackson, attore e personaggio di colore che, lavorando alla corte degli schiavisti bianchi, insulta e si fa beffe degli schiavi neri, appellandoli tali. Una prova di recitazione strepitosa, anche se a molti risultata un pò “indigesta” per i troppi appellativi razziali; per quanto mi riguarda, al netto di tutto il “politically correct” che imperversa oggi, la prova di Jackson resta encomiabile, una restituzione perfetta di un personaggio complesso, nonché rappresentazione scenica esemplare del livello di depravazione raggiunto dall’istituzione dello schiavismo. E visto che stiamo parlando di una forma d’arte, a me piace leggerla così.
L’ho lasciato volutamente per ultimo; perché se la famosa scena dello scantinato in Bastardi Senza Gloria è la scena di Tarantino, il dialogo a tavola con il teschio in mano è la scena di Leonardo di Caprio. Cosa dire di un attore che, battendo la mano sul tavolo, si ferisce realmente e inizia a sanguinare, continuando tuttavia a recitare con un enfasi mai vista, tra lo stupore degli altri attori? Niente, così come niente disse Tarantino che, continuando a filmare la scena, ha regalato al mondo del cinema una sequenza indimenticabile. Un attore straordinario, forse il più grande della nostra epoca, che incontra il registra più rivoluzionario del nostro tempo. Il resto è storia.
Con una sceneggiatura eccellente che gli vale la seconda statuetta dopo Pulp Fiction, Quentin Tarantino sposta ancora più in alto l’asticella delle sue pellicole, dimostrando di trovarsi a suo agio con un genere che gli regalerà ancora soddisfazioni nell’immediato futuro.
2015. The Hateful Eight
Come rendere interessante e carico di suspence un film di 3 ore ambientato all’interno di un emporio isolato durante una tormenta di neve? Con The Hateful Eight, Tarantino riesce a costruire una storia credibile e coinvolgente sfruttando unicamente la sua abilità universalmente riconosciuta come la migliore, ovvero la scrittura dei dialoghi tra i personaggi.
Secondo esperimento western, la vicenda di The Hateful Eight parte da una diligenza sulla strada innevata per Red Rock, al cui interno un famigerato cacciatore di taglie sta portando la sua prigioniera al patibolo, per convergere all’emporio di Minnie, luogo dove si intrecciano le storie e le intenzioni di otto variopinti personaggi, bloccati all’interno dall’infuriare di una bufera di neve, in un racconto che ben presto assume le tinte e la suspence tipica di un giallo.
Se l’azione latita per gran parte del film, il lavoro di scrittura degli otto personaggi e dei loro dialoghi è esemplare, forse il migliore dai tempi di Pulp Fiction. Lo spazio confinato è l’espediente per prendersi il tempo necessario a trattare tematiche diverse, dalla guerra d’indipendenza americana ai chiari riferimenti politici e razziali della società moderna, il tutto sullo sfondo dell’imminente rivelazione attesa dallo spettatore sulla vera identità degli ospiti dell’emporio.
L’alone di mistero attorno ai singoli personaggi non permette allo spettatore di prendere le parti di nessuno, a volte vorremo schierarci dalla parte del sospettoso John Ruth, ottimamente interpretato dal grande Kurt Russell, altre saremo rapiti dalla figura del maggiore Marquis Warren di Samuel L. Jackson (e chi altri sennò?) che prova ad ergersi a dominatore della scena, in una lenta progressione in cui è percepibile l’attesa per l’evento “scintilla”, lo spartiacque cui seguono inevitabilmente la rottura degli equilibri e il degenerare degli eventi, in una spirale di violenza di “tarantiniana memoria”. La furia della natura fuori, la furia umana dentro, la costruzione dell’epilogo porta i singoli personaggi a togliere la maschera e svelarsi per quello che sono, finendo per essere odiati tutti dallo spettatore, il quale assiste attonito allo scorrere dei titoli di coda di un film “senza eroi”.
“La mia cara vecchia Mary… questo è un bel tocco”
Chris Mannix
Come non citare le ultime parole della lettera che il Presidente Abramo Lincoln avrebbe inviato al maggiore Warren, che fa tornare alla mente la celebre “valigetta” di Pulp Fiction, un simulacro attorno al quale si sviluppa la storia, perfetto a rappresentare quel rapporto di realtà-finzione per pervade tutta la pellicola e i suoi protagonisti. L’ambiguità delle lettera e delle singole storie degli interpreti del dramma, trasforma di fatto l’emporio di Minnie in un palcoscenico, con lo spettatore quanto mai impotente e rapito di fronte all’evolversi degli eventi.
Una pellicola accolta trionfalmente da buona parte del pubblico, ma che non ha messo tutti d’accordo, soprattuto nella critica; se da una parte è innegabile la maestria di Tarantino nella sceneggiatura e nella caratterizzazione dei personaggi, tanto da meritargli la scrittura di diversi articoli accademici a riguardo, da altre parti sono giunte, puntuali, le solite critiche. Per alcuni il cinema del regista è ormai diventato uno strumento politico per manifestare il suo pensiero, da altre parti le scontate accuse di misoginia e discriminazione razziale, da altri ancora l’etichettatura di film “noioso”.
Se il film non convince tutti, su due elementi non c’è dubbio alcuno: il primo è che la pellicola è stata girata in 70 mm, mezzo scelto da Tarantino per esaltare la potenza visiva delle scene all’aperto e la profondità di quelle al chiuso; per chi ha potuto goderne al cinema, è stato uno spettacolo audiovisivo di rara bellezza. Il secondo, è la magnifica colonna sonora, composta interamente dal nostro amato e indimenticato Ennio Morricone, che gli è valsa Oscar, Golden Globe e premo BAFTA.
2019. C’era una volta a…Hollywood
Ed eccoci giunti all’ultimo film, ad oggi, scritto e diretto da Quentin Tarantino. La sua ultima opera è una dichiarazione d’amore al cinema e alla Hollywood degli anni ‘60, nonché una dedica affettuosa alla città di Los Angeles.
“In questa città può cambiare tutto all’improvviso”
Rick Dalton
Una coppia inedita per Tarantino, Leonardo di Caprio e Brad Pitt nei panni, rispettivamente, dell’attore Rick Dalton e del suo stuntman e tuttofare Cliff Booth. Siamo nella Hollywood del 1969, e la villa accanto a Dalton è stata appena acquistata dal giovane regista Roman Polanski e dalla moglie e attrice Sharon Tate. C’era una volta a Hollywood è un film nel film, un affresco della vita nella Los Angeles degli anni ‘60 vista dalle verdeggianti colline, dove essere sulla cresta dell’onda è tutto. E dove l’ombra della famiglia Manson e dei tragici eventi che stanno per colpire quella Hollywood è dietro l’angolo.
Una coppia esplosiva, complementare, perfetta; Rick Dalton e Cliff Booth sono magnetici a contendersi il ruolo di protagonista, bravi in coppia e ancora di più in solitaria, con il primo che mette in mostra tutta la sua bravura dietro la “doppia” macchina da presa, quella del film e quella dei suoi personaggi, il secondo che regala forse i momenti più esaltanti e frizzanti dell’intera pellicola.
Se il duo è perfetto, lo stesso non si può dire per la terza stella del cast, Margot Robbie, la Sharon Tate del film. Non certo per colpa sua, però; Tarantino in questi anni ci ha regalato personaggi femminili memorabili, costruiti con profondità e passione. Qui, il regista regala di fatto poco spazio all’approfondimento del personaggio di Robbie, “liquidandola” con poche battute, preferendo concentrarsi sulla celebrazione del cinema e della città.
E su questo aspetto è stato encomiabile. La fotografia è perfetta, così come i costumi, gli scenari, i dettagli; Tarantino ci porta a spasso con i suoi protagonisti per le strade della città, giocando con le inquadrature e restituendoci un suo sguardo intimo e personale della Los Angeles da lui idealizzata e sognata. E portandoci dentro il set. Per tutto il film, lo spettatore è immerso all’interno del mondo cinematografico, vive le sequenze da dietro la macchina da presa, cogliendone le emozioni e l’adrenalina delle scene, i drammi di chi percepisce il declino della sua carriera, gli aspetti più intimi degli attori e dei loro personaggi. E un Tarantino così non l’avevamo mai percepito, tanto grande è il suo amore per il cinema da volerne condividere un pò con tutti noi.
C’era una volta a…Hollywood è un film maturo, aggettivo che accostato al cinema di Tarantino forse può non sembrare un complimento. Di certo le aspettative erano altissime per questo film, sta di fatto che uscendo dalla sala si percepisce una velata, insolita sensazione di incompletezza, di rimasto tra le righe, come se tutte le idee che aveva in mente il regista non avessero trovato piena corrispondenza nella pellicola. Una strana sensazione, ma che di certo non intacca la bontà complessiva del suo nono film, forse il primo in cui Tarantino ha provato veramente a mettere in scena, prima ancora del suo stile e dei suoi stereotipi, il suo cuore.
È risaputo che l’idea di Quentin Tarantino sia quella di lasciare il cinema con il decimo film; in passato si è parlato di un terzo volume di Kill Bill, in tempi più recenti di un altro western come omaggio definitivo e ultimo al cinema di Sergio Leone; chissà cosa passi nella mente del regista di Knoxville in questo momento.
Una cosa è sicura: qualunque sia il commiato scelto da Tarantino, non passerà di certo inosservato!