“Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto.”
Michael Jordan
Ricordi di una notte di mezza estate. La porta socchiusa della cameretta, la TV sintonizzata sul canale 8 (al tempo Videomusic, precursore di MTV) e gli occhi incollati allo schermo, in scena l’ultimo atto del duello infinito tra i Chicago Bulls e gli Utah Jazz. Era l’estate del 1998, le immagini erano in differita e in una risoluzione “obsoleta” per gli standard attuali, ma tanto bastò per farmi innamorare di uno spettacolo chiamato NBA, una pallacanestro così lontana e diversa dalla nostra, gli albori di quello che sarebbe diventato di lì a poco un vero e proprio fenomeno di costume. E tanto bastò per rendermi partecipe, nel piccolo della mia stanza, della fine di un’epoca e l’inizio di una leggenda: quella di Michael Jordan e dei suoi Chicago Bulls.

Scopriamo oggi che una troupe cinematografica, forse nella consapevolezza di quello che sarebbe accaduto di lì a poco, seguì per tutta la stagione 1997-98 i Chicago Bulls, dall’inizio della preparazione alle Finals; le telecamere seguirono per mesi giocatori e dirigenti durante gli allenamenti, le partite e le trasferte, nelle palestre, nei palazzetti e negli alberghi, pronte a cogliere ogni singolo particolare della loro cavalcata verso l’ennesimo titolo, immortalando per sempre una delle pagine più belle nella storia dello sport professionistico. Quelle immagini inedite sono diventate una serie Netflix, The Last Dance, l’incredibile e imperdibile racconto dei Chicago Bulls dominatori della NBA. Un emozionante viaggio nei ricordi per chiunque ami questo sport e abbia un ricordo indelebile di quei momenti, ma in grado di appassionare anche chi non conosce nulla di quella storia, non mastica di basket e non ha mai sentito nominare Michael Jordan (se mai ce ne fossero!).
Perché in fondo non è importante conoscere ciò che è stato, The Last Dance riesce a coinvolgere anche lo spettatore più profano, raccontando una bella storia di sport e di vita. La docu-serie alterna le immagini storiche di quella stagione memorabile ad interviste raccolte nel presente dai protagonisti di quella cavalcata trionfale; è indubbio che gran parte della scena, oggi come ieri, sia catturata da Michael Jordan, simbolo di quella squadra, di uno sport, di una nazione intera, probabilmente lo sportivo più famoso di tutti i tempi. Se sul parquet ne abbiamo ammirato le gesta, con The Last Dance ne indaghiamo la personalità complessa, un uomo votato alla causa con uno stoicismo senza precedenti, ma anche una presenza “ingombrante” e difficile da gestire.
“Vincere ha il suo prezzo. E anche essere un leader.”
Emblematico è stato il suo il rapporto con la squadra: più di una testimonianza rappresenta Jordan come una sorta di tiranno, pronto a “bullizzare” e inveire contro quei compagni che in qualche modo non si impegnavano al massimo o non erano in grado di reggere la pressione, deludendo le aspettative. Lo stesso Jordan, intervistato nel presente, riconosce a volte di aver superato il limite, ma mai come mero atto fine a sé stesso; ogni sua azione era sempre votata alla causa ultima della vittoria, da inseguire a tutti i costi.
“Chi giocava con me doveva adattarsi ai miei standard e non avrei accettato niente di meno. Se chiedete ai miei compagni, di sicuro vi diranno che non chiesi mai a nessuno di fare cose che io non facevo.”
Scopriamo un Michael Jordan presuntuoso e autoritario, oppresso da responsabilità schiaccianti, ma anche comprensivo ed empatico, a tratti commovente, come lo è stato il suo rapporto con il padre, fedele spettatore di tutte le partite del figlio e sostegno nelle difficoltà fino alla sua triste dipartita, cui segue un inevitabile periodo di crisi per la superstar. Dopo tre titoli di fila (dal 1991 al 1993) assistiamo alla caduta, ovvero il primo, chiacchierato ritiro di MJ, che porta Chicago ad interrompere il suo ciclo di vittorie.
Prima della rinascita; perché ormai il mondo aveva conosciuto Michael Jordan, tutti aspettavano il suo ritorno e a lui bastano due parole per decretarlo: “I’m back”. Jordan ritorna in pista nel marzo del 1995 quando la stagione si stava già avviando verso i playoffs. Torna in campo, e, dopo qualche minuto d’assestamento, è subito magia, di nuovo; la dinastia dei Bulls riprende da dove si era interrotta, ed il resto è storia. Una carriera, quella di MJ, costellata da successi e grandi imprese sia dentro che fuori dal campo, capace a soli 21 anni di strappare un contratto di sponsorizzazione milionario e di lanciare un’azienda come la Nike hai vertici del suo settore. Ancora oggi le Air Jordan, le mitiche scarpe indossate dal campione nelle sue sei stagioni vincenti, sono un fenomeno culturale, un’icona di stile che ha raggiunto ben 34 edizioni e non accenna a rallentare nelle vendite.
“Posso accettare la sconfitta, tutti falliscono in qualcosa. Ma non posso accettare di rinunciare a provarci.”
Successi. ma anche sconfitte, tante. Quelle subite dai Bulls e da un giovane Michael Jordan a cavallo tra gli anni ’80 e ’90; se oggi parliamo di una franchigia leggendaria è anche perché tante sono state le difficoltà incontrate lungo il percorso di crescita, a partire dalle sonore batoste inflitte dagli acerrimi nemici di sempre, i Detroit Pistons. Sconfitte che hanno temprato il gruppo stagione dopo stagione, compattandolo attorno al proprio leader, sempre il primo ad arrivare agli allenamenti e l’ultimo ad andarsene. Una dedizione totale alla causa, al costante miglioramento personale e dei compagni, che ha portato una squadra tutto sommato ordinaria, al tempo spesso sottovalutata e criticata, a compiere un’impresa straordinaria e a prendersi la sua meritata rivincita nelle finali di Conference del ’91, con un secco 4-0 ai danni dei Pistons, spianandosi la strada per la conquista del primo titolo NBA.
Jordan è il fulcro, l’aggregatore, il vincente attorno a cui gira tutto. Ma anche il Campione si rende conto che da solo non avrebbe mai vinto niente, sarebbe stato ricordato solo come una lista di dati statistici, seppure straordinari. Ecco quindi che la serie lascia spazio ai suoi “comprimari”, se tali si possono definire. Perché giocatori del calibro di Scottie Pippen e Dennis Rodman hanno rappresentato ben più di un contorno, sono stati l’anima di una squadra imbattibile, costruita attorno a un fenomeno ma in cui ogni tassello era incastonato alla perfezione. Senza Pippen, probabilmente Jordan non sarebbe stato lo stesso; è vero, non abbiamo la controprova, ma è tangibile come il loro legame dentro e fuori dal campo sia stata una delle chiavi di volta dei successi dei Bulls. La puntata dedicata a Scottie è meravigliosa, l’infanzia difficile di Pippen, le grane contrattuali, il valore di un giocatore dominante e imprescindibile forse mai pienamente riconosciuto e premiato come avrebbe meritato.

E come non menzionare l’episodio dedicato alla figura “imprevedibile” di Dennis Rodman; un personaggio totalmente fuori dagli schemi, capace di abbandonare il ritiro della squadra durante le finali per “perdersi” in un turbine di alcol, sesso e chissà cosa in quel di Las Vegas. Per poi tornare, più decisivo di prima. Perché se Rodman era il “bad boy”, incontrollabile fuori dal campo, sul parquet è stato uno dei difensori più forti e determinanti della NBA; la sua dedizione alla causa era totale: ore e ore dedicate allo studio degli attaccanti avversari, nonché di ogni possibile traiettoria della palla all’impatto con canestro e tabellone, tanto da renderlo un dominatore del gioco aereo e fargli conquistare per ben sette anni di fila il titolo di miglior rimbalzista della Lega.
Nessun difensore come lui, nessuna squadra come i Bulls. Nel corso di un decennio indimenticabile, ben 6 titoli in 8 anni, sono spesso cambiati gli attori attorno a MJ, ma lo spirito e la mentalità vincente della squadra non sono mai stati intaccati; e di questo, grande merito spetta senza dubbio all’uomo al timone, un mentore più che un allenatore. I successi dei Bulls non sarebbero stati possibili senza coach Phil Jackson, vero spirito guida dei Bulls, non solo in riferimento alla sua passione per i nativi americani, ma soprattutto per la sua concezione del gioco di squadra, capace di ridistribuire il peso delle vittorie e delle responsabilità sulle spalle di tutti i giocatori, al di là del dominio incontrastato di Jordan.

Un allenatore unico nel suo stile, un vincente di natura, come dimostra la sua inimitabile carriera: archiviati i trionfi a Chicago, i suoi successi sono proseguiti con i Los Angeles Lakers di Shaquille O’Neal e dell’indimenticato Kobe Bryant, fenomenale erede cestistico di Jordan, cresciuto nel suo mito e a lui legato da una profonda e sincera amicizia nonché rivalità sportiva, alla cui memoria è dedicata un’intera puntata.

The Last Dance scorre via che è un piacere, una carrellata di immagini e giocate spettacolari godibile ai neofiti e pura scarica di adrenalina per tutti quelli che sono cresciuti nel mito dei Bulls e del numero 23. Nel presente, le interviste indagano le personalità dei singoli protagonisti con una profondità esemplare, rendendo ancor più vivi i ricordi delle loro gesta, ripercorse da nuovi e insoliti punti di vista; e non certo con minore enfasi vengono svelate le sequenze inedite del passato, la cui narrazione procede secondo due filoni principali: da una parte, il racconto dell’ultima stagione, la regular season che ha visto la franchigia protagonista di una cavalcata trionfale fino alle finali e al sesto leggendario titolo, l’ultimo di Jordan & co. Dall’altra, un focus per immagini e spezzoni sugli anni precedenti, le prime stagioni che hanno gettato le basi verso l’ascesa di una squadra al dominio della Lega; ma anche i momenti bui, le sconfitte e i problemi personali di MJ. Perché Michael Jordan non era una divinità, onnipotente sul campo da gioco ma comune mortale fuori, un uomo con i suoi tormenti e le sue debolezze. Dal complicato rapporto con i media alla sua dipendenza dalle scommesse ed il gioco d’azzardo, passando per una passeggera quanto infelice parentesi da giocatore di baseball, tutto è raccontato con dovizia di particolari e di sfumature, rendendo ancora più profonda e sfaccettata una serie solo all’apparenza superficiale.

Dall’ultima giocata della sua straordinaria carriera cestistica, quel canestro che vale una stagione intera, al Michael solitario seduto in poltrona, a rivivere quei momenti di fronte a una telecamera; nel mezzo il viaggio di uomo dalle capacità fuori dal comune, oppresso dal senso di responsabilità e ossessionato dalla vittoria a tutti i costi, più umano di quanto non ci si aspetti, capace di commuoversi e di commuovere lo spettatore, rapito da un racconto che sembra l’opera magna di un grande sceneggiatore, in realtà semplice cronaca di un’autentica pagina di sport scritta dai suoi protagonisti, svelati come uomini prima ancora che campioni. Forse è anche per questo che la serie, al di là dell’incredibile successo di pubblico ottenuto, ha ricevuto anche inevitabili critiche; una parte di addetti ai lavori, tra i quali ex “colleghi” di MJ, si è sentita offesa dalla rivelazione di alcuni retroscena di spogliatoio, ma c’è anche chi parla di dettagli completamente inventati e di altri omessi e, in generale, di una narrazione ritenuta un pò troppo “parziale”. Ma nel grande ballo di The Last Dance c’è posto anche per questo; anzi, è proprio l’alone mistico e lo stile “romanzato” del progetto ad affascinare ed accrescere ulteriormente la leggenda di un’epopea sportiva già grande di suo; perché, in fondo, tutte le grandi storie meritano un’infiorettatura.
Appassionante e coinvolgente, non serve aggiungere altro. Che siate appassionati di basket, cresciuti nel mito di Michael Jordan o che non ne sappiate nulla, The Last Dance è una serie imprescindibile che non posso che consigliare a chiunque. Un racconto assemblato magistralmente e dettagliato come pochi che riesce pienamente nel suo intento, quello di immortalare ai posteri le imprese di una delle più grandi squadre di sempre e del suo leggendario trascinatore.