Chiamarsi Homer

Come si scrive un articolo su Homer Simpson?

Direi di cominciare dal principio: Homer è un padre di famiglia sulla quarantina, è spostato con Marge e ha tre figli, in ordine di età , Bart, Lisa e Maggie. Vive a Springfield, una ridente cittadina di un non specificato stato americano e lavora come tecnico della sicurezza nella locale centrale nucleare. Ama la birra e le ciambelle, lo stare spaparanzato sul divano a guardare la TV e, come più o meno il 99% della popolazione maschile della terra, si sente inadeguato e tende a “fare cose” per dare un senso alla propria esistenza.

Questo è uno dei tanti modi per descriverlo; un altro sarebbe quello di dire che stiamo parlando di uno dei personaggi più iconici e amati della TV dell’ultimo trentennio. Homer J. Simpson è semplicemente Homer, le sue gag e le sue citazioni hanno un posto d’onore nella cultura pop, non credo esista un personaggio in grado di rappresentarci tutti meglio di lui, con tutte le sue sfumature e alti e bassi, strafalcioni e gesta spassionate. In lui ritroviamo tutti gli stereotipi della classe lavoratrice americana: è rozzo, sovrappeso, maldestro, pigro e ignorante; eppure è molto attaccato alla propria famiglia, e nonostante la sua vita di routine alla centrale nucleare, ha vissuto e vive avventure di ogni tipo, che lo portano ad impersonare i ruoli e mestieri più disparati dell’immaginario collettivo.

Creato dalla mente geniale di Matt Groening nel lontano 1986 il papà della famiglia più irriverente della TV vide la luce nell’atrio dell’ufficio del produttore James L. Brooks (parliamo di Fox), dietro la richiesta di questi di creare una serie di corti animati per il The Tracy Ullman Show, varietà televisivo statunitense. L’idea nacque sul momento, tant’è che lo stesso Groening raccontò anni dopo di sentirsi poco ispirato quel giorno, decidendo sul momento di creare una serie basata su una famiglia americana atipica, dando ai protagonisti i nomi dei suoi familiari; pochi sanno infatti, che Homer e Marge erano i nomi dei suoi genitori, Lisa e Maggie quelli delle sue sorelle minori. Per quanto riguarda Bart beh, decise che Matt era un nome troppo comune e chiamò l’ultimo membro della famiglia appunto Bart, ovvero l’anagramma di “Brat” (monello). Mai nome fu più azzeccato.

I Simpson, famiglia e serie “senza tempo”, a due anni dal debutto, nel 1989, passarono in prima serata e divennero ben presto uno degli show di punta della 20th Century Fox. Da lì in avanti il resto è storia: I Simpson sono il risultato di un fenomeno planetario, di un successo senza precedenti nel mondo dell’animazione televisiva e oggi, ben 33 stagioni dopo, restano un fenomeno di costume che ha segnato un epoca e diverse generazioni di spettatori.

È indubbio che il successo dei Simpson sia legato al fascino dei suoi protagonisti, e su tutti svetta lui, quel bonaccione di Homer. Iconico, a partire dall’aspetto. Quando Groening lo disegnò per la prima volta, egli mise le sue iniziali all’interno delle orecchie e nei capelli del personaggio: i capelli assomigliano ad una M, mentre l’orecchio ricorda una G. Successivamente l’autore decise di togliere questo particolare dall’orecchio, poiché riteneva che potesse distrarre troppo il pubblico; tuttavia si vocifera continui a disegnare l’orecchio come una G quando realizza schizzi per i fan. La forma base della testa di Homer può essere descritta come una tazza cilindrica con una scodella da insalata in cima. L’immancabile pancione, emblema del suo amore per il nettare dorato, e lo stile iconico, quella camicia bianca a maniche corte e i pantaloni color blu acceso, quasi un uniforme da supereroe della classe media.

Potremmo descriverlo parlando delle sue azioni, quei cliché che sono diventati pietre miliari della serie, dalla celebre frase pronunciata da Homer “D’oh!” – aggiunta perfino nell’Oxford English Dictionary – al “Mi-ti-co!”, passando per “l’affettuoso strangolamento” del figlio Bart, preceduto dall’immancabile “brutto bacarospo”. E se li avete letti in testa con la voce del suo celebre doppiatore italiano, quella del compianto Tonino Accolla, allora non serve che vi spieghi altro. Piccoli gesti e frasi semplici che hanno segnato la nostra adolescenza, e non solo.

Sì perché I Simpson, a scapito della loro natura scanzonata, col passare degli anni hanno trattato una miriade di argomenti e tematiche, anche difficili se vogliamo, senza mai perdere la loro irriverenza e restando al passo con i tempi. Il risultato è stato un aumento costante e senza precedente di pubblico, riuscendo ad attirare le nuove generazioni e continuando ad intrattenere chi ha iniziato a seguirli da giovane. Siamo un pò tutti cresciuti con Homer e la sua famiglia, diciamoci la verità.

Non so voi, ma io pensando ai Simpson mi sento felice e spensierato. Mi capita spesso di rivedere puntate che magari ho già visto, di quelle che conosco ormai a memoria, e di sentirmi in pace con il mondo. È un esperienza che non so descrivere altrimenti, ma quante difficoltà quotidiane non dico risolte, ma alleggerite grazie ad una battuta di Homer o una gag, di quelle iconiche entrate nell’immaginario collettivo. Mi balza, non so, alla mente la puntata del “Barone Birra“, con Homer alle prese con il proibizionismo reinterpretato in chiave moderna, o la “fiera del Chili” dove Homer, dopo aver assaggiato il piccantissimo peperoncino del Guatemala, inizia ad avere strane visioni e intraprende un viaggio misterioso che lo porta a rivalutare la sua intera esistenza e il suo matrimonio con Marge. Sembra ridicolo, ma ogni puntata è un ritorno a casa; ogni volta è come rivedere un vecchio amico, uno di quelli che anche se non lo vedi da anni sai esattamente cosa sta pensando e in una attimo eccovi lì, a spassarvela come se vi foste appena rivisti dopo la scuola.

C’è della magia nei Simpson, c’è della magia in Homer. Sto scrivendo queste righe, cerando di mettere nero su bianco un qualcosa che non riesco a descrivere a parole, un che di magico appunto, di etereo, ed ecco che scoppio a ridere senza freni. Sono con Homer e Bart all’interno del negozio di modellini; Homer sta acquistando per il figlio la replica dell’abbazia di Westminster per partecipare e vincere il concorso che si terrà l’indomani a scuola. Il commesso cerca di dissuaderlo: “Glielo sconsiglio signore, è troppo complicato!”; al che Homer se ne esce con qualcosa del tipo: “Che problema c’é? Basta leggere le istruzioni!”, e detto ciò si avvia per uscire dal negozio. Ora, siamo in quel tipo di negozio in cui la porta di uscita ha la maniglia da spingere e su la scritta “PUSH” (spingere); appunto. Homer inizia a tirare come un forsennato e, di fronte all’immobilità della porta, spacca il vetro in basso ed esce a gattoni dal negozio.

Non so se avete in mente la scena e, qualora non l’abbiate vista, se io sia riuscito a rendervela chiara, ecco perché ho deciso di inserire la gif. Ma cosa altro diamine posso aggiungere?? Dietro ai Simpson e alle gag di Homer c’è una genialità unica, una sceneggiatura inimitabile capace di spremere semplici contesti quotidiani e trasformarli in sequenze indimenticabili. E dannatamente divertenti.

Momenti di vita quotidiana che ritroviamo nelle nostre vite, ci alleggeriscono il peso e ci mettono di buon umore perché tutti noi, almeno una volta, ci siamo trovati ad essere Homer. Se solo tutto potesse essere così leggero, poter affrontare la vita con tale ironia e distacco! Nelle giornate uggiose al lavoro desiderando di essere con gli amici al bar, sul divano a bere birra e guardare la TV, nei momenti in cui non capiamo nulla di un dialogo ma annuiamo nonostante tutto, quante volte ci sentiamo Homer! Un concentrato di dubbi, ansie e senso di inadeguatezza, ma anche di sogni e possibilità; quando vorremmo essere qualcun altro, poter cambiare di colpo la nostra vita, il nostro lavoro e fare cose straordinarie, o semplicemente nuove. Homer è tutto questo, il riassunto dei nostri problemi quotidiani e la proiezione dei nostri desideri. C’è una clip straordinaria su YouTube, presente anche all’interno di una puntata, si intitola “Pic a Day for 39 Years” ed è una carrellata della vita di Homer raccontata per immagini, racchiude la sua adolescenza e tutti i mestieri e professioni intraprese da Homer nel corso della serie. Dura poco meno di 2 minuti, ne vale davvero la pena.

Semplicemente geniale.

Ecco, basterebbe questa frase per descrivere Homer e, più in generale I Simpson. Un successo straripante che deve molto anche ai cosiddetti personaggi secondari, ognuno caratterizzato alla perfezione coi suoi cliché e stereotipi, sono ormai così definiti nelle loro vite e personalità che possono sostenere il peso del racconto anche da soli, come succede in diverse puntate. Personaggi come il timorato vicino di casa Ned Flanders, il barista Boe (Moe in lingua originale) Szyslak, il Commissario Winchester sono solo alcuni esempi di personaggi iconici quasi quanto la serie, una ricchezza che gli autori hanno saputo sapientemente coltivare nel corso degli anni, fino a renderli tasselli insostituibili dello show.

Prima che il “gene Simpson” entri in funzione e mi faccia rimbambire – detto tra noi, altra puntata clamorosa! – vorrei spendere due parole sulle famose “profezie” legate ai Simpson. Nel corso degli anni alcuni eventi e situazione andate in onda durante lo show si sono effettivamente avverate: solo per citarne alcune, Trump Presidente degli Stati Uniti d’America (I Simpson lo avevano “profetizzato” già nel lontano 2000), l’avvento degli smartwatch vent’anni prima dell’uscita di Apple Watch, addirittura l’esistenza del bosone di Higgs. Questa ha davvero dell’incredibile: nel 2012, i fisici del CERN hanno confermato l’esistenza del bosone di Higgs, noto anche come “particella di Dio”. Una scoperta in sé è sorprendente, ma quello che lo è ancora di più è il fatto che 14 anni prima che ciò accadesse, Homer scrisse su una lavagna un’equazione matematica che in realtà prediceva la massa della particella ancora da scoprire. Se vogliamo dirla tutta, una volta entrò pure in competizione con Edison, ma questa è un’altra storia.

Per una serie così longeva sembra quasi impossibile da immaginare, ma la fine dei Simpson ci sarà. Secondo le rivelazioni dello sceneggiatore, l’addio della famiglia di Springfield sarebbe un ritorno alle origini, un richiamo al primo episodio “Un Natale da cani” andato in onda la vigilia di Natale del 1991 in Italia.

Se è vero che la fine dei Simpson è vicina, conviene menzionare la trovata di un professore britannico, John Donaldson, che ha deciso di aprire un seminario all’interno di un corso universitario di filosofia, intitolato: D’oh! The Simpson Introduce Philosophy. L’Università che ospita il corso si trova a Glasgow e analizzerà la serie ideata da Matt Groening esplorando i concetti filosofici contenuti nella serie.

Tra le righe di presentazione del corso si legge:

"I Simpson sono uno dei più grandi artefatti culturali del nostro tempo, in parte perché sono intrisi di filosofia. Aristotele, Kant, Marx, Camus e molti alti pensatori sono rappresentati in qualcosa che è verosimilmente una delle forme filosofiche più pure: il cartone animato.

E ancora, su Homer:

“Questo corso esplorerà alcune delle idee più interessanti di quello che è il vero e proprio monumento di Matt Groening all’assurdità dell’esistenza umana. Homer, in particolare, è un personaggio incredibilmente complesso in molti modi. È goloso ma sa essere anche violento ed egocentrico. Ma allo stesso tempo è difficile non amarlo."

Che dire. Quando ho letto questa notizia sono rimasto sorpreso, ma in fondo ripensandoci non c’è poi così tanto da stupirsi. I Simpson hanno trasformato la nostra percezione della realtà quotidiana, sono entrati nei nostri salotti affrontando i temi della società moderna, capaci come nessuno prima di catturare l’attenzione dello spettatore con quel colore giallo immediatamente riconoscibile durante lo zapping.

Prima l’ho definita una serie animata; forse sarebbe più appropriato chiamarla sit-com, basti pensare che nel corso degli anni ha ospitato oltre 600 personaggi famosi come ”ospiti”, da Lady Gaga a Paul McCartney, dal già citato Donald Trump sino a Richard Gere, oltre a una serie di doppiatori di eccellenza che hanno prestato le loro voci per doppiare alcuni personaggi originali, nel caso italiano basti citare Mike Buongiorno o la coppia Francesco Totti e Ilary Blasi. Nessuna seria vanta e credo mai vanterà un simile parco di guest star.

Cartone animato, meglio sit-com, ma c’è anche il cinema. E si perché nel 2007 esce, attesissimo, il primo film dei Simpson, “The Simpsons Movie”. L’adattamento cinematografico della famiglia più irriverente della TV, diretto da David Silverman e prodotto da Gracie Films, è un successo al botteghino con oltre 500 milioni di dollari di incasso e diversi riconoscimenti, tra i quali spiccano le nomination ai Golden Globe e al Premio BAFTA nel 2008 come miglior film d’animazione. Un film divertente non c’è dubbio, in cui si respira tutta l’ilarità e la spensieratezza degli episodi, ma anche un’occasione per spingersi un pò più in là, trattare temi un pò più seri – vedasi il problema del surriscaldamento globale. E, con la solita ironia, cercare di responsabilizzarci tutti, mostrandoci che di fatto siamo causa ma possiamo anche essere la soluzione del problema; il tutto perfettamente trasposto in Homer (e chi altrimenti?) il quale da causa comica del disastro ambientale di Springfield, nel corso del film prende coscienza di quanto accaduto e inventa/diventa la soluzione del problema. A modo suo ovviamente, ma dimostrando che volendo si può cambiare, sé stessi in primis e il mondo che ci circonda. Nulla di più semplice, ma tra una risata e l’altra il messaggio c’é, eccome se arriva.

Potrei continuare a scrivere per ore, magari parlando anche un pò di Bart – tra l’altro, per chi non lo sapesse, indicato dal Time tra le 100 persone più influenti del secolo – e del suo ”cucciati il calzino”, frase ormai sdoganata nel linguaggio comune. Potrei raccontare mille aneddoti o altrettante sequenze strappa lacrime di comicità, o magari pubblicare qualche altra gif – anzi, questo lo faccio qui sotto e lascio a voi riconoscere gli episodi! – il fatto è che mantenere un tale livello di qualità per cosi tanti anni ha dell’incredibile. Di magico.

Tutto è destinato a finire e, come detto, anche l’epopea dei gialli di Springfield prima o poi giungerà al termine. E quando arriverà quel giorno, cosa resterà dei Simpson? Di certo, tutti gli episodi; le stagioni continueranno ad essere trasmesse a lungo, ciclicamente, un pò come accade già oggi su Italia 1 e su Fox. Le risate, quelle tante, così come le gag e le citazioni, le situazioni al limite tra l’epico e il ridicolo.

Posso senz’altro dirvi cosa resterà a me, la serenità di prendere la vita e i piccoli imprevisti quotidiani con un pò più di leggerezza, affrontandoli con la stessa ironia di come farebbe Homer o qualsiasi altro protagonista della serie. E scusate se è poco.

Insomma credo si sia letto tra le righe: amo i Simpson, amo il mondo che Matt Groening ha creato con tutte le sfumature e sfaccettature che si porta dietro. Sono un pò Homer anche io, e sono sereno, perché se nonostante tutto riesce a cavarsela ogni volta, beh…forse allora posso riuscirci anche io.

Il delirio di Riverdale

Dunque, vediamo: quali sono i cliché più comuni delle serie TV americane?

Innanzitutto, la giusta location che fa da sfondo all’intera vicenda: in genere, si opta per una piccola e tranquilla cittadina, perfetta ma solo all’apparenza, spesso con un sottobosco fitto di misteri e oscuri segreti. Ovviamente non può mancare una bella High School, quella in cui tutti noi avremmo voluto passare gli anni delle superiori, ricca di attività extracurricolari, con l’immancabile squadra di football piena di bellocci supportata da altrettanto attraenti e provocanti cheerleaders, tutti in piena esplosione ormonale.

Di certo un locale iconico, stile anni ’50 con un nome tipo Pop’s, con l’immancabile insegna al neon e annesso proprietario/peluche, dove sorseggiare un buon milkshake dopo la scuola; un gruppo di protagonisti simpatici e ben assortiti, in termini etnici, di estrazione sociale e di orientamento sessuale – tranquilli perché, restando in tema di cliché e stereotipi, Riverdale non ci farà mancare davvero nulla! Direi che come base di partenza ci siamo.

Poi cos’altro? Si ovvio, una serie di misteri da risolvere, dal suicidio-che-diventa-omicidio di un compagno di scuola subito al pronti-via della prima stagione, al misterioso serial-killer della seconda, magari uno con un soprannome bizzarro tipo Black Hood o che so io, che semina terrore tra i banchi di scuola, così i nostri eroi – mica la polizia – possono indagare e svelare le inquietanti e, di solito, surreali motivazioni che lo spingono a perpetrare i suoi efferati delitti.

Forse una gang, ma si, mettiamoci anche una gang, meglio se una banda di riders con un tatuaggio distintivo e giubbotto di pelle, tanto per enfatizzare ancora meglio che siamo in una serie made in USA; un bel gioco di ruolo da tavolo stile medievale alla Dungeons & Dragons o, se preferite, Gryphons & Gargoyles, giusto per celebrare la fantasia dei produttori; un momento…ma cosa c’entra un Gioco di Ruolo in tutto questo? Ma sì dai, chi se ne importa, mettiamocelo che è figo e ci giocano tutti.

Cosa manca? Ad occhio e croce, direi una setta invasata da una qualche forma di cattolicesimo deviato – ebbene si, c’è anche questa – , una famiglia gotico-folle-rosso vestita dedita alla produzione dello sciroppo d’acero nella sua tetra magione, in effetti sembra quasi uscita da Twilight; ovviamente l’FBI che infiltra improbabili agenti in incognito per svelare misteriose attività illecite che di fatto conosce pure il bidello della scuola; un boss, in stile Don Vito Corleone del terzo millennio, super palestrato-figo-schifosamente ricco e, ovviamente, cattivissimo – ma non così tanto in fondo, dai… – con la sua innocente e attraente figlia che, dall’alto della sua incorruttibile moralità, per distaccarsi dalle losche pratiche del padre decide di gestire un club privato in pieno stile noir con musica dal vivo, cocktail per minorenni e, perché no, qualche serata dedicata al gioco d’azzardo – ovviamente – non legalizzato.

Ecco che la ricetta della super serie americana full-cliché è servita. Ah no, in realtà mancherebbero ancora un bordello nascosto in bella vista, qualche incontro truccato di pugilato, una puntata a tema Halloween con tutti i luoghi comuni del genere che vi possano venire in mente, intervallata magari ad una in stile musical e poi ancora…anzi no, non mi dilungherò oltre tanto ormai lo avrete capito…c’è di tutto, e anche di più, in Riverdale.

Diventata una serie cult in breve tempo, Riverdale racconta le storie di quattro amici sullo sfondo di una cittadina fittizia americana, che da il nome alla serie, solo all’apparenza perfetta, con nuovi e inquietanti misteri da risolvere stagione dopo stagione che fanno da filo conduttore ad una trama principale che si intreccia indissolubilmente con le vicende personali dei nostri protagonisti, le quali spesso fungono proprio da elemento risolutore degli eventi. Questo è Riverdale, almeno a prima vista e senza scalfire troppo la superficie, perché in realtà c’è molto di più sotto il variopinto velo intessuto dagli sceneggiatori.

Riverdale è un colorato e delirante affresco sulla cultura pop americana dei nostri giorni; per quanto esasperata, senza senso, assurda e piena di cliché possa sembrare, e in realtà sia, Riverdale è una serie che riesce a catturare e stupire – in positivo e a volte in negativo – lo spettatore. Questo a prima vista scellerato mix di teen mystery-dark-gotico-musical-noir-gdr messo in piedi dai suoi creatori riesce a regalare l’esatto intrattenimento per il quale è stato concepito, ovvero quel “di tutto un pò” leggero e spensierato con i suoi momenti da ricordare. C’è un pò di tutto in Riverdale, una città piena di stereotipi ma anche tanta autoironia, temi seri trattati quasi sempre con quella leggerezza tipica e propria dei teen drama; tutto sembra sempre un qualcosa di già visto, eppure tutto è nuovo o raccontato con sfumature diverse; un episodio assurdo termina e ne inizia un altro ancora più fuori di testa, come in un ottovolante fuori controllo e si finisce per divorare una puntata dopo l’altra.

Perché si, al netto di tutto il delirio che vivremo a Riverdale, è onestà intellettuale riconoscerne i pregi. Innanzitutto, va dato merito al cast e ai suoi quattro protagonisti principali.

Partendo dal bello di turno, ArchieAndrews, o “Archie-bello” per le amiche, o se volete il “rosso paladino” per i giocatori di G&G, uno splendido KJ Apa nell’interpretazione e nella presenza scenica; il bravo ragazzo cresciuto tra scuola e cantiere con l’amorevole padre appaltatore (l’indimenticato Luke Perry), leader della squadra di football, cantautore e oggetto dei desideri femminili di mezza scuola, sempre pronto a difendere i più deboli e a sacrificarsi per i suoi amici. È innegabile che molta della fortuna ottenuta dalla serie sia merito suo, e dei suoi addominali.

Restando in tema di cliché, ecco la classica ragazza della porta accanto, la bionda, intelligente e tormentata ElizabethBettyCooper (Lily Reinhart).

Diciamo solo che la nostra povera Betty dovrà fare i conti con una famiglia piuttosto “problematica, e con un lato oscuro che emergerà poco a poco nel corso delle stagioni, così come la sua inclinazione innata alle indagini e alla risoluzione dei principali misteri di Riverdale. Un personaggio bello, intrigante, acuto e profondo, non manca davvero nulla alla biondina amata da tutti (o quasi).

E non manca di certo la facoltosa ragazza di città, direttamente da New York City la solo all’apparenza snob Veronica Lodge (Camila Mendes); un cognome ingombrante, il fardello di essere la figlia di Hiram Lodge (Mark Consuelos) uno degli uomini più ricchi e spietati della città, la nostra Ronnie sarà spesso divisa tra il suo Archie e gli “affari di famiglia”, non solo lato paterno ma anche materno, quello dell’incantevole Hermione (Marisol Nichols) in un continuo scambio di colpi bassi e vendette attinte a piene mani dai classici del genere mafioso, qui trattate con la giusta leggerezza e autoironia. Un personaggio che parte in sordina, ma emerge con forza nel corso degli episodi, tanto da prendersi spesso da sola letteralmente la scena.

Per giungere all’eroe solitario Jughead Jones o, semplicemente, JJ (Cole Sprouse) probabilmente, al netto di tutto – e di “Archie-bello” – il vero anello di congiunzione della serie, nonché narratore in terza persona di tutti gli eventi di Riverdale. Cresciuto assieme al padre F.P. Jones (Skeet Ulrich) tra le fila dei Serpents, la gang di motociclisti di Riverdale, non ha mai rinunciato alla sua passione per la scrittura ed è proprio attraverso le sue parole, dal suo punto di vista, che vivremo gran parte delle storie raccontate in Riverdale. Senza dubbio, uno dei personaggi più interessanti e meglio caratterizzati della serie.

Sono loro, i nostri quattro eroi, a reggere il “peso” del racconto – o delle deliranti storie raccontate, se preferite – risultando sempre sul pezzo, bravissimi a recitare e ancor di più a cantare quando chiamati in causa; per inteso, ci sono alcune puntate in stile musical nell’arco delle stagioni che sono davvero ben dirette e coreografate, squisitamente godibili, a patto ovviamente di non provare totale repulsione per il genere.

E la formula, al netto di qualche inciampo o buco di trama, e di qualche soluzione liquidata un pò troppo frettolosamente, funziona discretamente bene. Diciamocelo pure, in fondo è impossibile non empatizzare con “Archie-bello” o con Betty, personaggi tanto buoni quanto “sfortunati” nelle loro vicissitudini familiari e non, sempre pronti a fare la cosa giusta ma loro malgrado spesso costretti a fare i conti con il proprio lato oscuro.

Non mancano di certo altre caratterizzazioni interessanti, ogni personaggio ha una propria parabola di crescita-declino e rinascita, come quella di F.P. Jones, il padre di JJ, vero esempio di uomo della strada che riesce a farsi da solo e prendersi una posizione di rispetto.

Ok, siamo a celebrare la rappresentazione dell’ennesimo, stra-abusato, cliché americano; ma in fondo va bene così, ci sono cose che Riverdale fa bene e va apprezzato anche per questo.

E spezziamo pure una lancia in favore di Cheryl Blossom (Madelaine Petsch) capo cheerleader e ultima discendente della stirpe dei Blossom – i rossi di Riverdale – in un’interpretazione talmente riuscita da rendere il suo personaggio uno dei più iconici ed irriverenti della serie, capace solo lei sa come di suscitare inquietudine e seduzione nell’arco della stessa scena.

Ma c’è di più, c’è anche spazio per l’ultimo saluto ad uno dei simboli della mia – nostra – generazione; perché la puntata-commiato dedicata a Luke Perry (Fred Andrews nella serie, il padre di Archie) è senza dubbio uno dei momenti più intimi e toccanti della serie, il cast per una volta non ha dovuto recitare affatto, il dolore per la perdita era così tangibile da infrangere la quarta parete; e, concedetemi lo spoiler, che bello rivedere Shannen Doherty (alias Brenda di Beverly Hills) partecipare all’episodio commemorativo di quello che è stato il suo grande amore nella ricordata e indimenticata serie anni ’90.

Succedono cose strane a Riverdale, una puntata sembra catapultarci in Tredici, quella seguente in Le Terrificanti Avventure di Sabrina, a tratti pensiamo di essere tra i banchi di scuola di Élite o Dawson’s Creek per poi ritrovarci improvvisamente in Stranger Things o in chissà quale altra serie vi possa venir in mente durante la visione. E come non citare il padre di tutti i teen mystery moderni, ovvero Scream il film cult anni ’90 di Wes Craven, che ha ispirato fortemente tutte le serie adolescenziali con sfumature che vanno dal thriller all’horror slasher, e influenza in maniera tangibile il rimo e le atmosfere della serie. Riverdale attinge dovunque, ma lo fa ragionevolmente bene, celebrando il citazionismo a livelli quasi tarantiniani: non manca episodio in cui non vengano richiamati almeno un paio di film-serie TV-personaggi iconici del cinema, e non di rado ci capiterà di assistere a intere scene che “scimmiottano” le loro celebri controparti cult, che sia un Pulp Fiction piuttosto che un Rocky. Insomma è quasi tutto un déjà vu, superficialmente almeno, perché per quanto spensierato e a tratti quasi ridicolo, il tutto finisce sempre per funzionare maledettamente bene e a tenere incollato lo spettatore ancora per una una puntata, per la serie: “ma dai, è troppo assurdo, l’ultima puntata e poi smetto”. E la verità è che non si smette più.

Penso di aver detto tutto, e non aver spoilerato “quasi” nulla; anzi, in verità ancora un paio di cose vanno dette. La prima, una curiosità: Riverdale non è una serie originale, bensì è ispirata ai fumetti dell’editore Archie Comics che ha tra i protagonisti proprio tutti i personaggi della serie; e non è del tutto male come referenza. La seconda, un consiglio: fatevi un favore e guardate la serie in lingua originale, risulterà decisamente più appagante in termini immersivi e non vi troverete in imbarazzo durante le scene in cui si passa dal recitato al cantato; tra l’altro, le interpretazioni del cast sono decisamente sopra lo standard.

Pur non essendo propriamente il mio genere, e nonostante abbia più volte paventato l’idea di abbandonarla, in realtà continuo tuttora a seguirla – le ultime puntate della quinta stagione in Italia usciranno in estate, e poi chissà cosa – e in fondo sì, devo ammetterlo, tutto sommato mi sta divertendo. Il mio consiglio è semplice: guardatela. Se non avete niente di meglio da fare, o se dopo questo lungo e interminabile anno di restrizioni avete praticamente completato il catalogo Netflix. Guardatela, a cuor leggero, spensierati e senza grandi aspettative, ma guardatela. In fondo basta non prenderla troppo sul serio, Riverdale è solo un grande e colorato delirio, ma tutto sommato ne vale la pena.

L’ultimo ballo di MJ

Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto.”

Michael Jordan

Ricordi di una notte di mezza estate. La porta socchiusa della cameretta, la TV sintonizzata sul canale 8 (al tempo Videomusic, precursore di MTV) e gli occhi incollati allo schermo, in scena l’ultimo atto del duello infinito tra i Chicago Bulls e gli Utah Jazz. Era l’estate del 1998, le immagini erano in differita e in una risoluzione “obsoleta” per gli standard attuali, ma tanto bastò per farmi innamorare di uno spettacolo chiamato NBA, una pallacanestro così lontana e diversa dalla nostra, gli albori di quello che sarebbe diventato di lì a poco un vero e proprio fenomeno di costume. E tanto bastò per rendermi partecipe, nel piccolo della mia stanza, della fine di un’epoca e l’inizio di una leggenda: quella di Michael Jordan e dei suoi Chicago Bulls.

Scopriamo oggi che una troupe cinematografica, forse nella consapevolezza di quello che sarebbe accaduto di lì a poco, seguì per tutta la stagione 1997-98 i Chicago Bulls, dall’inizio della preparazione alle Finals; le telecamere seguirono per mesi giocatori e dirigenti durante gli allenamenti, le partite e le trasferte, nelle palestre, nei palazzetti e negli alberghi, pronte a cogliere ogni singolo particolare della loro cavalcata verso l’ennesimo titolo, immortalando per sempre una delle pagine più belle nella storia dello sport professionistico. Quelle immagini inedite sono diventate una serie Netflix, The Last Dance, l’incredibile e imperdibile racconto dei Chicago Bulls dominatori della NBA. Un emozionante viaggio nei ricordi per chiunque ami questo sport e abbia un ricordo indelebile di quei momenti, ma in grado di appassionare anche chi non conosce nulla di quella storia, non mastica di basket e non ha mai sentito nominare Michael Jordan (se mai ce ne fossero!).

Perché in fondo non è importante conoscere ciò che è stato, The Last Dance riesce a coinvolgere anche lo spettatore più profano, raccontando una bella storia di sport e di vita. La docu-serie alterna le immagini storiche di quella stagione memorabile ad interviste raccolte nel presente dai protagonisti di quella cavalcata trionfale; è indubbio che gran parte della scena, oggi come ieri, sia catturata da Michael Jordan, simbolo di quella squadra, di uno sport, di una nazione intera, probabilmente lo sportivo più famoso di tutti i tempi. Se sul parquet ne abbiamo ammirato le gesta, con The Last Dance ne indaghiamo la personalità complessa, un uomo votato alla causa con uno stoicismo senza precedenti, ma anche una presenza “ingombrante” e difficile da gestire.

“Vincere ha il suo prezzo. E anche essere un leader.”

Emblematico è stato il suo il rapporto con la squadra: più di una testimonianza rappresenta Jordan come una sorta di tiranno, pronto a “bullizzare” e inveire contro quei compagni che in qualche modo non si impegnavano al massimo o non erano in grado di reggere la pressione, deludendo le aspettative. Lo stesso Jordan, intervistato nel presente, riconosce a volte di aver superato il limite, ma mai come mero atto fine a sé stesso; ogni sua azione era sempre votata alla causa ultima della vittoria, da inseguire a tutti i costi.

“Chi giocava con me doveva adattarsi ai miei standard e non avrei accettato niente di meno. Se chiedete ai miei compagni, di sicuro vi diranno che non chiesi mai a nessuno di fare cose che io non facevo.”

Scopriamo un Michael Jordan presuntuoso e autoritario, oppresso da responsabilità schiaccianti, ma anche comprensivo ed empatico, a tratti commovente, come lo è stato il suo rapporto con il padre, fedele spettatore di tutte le partite del figlio e sostegno nelle difficoltà fino alla sua triste dipartita, cui segue un inevitabile periodo di crisi per la superstar. Dopo tre titoli di fila (dal 1991 al 1993) assistiamo alla caduta, ovvero il primo, chiacchierato ritiro di MJ, che porta Chicago ad interrompere il suo ciclo di vittorie.

Prima della rinascita; perché ormai il mondo aveva conosciuto Michael Jordan, tutti aspettavano il suo ritorno e a lui bastano due parole per decretarlo: “I’m back”. Jordan ritorna in pista nel marzo del 1995 quando la stagione si stava già avviando verso i playoffs. Torna in campo, e, dopo qualche minuto d’assestamento, è subito magia, di nuovo; la dinastia dei Bulls riprende da dove si era interrotta, ed il resto è storia. Una carriera, quella di MJ, costellata da successi e grandi imprese sia dentro che fuori dal campo, capace a soli 21 anni di strappare un contratto di sponsorizzazione milionario e di lanciare un’azienda come la Nike hai vertici del suo settore. Ancora oggi le Air Jordan, le mitiche scarpe indossate dal campione nelle sue sei stagioni vincenti, sono un fenomeno culturale, un’icona di stile che ha raggiunto ben 34 edizioni e non accenna a rallentare nelle vendite.

“Posso accettare la sconfitta, tutti falliscono in qualcosa. Ma non posso accettare di rinunciare a provarci.”

Successi. ma anche sconfitte, tante. Quelle subite dai Bulls e da un giovane Michael Jordan a cavallo tra gli anni ’80 e ’90; se oggi parliamo di una franchigia leggendaria è anche perché tante sono state le difficoltà incontrate lungo il percorso di crescita, a partire dalle sonore batoste inflitte dagli acerrimi nemici di sempre, i Detroit Pistons. Sconfitte che hanno temprato il gruppo stagione dopo stagione, compattandolo attorno al proprio leader, sempre il primo ad arrivare agli allenamenti e l’ultimo ad andarsene. Una dedizione totale alla causa, al costante miglioramento personale e dei compagni, che ha portato una squadra tutto sommato ordinaria, al tempo spesso sottovalutata e criticata, a compiere un’impresa straordinaria e a prendersi la sua meritata rivincita nelle finali di Conference del ’91, con un secco 4-0 ai danni dei Pistons, spianandosi la strada per la conquista del primo titolo NBA.

Jordan è il fulcro, l’aggregatore, il vincente attorno a cui gira tutto. Ma anche il Campione si rende conto che da solo non avrebbe mai vinto niente, sarebbe stato ricordato solo come una lista di dati statistici, seppure straordinari. Ecco quindi che la serie lascia spazio ai suoi “comprimari”, se tali si possono definire. Perché giocatori del calibro di Scottie Pippen e Dennis Rodman hanno rappresentato ben più di un contorno, sono stati l’anima di una squadra imbattibile, costruita attorno a un fenomeno ma in cui ogni tassello era incastonato alla perfezione. Senza Pippen, probabilmente Jordan non sarebbe stato lo stesso; è vero, non abbiamo la controprova, ma è tangibile come il loro legame dentro e fuori dal campo sia stata una delle chiavi di volta dei successi dei Bulls. La puntata dedicata a Scottie è meravigliosa, l’infanzia difficile di Pippen, le grane contrattuali, il valore di un giocatore dominante e imprescindibile forse mai pienamente riconosciuto e premiato come avrebbe meritato.

E come non menzionare l’episodio dedicato alla figura “imprevedibile” di Dennis Rodman; un personaggio totalmente fuori dagli schemi, capace di abbandonare il ritiro della squadra durante le finali per “perdersi” in un turbine di alcol, sesso e chissà cosa in quel di Las Vegas. Per poi tornare, più decisivo di prima. Perché se Rodman era il “bad boy”, incontrollabile fuori dal campo, sul parquet è stato uno dei difensori più forti e determinanti della NBA; la sua dedizione alla causa era totale: ore e ore dedicate allo studio degli attaccanti avversari, nonché di ogni possibile traiettoria della palla all’impatto con canestro e tabellone, tanto da renderlo un dominatore del gioco aereo e fargli conquistare per ben sette anni di fila il titolo di miglior rimbalzista della Lega.

Nessun difensore come lui, nessuna squadra come i Bulls. Nel corso di un decennio indimenticabile, ben 6 titoli in 8 anni, sono spesso cambiati gli attori attorno a MJ, ma lo spirito e la mentalità vincente della squadra non sono mai stati intaccati; e di questo, grande merito spetta senza dubbio all’uomo al timone, un mentore più che un allenatore. I successi dei Bulls non sarebbero stati possibili senza coach Phil Jackson, vero spirito guida dei Bulls, non solo in riferimento alla sua passione per i nativi americani, ma soprattutto per la sua concezione del gioco di squadra, capace di ridistribuire il peso delle vittorie e delle responsabilità sulle spalle di tutti i giocatori, al di là del dominio incontrastato di Jordan.

Un allenatore unico nel suo stile, un vincente di natura, come dimostra la sua inimitabile carriera: archiviati i trionfi a Chicago, i suoi successi sono proseguiti con i Los Angeles Lakers di Shaquille O’Neal e dell’indimenticato Kobe Bryant, fenomenale erede cestistico di Jordan, cresciuto nel suo mito e a lui legato da una profonda e sincera amicizia nonché rivalità sportiva, alla cui memoria è dedicata un’intera puntata.

The Last Dance scorre via che è un piacere, una carrellata di immagini e giocate spettacolari godibile ai neofiti e pura scarica di adrenalina per tutti quelli che sono cresciuti nel mito dei Bulls e del numero 23. Nel presente, le interviste indagano le personalità dei singoli protagonisti con una profondità esemplare, rendendo ancor più vivi i ricordi delle loro gesta, ripercorse da nuovi e insoliti punti di vista; e non certo con minore enfasi vengono svelate le sequenze inedite del passato, la cui narrazione procede secondo due filoni principali: da una parte, il racconto dell’ultima stagione, la regular season che ha visto la franchigia protagonista di una cavalcata trionfale fino alle finali e al sesto leggendario titolo, l’ultimo di Jordan & co. Dall’altra, un focus per immagini e spezzoni sugli anni precedenti, le prime stagioni che hanno gettato le basi verso l’ascesa di una squadra al dominio della Lega; ma anche i momenti bui, le sconfitte e i problemi personali di MJ. Perché Michael Jordan non era una divinità, onnipotente sul campo da gioco ma comune mortale fuori, un uomo con i suoi tormenti e le sue debolezze. Dal complicato rapporto con i media alla sua dipendenza dalle scommesse ed il gioco d’azzardo, passando per una passeggera quanto infelice parentesi da giocatore di baseball, tutto è raccontato con dovizia di particolari e di sfumature, rendendo ancora più profonda e sfaccettata una serie solo all’apparenza superficiale.

Dall’ultima giocata della sua straordinaria carriera cestistica, quel canestro che vale una stagione intera, al Michael solitario seduto in poltrona, a rivivere quei momenti di fronte a una telecamera; nel mezzo il viaggio di uomo dalle capacità fuori dal comune, oppresso dal senso di responsabilità e ossessionato dalla vittoria a tutti i costi, più umano di quanto non ci si aspetti, capace di commuoversi e di commuovere lo spettatore, rapito da un racconto che sembra l’opera magna di un grande sceneggiatore, in realtà semplice cronaca di un’autentica pagina di sport scritta dai suoi protagonisti, svelati come uomini prima ancora che campioni. Forse è anche per questo che la serie, al di là dell’incredibile successo di pubblico ottenuto, ha ricevuto anche inevitabili critiche; una parte di addetti ai lavori, tra i quali ex “colleghi” di MJ, si è sentita offesa dalla rivelazione di alcuni retroscena di spogliatoio, ma c’è anche chi parla di dettagli completamente inventati e di altri omessi e, in generale, di una narrazione ritenuta un pò troppo “parziale”. Ma nel grande ballo di The Last Dance c’è posto anche per questo; anzi, è proprio l’alone mistico e lo stile “romanzato” del progetto ad affascinare ed accrescere ulteriormente la leggenda di un’epopea sportiva già grande di suo; perché, in fondo, tutte le grandi storie meritano un’infiorettatura.

Appassionante e coinvolgente, non serve aggiungere altro. Che siate appassionati di basket, cresciuti nel mito di Michael Jordan o che non ne sappiate nulla, The Last Dance è una serie imprescindibile che non posso che consigliare a chiunque. Un racconto assemblato magistralmente e dettagliato come pochi che riesce pienamente nel suo intento, quello di immortalare ai posteri le imprese di una delle più grandi squadre di sempre e del suo leggendario trascinatore.

Equinox, la sorella minore di Dark

Un pomeriggio freddo e nevoso, il caminetto acceso, io e mia moglie con un plaid sul divano e una nuova serie danese da godersi tutta d’un fiato. Equinox sbarca su Netflix sulla scia di The Rain e Ragnarok, e ancora una volta i nostri amici nordici dimostrano la loro abilità nel saper intrattenere e coinvolgere lo spettatore.

Ci viene subito introdotta la protagonista principale della storia, Astrid, una bambina di 9 anni. È il 1999, la classe appena diplomata sta festeggiando su di un carro, c’è allegria e voglia di divertirsi, alcol e risate scorrono a fiumi; tutti sembrano felici tranne una ragazza, Ida, la sorella maggiore di Astrid. Di lì a poco, tutti i studenti spariranno inspiegabilmente nel nulla. Ci spostiamo nel presente, siamo nel 2020, Astrid è cresciuta ma non ha mai dimenticato; una telefonata misteriosa è il pretesto per rimettersi sulle tracce della verità, fare luce sul tragico evento accaduto 21 anni prima e trovare una risposta a quelle inquietanti sparizioni.

È questo l’incipit di Equinox, una serie raccontata nell’arco di 3 linee temporali distinte e che mescola al suo interno elementi investigativi e soprannaturali, attingendo a piene mani dal folklore e dai riti pagani e ancestrali propri della cultura danese. Partono le immagini a schermo e forte è il richiamo a Dark, alle sue atmosfere cupe e nostalgiche, ai suoi personaggi enigmatici che sembrano pedine di un gioco più grande e incomprensibile. Equinox scorre via lentamente, i suoi tempi sono volutamente dilatati eppure non ci sono mai momenti di stallo, tutto scorre fluido e coerente, con i sei episodi più che sufficienti a chiudere gli archi narrativi esplorati. La storia principale si svolge nel presente, dove l’indagine di Astrid è volta di rimettere insieme i singoli pezzi di una storia che tutti sembrano voler dimenticare; ma è nel passato che si trovano le risposte, in quel maledetto giorno della scomparsa e nel periodo successivo, dove Astrid e la sua famiglia si ritrovano a dover metabolizzare la perdita, con risvolti spesso inaspettati.

La storia è coinvolgente sin dalle prime battute e gran parte del merito va sopratutto alle due attrici protagoniste, entrambe danesi. Stiamo parlando di Karoline Hamm, nelle vesti di Ida, e Danica Curcic, la Astrid adulta che indaga nel presente, ambedue perfette nel restituire la complessità e il dolore di due sorelle forse mai state felici veramente nelle loro vite, ma legate da un profondo e sincero affetto reciproco.

Se la prima restituisce a schermo grande malinconia e rappresenta il cuore del mistero, è la seconda a sorreggere gran parte del racconto, con la sua ricerca senza sosta di una verità che la condurrà inesorabilmente a ricostruire un passato oscuro del quale ella stessa aveva perso memoria. Un’indagine destinata a rivelare un antico culto pagano, in cui rivestono un ruolo centrale i numeri e un dimenticato simbolo ancestrale. Non è un caso che siano 21 gli studenti scomparsi, e che siano passati esattamente 21 anni da quelle sparizioni; tutto ruota attorno al ciclo delle stagioni, ai solstizi e agli equinozi; in particolare, all’Equinozio di Primavera, il primo dei due momenti dell’anno solare in cui luce e tenebra si trovano perfettamente alla pari, da sempre un momento di rinascita in cui la terra viene di nuovo riscaldata dal calore del sole. Una vicenda in cui realtà e mondo onirico si mescolano senza tuttavia mai sfociare apertamente nella fantascienza, mantenendo sempre quella giusta dose di mistero che appassiona lo spettatore e lo conduce per mano verso un finale per nulla scontato, ma che probabilmente non accontenterà tutti.

Una menzione speciale merita la fotografia, avvolgente e di impatto, capace di restituire a schermo la malinconia intrinseca del racconto con le sue inquadrature dall’alto di una Copenaghen grigia e distaccata; purtroppo non dello stesso livello la colonna sonora, appena accennata e quasi mai percepibile durante le scene, un peccato per un fattore che avrebbe potuto rimarcare ed approfondire il senso di mistero generale.

Equinox è senza dubbio una piacevole scoperta, una serie godibile che scivola via senza nemmeno accorgersene, merito di una storia mai complessa da seguire e che si svela con i tempi giusti, con protagonisti che bene restituiscono quell’atmosfera nostalgica e cupa che permea l’intero racconto.

Una serie ipnotica da vivere accettandone i tempi sopiti, una bella storia sul folklore danese sospesa tra sogno e realtà.

La semplice complessità di Dark

Ogni storia ci lascia dentro qualcosa, ci tocca corde diverse e, in qualche modo, cambia il nostro modo di vedere le cose. Dark non pretende di essere compresa fino in fondo, forse nemmeno esiste un’interpretazione univoca per l’universo creato dai suoi sceneggiatori, ma di certo arrivati ai titoli di coda non vi lascerà indifferenti.

Almeno così è stato per me. Qualora siate indecisi e un pò scettici nell’intraprendere il viaggio nell’intricato multiverso creato da Baran Bo Odar e Jantje Friese, sappiate che Dark è una seria complessa da comprendere ma facile da amare, da recuperare a tutti i costi; alla fine non ve ne pentirete, durante probabilmente sì.

Dark è una serie televisiva tedesca prodotta nel 2017, si compone di tre stagioni, di cui l’ultima arrivata su Netflix nell’anno in corso, per un totale di 28 episodi. La storia è ambientata completamente a Winden, una fittizia cittadina tedesca, sede di una centrale nucleare e teatro di segreti e storie che legano indissolubilmente le vite dei suoi abitanti, e di quattro famiglie in particolare, i Nielsen, i Kahnwald, i Doppler e i Tiedemann.

Una misteriosa caverna nei boschi e i resti di una poltrona all’ingresso; stampatevi questa immagine e tenetela bene impressa in mente, perché è qui che tutto ha inizio, dove tutto passa ed inevitabilmente ritorna, in un ciclo senza fine.

Il tempo è il motore dell’intero arco narrativo, un racconto che si apre e si ramifica nel corso delle tre stagioni, tanto è forte l’empatia che si instaura con alcuni personaggi quanto è complicato seguirne il corso delle vicende, comprendere il come e il perché ma, soprattutto, il quando. 

Perché si, è il tempo a definire le vite e le storie in Dark, prima ancora dei sentimenti e della ragione, una presenza quanto mai ingombrante che nella sua insindacabile autorità determina ogni causa e conseguenza. E porta all’inevitabile fallimento di ogni azione intrapresa, volta a cambiare il corso degli eventi; tutto si ripete, immutabile, e in questo loop senza fine il racconto prende un respiro più ampio, ad ogni ciclo si acquisisce maggiore consapevolezza, come un dipinto che si arricchisce di nuove sfumature.

Dark si pone, di base, come un racconto di fantascienza, ma non esita ad abbracciare mitologia, esoterismo, misticismo, simbolismo. E i simboli, in particolare, sono un potente mezzo comunicativo utilizzato dallo show; le tre punte interconnesse della Triquetra è di gran lunga quello più ricorrente in Dark, la correlazione tra passato, presente, futuro; ciò che sembra la chiave di lettura più scontata all’inizio, assume una nuova accezione nel corso degli eventi, una raffigurazione semplice eppure tanto profonda e misteriosa.

Mettetevi comodi sul divano, prendetevi il vostro tempo e, magari, armatevi di taccuino per prendere appunti; perché l’intreccio narrativo e temporale messo in piedi dagli sceneggiatori vi farà perdere la bussola più di una volta, soprattutto dalla seconda stagione in poi. Ma tranquilli, sappiate che anche nei momenti più disorientanti e apparentemente senza alcun nesso logico, c’è sempre un impercettibile filo conduttore che lega tutte le storie raccontate in Dark. Sta proprio qui la grande bravura dei suoi creatori, l’aver dato vita ad una storia tanto complessa quanto coerente con l’idea iniziale, quell’incipit che sta alla base dell’intera vicenda e che muove tutte le pedine a schermo.

E questo è confortante. Anche perché al culmine della complessità, Dark si svelerà ai vostri occhi e avrete il quadro completo, capirete come i singoli tasselli sono in realtà sempre stati in armonia tra loro, andando a comporre il più intricato dei puzzle mai visti sul piccolo schermo.

Se il racconto è magistrale, gran parte del merito va agli attori, molti dei quali giovanissimi e alle prime esperienze sul set, ma capaci dall’inizio alla fine di reggere il peso e la complessità dei personaggi interpretati. Bravi gli attori, ancora più bravi i responsabili del casting, e qui sono costretto a fermarmi: lo capirete solo guardando la serie; non c’è davvero un attore o un’attrice fuori posto, ogni interprete è in perfetta simbiosi con gli altri, creando quella continuità necessaria a rendere ancor più credibile la narrazione degli eventi.

Impossibile, infine, non menzionare la colonna sonora, sempre coerente e calata alla perfezione all’interno del distopico universo di Dark, a partire dalla magnifica sigla iniziale, quella “Goodbye” di Apparat, le cui note risuonano prima di ogni episodio sullo sfondo di immagini criptiche e caleidoscopiche, ennesima rappresentazione simbolica che prova a disorientare lo spettatore fin dall’inizio, fornendogli al contempo una velata chiave di lettura.

Inutile sottolineare come Dark sia una serie imprescindibile, da godersi tutta d’un fiato, un piccolo gioiello che brilla di luce propria e trova il suo meritato spazio tra produzioni ben più blasonate.

Una serie da vedere. E rivedere, a consapevolezza acquisita, per comprenderne l’impercettibile semplicità nella sua potente complessità.

La serie PERFETTA

Qual’è la mia serie preferita? Tante volte mi sono interrogato sull’argomento, e sempre balzano alla mente nomi altisonanti. Game of Thrones, Lost, Breaking Bad…certo, sarebbe facile rispondere scomodando i mostri sacri del genere, e in fondo non sarebbe neanche tanto sbagliato. Le serie citate sono effettivamente tra le mie preferite di sempre, così potenti quanto spiazzanti, ci hanno regalato personaggi indimenticabili e scene memorabili che sono già parte della cultura pop di questo inizio secolo.

Ma tra i tanti nomi che bussano alla porta ce n’è uno che, quasi sottovoce, si ritaglia un posto speciale nel mio cuore, un po’ come quei piccoli talismani, senza valore, che portiamo sempre con noi e abbiamo remore a mostrare agli altri per timore che ne svanisca l’intrinseca magia. Una serie forse sconosciuta ai più, incontrata quasi per caso, ma che mi ha regalato una delle esperienze più belle mai vissute sul piccolo schermo. Dovendo rispondere al quesito iniziale, pertanto la mia riposta sarebbe una e una sola: The Leftovers è la mia serie preferita.

Come ci comporteremmo se, improvvisamente, milioni di persone svanissero nel nulla? The Leftovers, serie TV basata sull’omonimo libro di Tom Perrotta e attualmente disponibile su Sky Atlantic, prova nell’arco di tre stagioni e dare una spiegazione all’inspiegabile.

Il 14 ottobre 2010, il 2% della popolazione mondiale scompare misteriosamente, destabilizzando l’equilibrio psicologico dei “lasciati indietro” (da qui l’origine del titolo) e mettendo a nudo tutta la fragilità della condizione umana, costretta a superare il dramma della perdita e andare avanti. Mi fermerò qui, ogni parola in più rovinerebbe l’esperienza di visione di quella che, almeno per me, è una delle migliori serie televisive degli ultimi anni, forse di sempre.

The Leftovers racconta una storia imprevedibile, prendendo direzioni quasi mai esplorate da altre produzioni simili, con una bravura e una sensibilità fuori dal comune. Partendo dal punto di vista dei suoi protagonisti, introdotti nel corso della prima stagione e ad ognuno dei quali è dedicato un episodio, la storia prende respiro e si esalta, complice una sceneggiatura complessa, a tratti quasi delirante, totalmente fuori dagli schemi e dai canoni del genere.

Non è un caso che il creatore dello show, assieme all’autore Tom Perrotta, sia Damon Lindelof, lo sceneggiatore dell’acclamato e controverso Lost; memore dell’esperienza maturata sull’isola, con la quale ha ricevuto onori ma anche critiche per quel finale non particolarmente ispirato, Lindelof qui sembra quasi fregarsene dell’opinione del pubblico dando libero sfogo alla sua vena creativa, a tratti sembra quasi prendersi gioco dello spettatore, tanti sono i momenti in cui ci si chiede se quello che accade a schermo sia effettivamente reale o meno.

The Leftovers ci mette di fronte all’elaborazione del lutto, alla perdita dei propri cari, eventi dolorosi e inspiegabili, che colpiscono tutti noi. Ed è proprio la ricerca dell’impenetrabile risposta alla dipartita che trova in The Leftovers la sua più alta interpretazione, un viaggio alla ricerca di una spiegazione univoca che non arriva mai; perché di fatto lo sforzo più grande è ammettere che, in fondo, non ci sono risposte che alleviano la sofferenza, soltanto vuoti mai pienamente colmabili, se non con l’amore delle persone rimaste accanto a noi.

Ed è qui che la serie ci stupisce, perché alla fine The Leftovers, tra dolori e perdite, racconta una malinconica, struggente, bellissima storia d’amore. Quella tra i suoi due protagonisti principali, Kevin e Nora.

Justin Theroux e Carrie Coon sono indimenticabili

Entrambi colpiti direttamente dalla dipartita, i due protagonisti si ritrovano a vivere all’interno di vite imprevedibilmente nuove, destinati inevitabilmente ad avvicinarsi l’un l’altra. Due interpretazioni indimenticabili, quelle di Justin Theroux e Carrie Coon, sono loro il vero fulcro attorno al quale ruota la serie. Immaginare attori diversi nei loro ruoli è praticamente impossibile, a loro agio nel sorreggere dall’inizio alla fine due personalità tanto complesse quanto fragili, e a restituire a livello emotivo un ondata di pathos che travolge lo spettatore.

Performance che non passate certo inosservate, con The Leftovers entrambi hanno avuto la candidatura a migliori attori per una seria drammatica, con Carrie Coon ad aggiudicarsi il meritato riconoscimento. Ma è tutto il cast ad essere in stato di grazia: come non citare un’altra candidatura, quella come miglior attore non protagonista di un sublime Christopher Eccleston, nel ruolo del buon reverendo Matt, o Amy Brenneman, in un’interpretazione magistralmente “apatica” di Laurie, la moglie di Kevin. Personaggi così strazianti e veri nel loro dramma da bucare lo schermo e farci sperimentare sulla nostra pelle il loro dolore e le loro speranze.

Come Lost, anche The Leftovers dà poche certezze allo spettatore, a partire dalla sigla di apertura, che cambia imprevedibilmente nel corso delle tre stagioni; tutto è parte dello show, tutto contribuisce al suo scopo. A proposito, le musiche della colonna sonora sono state curate dal compositore britannico Max Richter, per le quali ha ottenuto la candidatura ai Film Music Critics Award. Ennesimo riconoscimento per una serie che, probabilmente, avrebbe meritato più considerazione, soprattutto nel nostro paese, dove è passata quasi in sordina, sottovoce. Ma va bene così, anche perché The Leftovers è ancora lì, in silenzio, pronta ad emozionare chiunque gliene conceda il privilegio.

The Leftovers confonde, appassiona, commuove. Ci lascia nel dubbio e ci pone quesiti, ma non chiede mai di trovare risposte razionali concedendoci, così come ai suoi protagonisti, la libertà di scegliere in cosa credere, e la speranza di essere ancora in grado di compiere atti d’amore senza porsi troppe domande.

La Regina di Netflix

La partita a scacchi più appassionante di sempre.

Con l’avvicinarsi del periodo natalizio, fatevi un regalo: se non l’avete ancora vista, fiondatevi su Netflix e avviate il primo episodio de La Regina degli Scacchi. Non ve ne pentirete.

Lo ammetto, io stesso mi sono avvicinato a questa serie con un pò di scetticismo: come può mai una storia basata sul gioco degli scacchi essere appassionante? E ve lo dice uno che a scacchi ci gioca sin da piccolo. Ebbene, ho praticamente divorato i sette episodi che portano all’epilogo, una serie che scivola via da sola, leggera ed entusiasmante come poche, basta semplicemente muovere il primo pedone o, se volete, premere play.

La Regina degli Sacchi è ispirata ad un romanzo del 1983 di Walter Tevis, e racconta la vita di Beth Harmon, personaggio di fantasia ma reale come pochi, una bambina che dopo aver assistito alla morte della madre viene affidata alle cure di un orfanotrofio. All’interno delle sue mura, Beth fa la conoscenza del taciturno custode, il signor Shaibel, avvezzo a giocare le sue partite di scacchi solitarie nel seminterrato; osservandolo di nascosto, la giovane rimane come incantata dalla danza dei singoli pezzi, ancora senza un nome, sopra semplici caselle bianche e nere.

Tra i due nasce una particolare amicizia, e ben presto Beth inizia a dare un nome a quei pezzi, alle caselle della scacchiera, ad ogni singola mossa. Di giorno gioca le sue partite, di notte le rivive sul soffitto, che diventa scacchiera, con i pezzi che prendono forma nella sua mente. È una delle immagini più suggestive e potenti della serie, soprattutto nei primissimi episodi, la trasposizione perfetta di una passione che diventa piano piano ossessione, una dipendenza che non abbandonerà mai Beth e che la porterà a rivaleggiare con i migliori al mondo, non senza conseguenze.

Anya Taylor-Joy è magnetica

Non è un racconto straordinario, sì originale ma non sbalorditivo, eppure partono le immagini a schermo e non si riesce a distogliere lo sguardo, termina un episodio e ne vogliamo subito un altro. È incredibile come La Regina degli Scacchi, nella sua semplicità, abbia questa forza di attrarre lo spettatore e non mollarlo fino ai titoli di coda. E il motivo è più che evidente…

Se la storia è tutto sommato semplice, lo stesso non si può dire della sua protagonista. Anya Taylor-Joy è magnetica. Il personaggio di Beth Harmon le è cucito praticamente addosso, o forse è il contrario, non importa, è il risultato quello che conta e parla di un’interpretazione magistrale. Anya Taylor-Joy ha una presenza scenica dirompente, quando è a schermo è praticamente impossibile distoglierle lo sguardo, una prova di recitazione senza precedenti che le fa meritare un biglietto di sola andata diritta tra le nuove star di Hollywood.

Ambientata nel pieno degli anni ’60, La Regina degli Scacchi è un eccellente manifesto dell’epoca: impeccabili i costumi, le musiche, le scelte cromatiche e i filtri di alcune sequenze, come non ripensare alla camminata in piano sequenza di Beth all’ingresso dell’Hotel Mariposa di Las Vegas, semplicemente perfetta.

Beth Harmon è un personaggio complesso ed eccentrico, carica di glamour eppure sola, l’ossessione per gli scacchi la conduce ben presto in una spirale di autodistruzione, da cui può uscirne solo grazie a un inaspettato ritorno dal passato. Nel corso della sua ascesa-autodistruzione-rinascita, Beth coltiverà una serie di amicizie, tutti personaggi caratterizzati alla perfezione e con un ruolo ben definito nella sua vita, semplici eppure mai banali né scontati.

E poi ci sono loro, le partite a scacchi. Rendere una partita a scacchi avvincente non era un compito facile, eppure Scott Frank e Allan Scott, creatori della serie, non so come, ci sono riusciti: nonostante, nel complesso, le partite vere e proprie occupino uno spazio temporale limitato nel corso dei sette episodi, sono rese a schermo con incredibile maestria, tali da risultare avvincenti e godibili anche da chi non mastica di torri o alfieri.

È arrivato il momento di tirare le somme. Per quel che mi riguarda, La Regina degli Scacchi è una serie imprescindibile, appassionante come poche nell’attuale catalogo Netflix, e con una delle migliori interpretazioni femminili degli ultimi anni.

E non sempre occorre una seconda stagione per raggiungere la perfezione, La Regina degli Scacchi ci si avvicina già così.