Gettare via il DualShock e rifiutarsi di proseguire una sequenza d’azione, seppur digitale, ma che va contro ogni nostro principio morale, realizzando che, forse, ciò che abbiamo tra le mani va ben oltre il concetto di prodotto videoludico. Chi vi scrive ha provato esattamente questo durante l’ultima avventura di Ellie e Joel, lasciati nel lontano 2013 con quella scena potente, tanto un videogioco aveva osato sfidarci come nessuno prima d’ora.
The Last of Us: Parte II è il proseguo e la conclusione di quell’avventura iniziata sette anni fa, e se il primo capitolo ci ha fatto innamorare per poi scherzare con i nostri sentimenti, la seconda parte ci prende letteralmente a pugni, mette in discussione tutte le nostre certezze e ci scaraventa ancor più in profondità in quel mondo post-pandemico dove non esistono più scelte giuste o sbagliate, ma soltanto decisioni e relative conseguenze, il cui peso lo porteremo con noi sino alla fine dell’avventura.

“Giurami che tutto quello che mi hai raccontato è vero.”
Ellie, The Last of Us
L’ultima fatica di Naughty Dog muove i suoi primi passi riprendendo esattamente da dove si era fermato il primo capitolo; quella scena così potente e spiazzante, il dialogo tra Ellie e Joel che ha cambiato per sempre il modo di concepire la narrativa all’interno dell’esperienza videoludica. Ricordo ancora la mia incredulità, come uno schiaffo in faccia, quella semplice e potente risposta – “Lo giuro” – con cui Joel celava ad un’inconsapevole Ellie la scelta di condannare l’umanità intera per un puro e semplice atto egoistico. Sacrificarla per dare una speranza al mondo o strapparla al suo destino, salvare quella ragazzina anticonformista, conosciuta per caso, che aveva portato una luce nel grigio della sua esistenza. La nostra Ellie, colei in cui Joel rivedeva le speranze e i sogni infranti della figlia Sarah, la cui vita gli era stata strappata via tra le braccia durante quello che fu l’inizio, o meglio, la fine di ogni cosa; la stessa Ellie, immune al virus, forse la chiave per trovare finalmente un vaccino all’infezione che ha cambiato per sempre il volto del mondo.
Parlando a cuor sincero, chi non avrebbe fatto la stessa scelta di Joel? Chi mai avrebbe condannato a morte una ragazzina con cui, tra mille difficoltà, aveva condiviso un lungo viaggio attraverso quello che resta degli Stati Uniti, anteponendole l’idea di una cura per un mondo “malato”, non solo per via del virus, ma devastato nel profondo dell’animo, un’umanità apatica, diffidente e spietata, il cui unico fine è la propria sopravvivenza a discapito del prossimo. Probabilmente chiunque avrebbe fatto quella scelta egoistica, il fatto straordinario è averla inserita in un contesto ludico in cui ci si aspetta sempre il lieto fine, l’eroe che salva il mondo compiendo il sacrificio estremo. Non ci siamo abituati, vedere il protagonista che antepone il proprio bene rispetto a quello comune. Troppo realismo sbattuto di colpo in un videogioco, senza darci le istruzioni. E senza eroi, lasciandoci in mano semplici esseri umani con le loro fragilità e debolezze.
Ma i videogiochi sono “cresciuti“, sono maturati così come ormai lo sono la stragrande maggioranza dei suoi giocatori, i ragazzini di una volta che sono cresciuti a pane e joystick; siamo maturi e siamo pronti, ci aspettiamo ormai qualcosa in più da questa meravigliosa forma d’intrattenimento. Il confine con il concetto di esperienza realistica è sempre più labile, non solo da punto di vista grafico, ma soprattutto nei contenuti, nei temi trattati e nelle decisioni da prendere; come nella vita reale, dove non c’è una decisione importante che non sia sofferta, che accontenti tutti e ci lasci senza macchia, così nei prodotti videoludici odierni ogni decisione va presa accentandone il peso delle conseguenze, giuste o sbagliate sarà solo il tempo a dircelo.

Joel ha preso la sua decisione, e insieme ad Ellie li ritroviamo a Jackson, uno degli ultimi baluardi di una civiltà che non c’è più. Le loro vite continuano, così come quelle degli altri, ignari di quello che è stato e che poteva essere. Ma il peso delle conseguenze sta per arrivare forte come un macigno, perché se la parabola di Ellie e Joel ha seminato una scia di atti violenti e uccisioni “ludicamente” accettabili, ecco che il gioco sta per sbatterci in faccia un punto di vista differente, di chi sta dall’altra parte, di chi quelle perdite le ha subite sulla propria pelle.
Ed è qui che The Last of Us: Parte II emerge con forza, differenziandosi da tutto il resto. Finora ogni titolo ci ha sempre raccontato la storia da un singolo punto di vista, sai benissimo chi è il tuo alter ego digitale, conosci il suo background, le sue abilità e le sue motivazioni, vai avanti eliminando chi ti sta di fronte, perché è il tuo fine quello corretto, sei tu il protagonista della storia. Giusto? Non necessariamente, e Naughty Dog ce lo ricorda fin dai primissimi minuti. Ci ritroviamo inaspettatamente a giocare con un altro personaggio, non sappiamo chi sia o da dove venga. Ne conosciamo solo il nome, Abby, così la chiamano i suoi amici, degli estranei ai nostri occhi. Proseguiamo senza capire, percependo tuttavia che stiamo dando la caccia a qualcuno, abbiamo un conto importante in sospeso. Siamo sulle tracce di Joel, lo capiremo di lì a poco, lo stiamo braccando ma non ne comprendiamo le motivazioni. Abby non ci sta simpatica, ci dà fastidio giocare nei suoi panni, è tangibile, un disagio che si trasforma in odio quando la situazione precipita e ci ritroviamo di fronte all’inevitabile. Joel finisce nella mani del gruppo e viene brutalmente ucciso. La vicenda la viviamo dalla prospettiva di Ellie, spettatrice impotente del massacro. Joel non c’è più, il protagonista con il quale abbiamo vissuto l’intero primo capitolo, ne abbiamo condiviso i dolori e le sofferenze, l’indifferenza che si è trasformata in affetto verso Ellie, ma anche la rabbia e gli atti violenti con cui ci siamo fatti largo per arrivare sino a quel punto di non ritorno. È questo il potente incipit di The Last of Us: Parte II, il grande motore di vendetta che ci mette in moto, un ultimo viaggio nei panni di Ellie sulle tracce di Abby e del suo gruppo, responsabili di quel crimine inspiegabile ai nostri occhi. Ma sono effettivamente loro i criminali? Perché abbiamo impersonato Abby solo per quel dannato spezzone di gioco al quale mai avremmo voluto assistere? Cosa c’è dietro l’intera vicenda? Non lo comprendiamo ancora, possiamo solo percepire una profondità inquietante alla quale dovremo scavare per trovare le nostre risposte.

Neil Druckmann, direttore creativo del progetto e co-presidente di Naughty Dog, ci ha regalato negli ultimi anni delle sceneggiature memorabili. La saga di Uncharted e, ovviamente il primo The Last of Us, sono il biglietto dal vista di una delle menti creative più brillanti del mondo videoludico nonché esempio, più in generale, di come vanno raccontate le belle storie; perché non basta avere una buona idea, bisogna saperla rivelare con i tempi giusti, coinvolgendo l’utente e suscitando in lui le stesse sensazioni che proverebbe vivendole sulla propria pelle. Solo così le belle storie diventano reali, ti entrano dentro e non ne escono più.
Tre giorni piovosi in una Seattle spettrale, con l’ombra degli infetti e di un nemico senza nome, che si muove nell’ombra. Tre giorni a disposizione di Ellie e la sua compagna Dina per dare risposta a tutte le domande in sospeso, in un crescendo di suspense e violenza che già intuiamo dove ci sta conducendo. Intanto scopriamo che Dina è incinta; cosa abbiamo fatto: l’abbiamo trascinata in questo inferno. In realtà è stata una sua scelta, ma sapevamo che sarebbe stato così, non ci avrebbe mai lasciato da sole. Un teatro abbandonato come ricovero, la base da dove iniziare la ricerca; fuori piove incessantemente, Dina sta male, è debole e febbricitante, non può uscire insieme a noi. E da soli, là fuori, è ancora peggio. Fuggiamo da orrori di ogni tipo, ci lasciamo dietro una scia di sangue e ci macchiamo di violenze che ci fanno stare male, non ne comprendiamo bene il motivo ma sentiamo che qualcosa non va per il verso giusto, iniziamo a mettere in discussione le nostre certezze. Nella nostra spirale di vendetta uccidiamo una ragazza e il suo compagno, a sangue freddo; scopriamo solo dopo che la ragazza era incinta. Il pensiero vola subito a Dina; Ellie si sente male, noi con lei. Non possiamo più andare avanti, per fortuna sentiamo di essere prossimi all’epilogo. Almeno così crediamo. Perché l’inevitabile scontro con Abby non è la fine, è solo l’inizio. O meglio un nuovo, sconvolgente inizio.
Lo schermo si oscura, torna la luce e ci ritroviamo di nuovo nei panni di Abby, stavolta adolescente, in un bosco insieme al padre. Stiamo prestando soccorso ad una zebra ferita; i colori sono più accesi, si respira un aria nuova, c’è amore, serenità, la voglia di vivere e la speranza si toccano con mano. E poi, finalmente, capiamo. La verità ci travolge come una tempesta, Druckmann sfodera il suo asso nella manica, The Last of Us: Parte II ci colpisce forte allo stomaco. Perché c’eravamo anche noi nel viaggio di Ellie e Joel attraverso il Paese, siamo anche noi responsabili della scia di sangue che è stata lasciata alle spalle, sino a quel maledetto ospedale di Salt Lake City, dove la scelta di Joel ha cambiato per sempre il corso degli eventi. Siamo usciti da quell’ospedale con Ellie tra le braccia, colpevoli forse di aver annientato l’ultima speranza del genere umano, di certo consapevoli di aver spezzato le vite dei medici che stavano lottando per sviluppare finalmente una cura. Ma al tempo nessuno ci aveva prestato caso, l’amore tra Ellie e Joel era troppo forte, più grande di ogni altra cosa, del mondo intero, importava solo quello. Scoprire che il padre di Abby era a capo di quell’equipe medica ci fa male, solo ora percepiamo le conseguenze delle nostre azioni. Non sappiamo più cosa pensare.

E sono ancora tre giorni piovosi a Seattle, gli stessi tre giorni ma vissuti dall’altra parte della barricata, dove assistiamo alle vite spezzate dei nostri affetti, di una Mel in dolce attesa e del suo compagno Owen, il ragazzo con cui siamo cresciute e che abbiamo amato sin da piccole. Ora quei corpi freddi hanno un nome, da vittime sacrificali del nostro viaggio di vendetta diventano improvvisamente personaggi con una vita, un passato, con i loro sogni e speranze infranti da un turbine di violenza assurda lasciata alle spalle da una spietata ragazzina anticonformista. E il mondo ci cade addosso, odiamo noi stessi per aver odiato una Abby di cui non sapevamo nulla, per noi era solo la “cattiva” del videogioco. Invece di cattivo non ha un bel niente, è solo un’altra faccia della stessa medaglia, una persona che come tante ha lottato per sopravvivere in questo mondo dilaniato dall’infezione, che ha voluto bene al padre, ha pianto e sofferto. Ha vissuto gli orrori e i pochi momenti di felicità sulla propria pelle, proprio come Ellie. E come noi dall’altra parte dello schermo. E odiamo Ellie, dopo averla tanto amata. Tanto ci ha fatto commuovere al tempo quanto ci fa arrabbiare adesso.
Sappiamo che, prima o poi, dovremo rivivere lo scontro tra Ellie e Abby e già stiamo male. Sappiamo che non sarà come affrontare il classico boss di fine gioco, stiamo imparando che The Last of Us: Parte II non è il classico videogioco. È un’esperienza totalizzante e sconvolgente, ci sta dando una lezione, ci sta insegnando a non giudicare, emettere sentenze senza prima comprendere, senza mettersi nei panni dell’altro. La vendetta per noi ha perso ogni significato, ma non per Ellie, una Ellie scavata in volto, segnata dalla violenza e dal quel maledetto desiderio al quale non riesce a staccarsi. Noi lo abbiamo fatto già da un pezzo, siamo stanchi. Abbiamo già perso Joel, ora stiamo rinunciando a quello resta, all’affetto di Dina, a una vita “tranquilla” per quanto possibile dopo gli orrori di una vita vissuta sempre in fuga, a guardarci le spalle. Vorremo urlarle contro “basta così, ti prego”. Ma il videogioco non ha ancora finito con noi, la lezione non è ancora finita, c’è ancora una sequenza tremenda da affrontare.
Siamo in una spiaggia dalle tinte spente, domina un grigio funereo; Ellie stringe tra le mani il collo di Abby, il lungo viaggio è finito. Il Dualshock in mano e solo un tasto da premere. Ora ditemi voi quante altre volte vi siete trovati a rifiutarvi di premere un maledetto tasto, di gettare via il pad e non volerne più sapere niente. Ve lo dico io, mai. Perché mai un videogioco è riuscito a fare questo, a rompere la quarta parete e renderci così coinvolti in quanto sta accadendo a schermo, di toccarci a tal punto da farci portare il peso reale delle conseguenze di un azione digitale.
“Non credo che potrò mai perdonarti. Ma mi piacerebbe provarci.“
Ellie, The Last of Us: Parte II
Eppure siamo costretti a farlo, il gioco è lì che aspetta e non accenna a muoversi senza di noi; premiamo quel maledetto tasto, quasi senza guardare; per fortuna dura poco. È un attimo: Ellie è al culmine della vendetta quando lo vede, rivede Joel seduto in veranda con la chitarra in mano, la sera prima di morire; la sera in cui Ellie aveva deciso di dargli una possibilità, di perdonarlo nonostante la sua decisione e tutto quello che ne era seguito. Perché si, alla fine Ellie lo aveva capito. La grande bugia di Joel, l’atto che aveva condannato l’umanità intera, e che Ellie non gli aveva mai perdonato. Forse in cuor suo lo aveva sempre saputo, ma non voleva ammetterlo. È solo un attimo, un fugace ricordo ma tanto basta per redimerla, per accettare che ormai niente e nessuno potrà cambiare quello che è stato. E la lascia andare. Abby si allontana in barca, Ellie rimane seduta a riva, sola nel grigio di quel momento spettrale. Tiriamo un sospiro di sollievo, ma non siamo sollevati, ci siamo spinti troppo oltre per poter tornare indietro, niente sarà mai più come prima.

Non sappiamo se il mondo dei videogiochi sarà più lo stesso dopo questo capolavoro, solo il tempo potrà dircelo. Se un giorno si parlerà di un pre e post The Last of Us: Parte II, come una sorta di spartiacque più che generazionale, di tipo esperienziale. Di certo Naughty Dog ha dimostrato a tutti che infrangere la quarta parete è possibile, raccontare una storia dal respiro cinematografico combinandola all’esperienza ludica è possibile; e che vivere il paradosso delle nostre emozioni in un istante e mettere in discussione il nostro operato, seppur digitale, è possibile. Ma soprattutto, che è possibile raccontare una storia da due punti di vista opposti, insegnandoci quanto sia sbagliato trarre conclusioni affrettate o elargire facili giudizi sulle persone che incontriamo, nel gioco come nella vita, perché non siamo sempre e solo noi i protagonisti.
Ed è questa la vera grandezza di The Last of Us: Parte II.