Architetture videoludiche: Anor Londo

Abbattiamo il nostro nemico sulla cima della Fortezza di Sen. Il punto più alto del nostro viaggio sinora, all’ombra di una montagna impenetrabile. Il Golem di ferro giace inerme al suolo, ma non c’è riposo. Veniamo rapiti da demoni alati che silenti e minacciosi ci conducono in volo fin sulla vetta del monte senza nome. Mura di pietra si ergono sulla sua cresta, una cinta sconfinata senza un’inizio né una fine, e al di là di essa una visione di splendore unico.

Anor Londo, la città degli dei.

Maestosa, immobile. Illuminata dagli ultimi raggi di un sole morente che filtrano tra cumuli di nubi d’argento. Anor Londo, la città a lungo inseguita, inaccessibile, si staglia dinanzi ai nostri occhi.

L’arrivo ad Anor Londo è uno dei momenti più evocativi di tutta la saga di Dark Souls; probabilmente, uno tra i momenti artisticamente più ispirati dell’intera storia videoludica.

La città si erge silenziosa e maestosa. Incontaminata, ad un primo fugace sguardo, in netta contrapposizione alla devastazione delle terre di Lordran, che si estendono alle pendici della montagna, afflitte da una piaga senza tempo. Anor Londo, grazie alla sua posizione, non sembra aver risentito minimamente di ciò che accadeva al di là dei propri confini. Una bellezza rara, di quelle che tolgono il fiato.

Com’è possibile che tanta magnificenza sia sopravvissuta alla maledizione che ha devastato tutto?

La storia di Anor Londo parte da lontano. All’inizio dei tempi, in un universo ancora dormiente, dominato da rocce, alberi giganti e draghi eterni, ecco apparve la Fiamma Primordiale. Il cambiamento, l’inizio del tempo. Un’energia creatrice da cui sorsero anime speciali in grado di donare poteri particolari a chi ne entrava in possesso. Questo l’evento che diede inizio all’Età del fuoco, un’epoca dominata da potenti signori simili a divinità che portarono i draghi all’estinzione per regnare al loro posto.

Tra essi, senza dubbio fu Gwyn, Signore del Sole, a ergersi su tutti gli altri. Egli condusse i suoi cavalieri in battaglia; padroneggiando l’energia dei fulmini, ebbe infine la meglio sui draghi antichi.

Iniziò un’era di prosperità, il cui culmine fu rappresentato dalla costruzione della nuova capitale di Lordran e dimora del nuovo regnante. La città degli dei. Un aspirazione per tutti gli uomini, che ambiscono da sempre alla salvezza eterna, ascendendo ed entrando a far parte della grazia degli dei.

L’architettura gotica si respira sin dai primi passi. Enormi sale che si sviluppano in verticale, sorrette non da mura bensì da grandi pilastri, centrali e perimetrali, che lasciano le pareti liberi da ogni funzione strutturale e pertanto in grado di ospitare le più elaborate decorazioni. All’esterno delle imponenti strutture, archi rampanti e contrafforti. Forte è il sospetto di un richiamo all’architettura gotica del nostro territorio. E ne abbiamo la certezza completa quando vediamo lei. La cattedrale che svetta al centro di Anor Londo.

La Cattedrale di Anor Londo (sx) e il Duomo di Milano (dx)

L’architettura dell’intera città, e della sua cattedrale in particolare, si ispira al Duomo di Milano, come dichiarato da Masanori Waragai (art designer di From Software). Nel corso di un’intervista, lo stesso afferma di come sia rimasto colpito in modo particolare dai contrafforti della celebre cattedrale italiana, e di aver immaginato come sarebbe stato poter camminare sopra di essi.

Ecco aprirsi dunque nuovi orizzonti di level design, caratterizzati non solo dal classico avanzamento orizzontale, bensì verticale. Intere sezioni del gioco ad Anor Londo sono ambientate sui tetti e sui contrafforti delle strutture della città, in spazi così ristretti che ben si prestano a trasmettere quel senso di scarsità spaziale che in un videogioco è possibile sfruttare per creare dei momenti di particolare tensione.

E difficoltà. Bastano due nemici, sapientemente posizionati, per dare vita a un’intera sezione di gioco estremamente difficile. Architettura al servizio del level design, uno dei tratti distintivi dei titoli sviluppati dalla software house nipponica.

Così come i camminamenti ristretti sono teatro di imboscate, gli ampi saloni sono scenari perfetti per duelli titanici. Le gigantesche sentinelle che controllano l’ingresso ci accolgono, non reagiscono alla nostra presenza, a meno che non percepiscano evidente ostilità. E a quel punto, iniziano scontri epici, dove le imponenti armi dei nemici compiono rotazioni e fendenti poderosi, sfruttando tutto lo spazio a disposizione; armi scintillanti sotto la luce trasmessa da magnifiche vetrate. L’arte gotica diviene parte fondante del gameplay e arricchisce una lore già traboccante.

La lunga scalinata che separa il ponte principale dall’enorme cattedrale è ripida, ma al tempo stesso trionfale. Ci conduce, gradino dopo gradino, verso quella che immaginiamo sarà la fine del nostro viaggio, la boss fight di Anor Londo. In realtà, l’enorme portone è sigillato dall’interno, dobbiamo trovare una via alternativa. L’architettura della città è di nuovo protagonista del gameplay: una combinazione di scorciatoie, corridoi, ascensori e ponti mobili, ci conducono attraverso i meandri più nascosti della città. Il tutto sapientemente collegato in una mappa solo all’apparenza intricatissima, in realtà facilmente risolvibile una volta svelata. Tutto come da tradizione From Software.

L’interno della cattedrale riserva altre sorprese. Se gli esterni vibrano di italianità, gli interni sono francesi. L’ispirazione questa volta viene dal Castello di Chambord, il più vasto dei castelli della Loira.

L’immagine a destra è emblematica: si tratta di una celebre scala a spirale all’interno del Castello francese, oppure uno degli snodi nevralgici all’interno della cattedrale di Anor Londo? Chi ha avuto la fortuna di percorrerli entrambi, noterà ben poche differenze.

Lunghe scalinate, ma anche il trionfo di archi a tutto sesto, sovente a sesto acuto, sormontati da volte che che abbracciano la navata centrale – siamo tornati all’interno della cattedrale di Anor Londo – alla cui fine non troviamo la chiesa, il cuore della struttura, come ci si aspetterebbe, bensì una minacciosa nebbia in silente attesa. Chi mastica di titoli souls sa cosa ci aspetta: è l’ultimo ostacolo tra noi e l’altare che forse ci consentirà di avere un’udienza con gli dei. Una volta attraversata la nebbia prende infatti forma quella che probabilmente è una delle battaglie più trionfali e memorabili di tutto Dark Souls: la boss fight contro Ornstein e Smough.

Preceduti dalla loro reputazione, l’Ammazzadraghi e l’Esecutore ci attendono in un salone che è il trionfo del gotico più solenne. Volte a crociera e pilastri a fascio innalzano l’ampio salone su due livelli; le pareti delle navate laterali, svuotate della loro funzione portante, divengono sede di elaborate decorazioni impreziosite da rosoni finemente elaborati, intervallate da enormi pilastri perimetrali. Grigie statue di cavalieri adornano gli elementi verticali. Sul fondo della navata centrale si erge un abside a pianta semicircolare, nel quale svettano due imponenti statue, con uno spazio vuoto laddove tempi addietro ve ne era una terza.

Il contrasto fra solennità e decadenza è evidente: candelabri spezzati, copri esanimi a terra, scie di sangue. Un massacro ha avuto luogo in quella sala. Una duello senza precedenti sta per iniziare. L’architettura della chiesa è funzionale allo scontro, se sfruttata a dovere diventa essa stessa una arma di difesa. Le imponenti colonne sono l’unica barriera tra noi e i due boss, i quali ci attaccheranno contemporaneamente senza soluzione di continuità. Frapporre gli elementi verticali tra noi e loro è l’unica chiave per il proseguo del nostro viaggio.

Una lotta impari, un muro di sangue e frustrazione innanzi a noi, impreziosito da una colonna sonora epica e da un’arena di scontro maestosa. Battaglia e sofferenza indimenticabili.

Ma la fine del nostro viaggio attraverso Anor Londo è vicina. Abbattuti i due potenti boss, un ascensore in fondo alla navata laterale ci conduce ad un enorme porta sigillata. Dietro di essa luce, il sorriso. La dea Gwynevere, figlia di Lord Gwyn, ci attende con una rivelazione amara: Anor Londo non è la fine della nostra avventura. Lunga è ancora la via e innumerevoli gli sforzi per raggiungere la meta finale del nostro viaggio.

Che la magnificenza di Anor Londo sia solo un’illusione?

Di lì a breve lo scopriremo. Ma questa è un’altra storia…

La Lore dei Souls

“There may be no answers, but one must still forge ahead”

Così recita silenziosa la descrizione della Chiave dei Sotterranei del Rifugio dei Non Morti Settentrionale. Sono passati oramai più di dieci anni da quel lontano 2011, quando il primo Dark Souls venne rilasciato, cambiando per sempre le regole del mondo videoludico. Ricordo indistintamente ancora oggi quella sensazione di smarrimento avviato per la prima volta il gioco, catapultato in una situazione quantomeno indecifrabile. Il personaggio che avevo creato minuziosamente qualche minuto prima era rinchiuso in una prigione poiché, come si apprendeva da una voce fuori campo, portatore del Segno Oscuro, un marchio che maledice i Non Morti. Da una grossa apertura del soffitto ecco affacciarsi un cavaliere ignoto e lanciare all’interno della mia cella un cadavere; quest’ultimo portava con sé un oggetto che avevo la possibilità di raccogliere: la chiave che mi avrebbe permesso di uscire di lì. Ovviamente iniziai a chiedermi chi fosse quel cavaliere, perché stesse cercando di aiutarmi, cosa diamine facessi lì, rinchiuso in una cella buia e fredda; domande sul come e sul perché, sul mondo che mi circondava, domande senza risposta. Mi apprestai a raccogliere la chiave e ne lessi la descrizione, il gioco aveva previsto il senso di spaesamento in cui mi aveva gettato e mi rincuorava dicendomi: «Anche senza risposte, bisogna comunque proseguire».

Con questa introduzione, volutamente criptica, ha inizio la trilogia di Dark Souls, la celebre saga dark fantasy ideata da Hidetaka Miyazaki e sviluppata da From Software. Con questa introduzione, di fatto, inizia un nuovo modo di creare videogiochi. Viene abbandonata la struttura classica in favore di una narrazione atipica, quasi insufficiente ad una prima occhiata; non più cutscene in computer grafica e i dialoghi, laddove presenti, lasciano più dubbi che certezze. Addio pure alla linearità nelle ambientazioni proposte; il giocatore, dopo un breve tutorial, viene abbandonato a sé stesso in un mondo ostile, oscuro e pieno di enigmi. Ma anche di risposte, celate alla vista ma alla portata di tutti coloro decidano di abbandonarsi completamente ad esso.

I primi passi in Dark Souls sono la manifesta enunciazione poetica che sta alla base del lavoro di Miyazaki: il giocatore non sa né dove né quando si trova esattamente, l’unica vera fonte diretta di informazioni che l’autore concede al gamer è il criptico filmato iniziale. Muoviamo i primi passi in una cella tetra e angusta, la porta è chiusa; domande senza risposta, enigmi nell’oscurità. Qual’è il nostro obiettivo? Anche senza risposte, bisogna comunque proseguire.

La descrizione unica, a prescindere dell’utilità, associata ad ogni singolo oggetto raccoglibile, è la prima vera chiave di interpretazione del mondo creato dell’autore, il suo tratto distintivo. È l’insieme delle descrizioni, disseminate ovunque in un mondo altrimenti silenzioso, che ci consegnano le informazioni necessarie, tasselli informi di un mosaico ancora sconosciuto che costituiscono la lore dell’opera.

Ma che cos’è dunque la lore? È fondamentale chiarire da subito la distinzione fra storialore, poiché qui si gioca un ruolo fondamentale nella comprensione della narrativa miyazakiana. Partiamo col dire che non c’è una vera e propria traduzione in italiano; si potrebbe interpretare come “tradizione” o “conoscenza”, ma entrambi non restituiscono comunque il significato compiuto del termine, la sua profondità all’interno del contesto di gioco. Lore è un termine che deriva da folklore, e riassume una narrativa basata sulla scoperta attiva del giocatore, il quale individua i diversi elementi che vanno a raccontare l’ambientazione. Questo è possibile generalmente attraverso i dialoghi con gli NPC – non-playable characters – i documenti di testo sparsi per la mappa, nella descrizione di oggetti e armamenti, in tutto quello che possiamo cogliere attraverso un’osservazione attenta e indagatrice dell’ambiente circostante. È una presa di posizione narrativa che rifiuta l’idea di una linearità nel racconto e che lascia spazio a un ambiente con una storia, la quale può essere svelata o meno. La scelta spetta unicamente al giocatore.

In un prodotto videoludico, la lore può avere più o meno rilevanza nell’economia generale; anzi, alcune opere possono essere godute anche senza il minino approfondimento, privilegiando una fruizione rilassata e lontano da frustrazioni. Nei primi anni duemila si è assistito ad una svolta narrativa che ha lasciato da parte la ricerca della sfida, pur con eccezioni di livello (basti pensare alla saga iniziale di God of War). L’eccezionale sviluppo tecnologico del medium, sempre più vicino al fotorealismo, orientò i più blasonati titoli usciti in quei anni verso una narrazione estremamente cinematografica, puntando molto sull’estetica e su gameplay poco punitivi, tali da non appesantire la fruizione del racconto con snervanti e continui Game Over.

“YOU DIED”

Per comprendere appieno il successo della saga di Dark Souls, occorre fare un passo indietro, laddove tutto è iniziato. Il punto di rottura in ambito videoludico si ebbe nel 2009, con l’uscita di Demon’s Souls, action RPG dalla notevole difficoltà per gli standard attuali. Il progetto sembrava inizialmente destinato al fallimento, fino a quando non venne affidato ad un giovane e talentuoso Miyazaki; in esso l’autore riversò la sua poetica, un potenziale narrativo che che sarebbe poi definitivamente esploso in tutta la sua forza nelle opere successive. Il titolo, uscito in Europa un anno dopo, quasi a sorpresa creò attorno a sé quasi un culto, un’esperienza così punitiva da regalare all’utenza, al superamento degli ostacoli, soddisfazioni ormai dimenticate. La canonizzazione degli stili tipici dell’autore arrivò con il primo Dark Souls, l’abbandono della formula a livelli in favore di una mappa unica, interconnessa, destinata a rivoluzionare il game design: si avanza, sconfiggendo nemici, fino al falò successivo, si sblocca una scorciatoia e si arriva all’arena del boss; si muore, e si riparte dall’ultimo falò, in un mondo in cui la morte non è mai definitiva. Una rivoluzione in termini di game design e, con essa, esaltazione massima del concetto di lore.

Un Souls non si identifica soltanto con un livello di difficoltà proibitivo, ma anche e soprattutto con una forma di narrazione ermetica, l’espressione massima dello “show, don’t tell“, il saper raccontare l’ambientazione non solo tramite le descrizioni ma anche sfruttando la costruzione dell’ambiente, lavorando sul suo design. Questo metodo era già percepibile in Demon’s Souls e venne affinato in maniera decisa con Dark Souls, per raggiungere il suo apice in Dark Souls III. La grande rivoluzione portata da Lordran è stata quella di mettere in scena un mondo in cui ogni singolo dettaglio nasconde un perché: un edificio crollato non è realizzato in quel modo solo per creare atmosfera ma esiste un perché e un come; una statua o un bassorilievo posto su un muro hanno un significato; un oggetto raccolto ha sempre un motivo per essere rinvenuto in quel preciso punto e il design di un nemico non è solo basato sull’estetica e sul moveset ma racconta anche esso una storia. Il giocatore, di fronte ad un Souls, è portato a porsi sempre le stesse domande: perché, come, dove, quando, chi? La trilogia di Dark Souls è un’infinita fonte di domande, un grande gioco ad incastro in cui i pezzi sono parte di un puzzle del quale manca la scatola raffigurante l’immagine finale. 

Ed é proprio qui che si chiede al gamer quel qualcosa in più. Ogni Souls può essere affrontato in maniera lineare e puramente ludica, forzando il level design con l’unico obiettivo di progredire nel mondo gioco e raggiungere i titoli di coda. Nulla lo vieta anzi, è sicuramente intesa come possibilità dagli sviluppatori; si affrontano boss-fight memorabili e tecnicamente impeccabili, in cui si richiede al giocatore tutta l’abilità e il sangue freddo di cui dispone, l’espressione massima dell’esperienza videoludica. Tuttavia, così facendo si perde gran parte dell’esperienza offerta da Miyazaki e dal team di From Software, esperienza che può essere vissuta unicamente “mettendosi in gioco“; se il giocatore accetta di abbandonarsi totalmente all’opera e sottostare alle sue regole, inizia a porsi domande, esplorare e innamorarsi della scoperta; solo allora diventa padrone del suo agire tramite quanto visto e compreso. La presunta incomunicabilità dell’opera svanisce e le ermetiche porte della lore si schiudono ai suoi occhi, in tutta la sua maestosa e, sino a quel momento, celata bellezza.

È importante, fondamentale oserei dire, in un’opera come questa concedersi dei momenti per leggere le descrizioni, osservare l’ambiente circostante, speculare e darsi delle risposte, senza una guida o imposizioni da parte dell’autore. Tutto ciò senza escludere l’esperienza ludica e di gameplay, altrettanto importante; il giocatore deve accettare la responsabilità che il Game Director gli affida nell’affrontare entrambe le facce della medaglia, poiché questo è il solo modo di godere appieno dell’esperienza a fondamenta dell’opera.

“Un mondo ben costruito potrebbe raccontare la sua storia in silenzio”

Hidetaka Miyazaki

Forse in pochi sanno che questo espediente narrativo, oggi quasi un mantra tra gli appassionati, sia in realtà nato da una necessità oggettiva, un’esigenza sapientemente sfruttata. From Software al tempo portava con sé grandi idee e ambizioni ma, come spesso accade, anche un budget limitato. Rinunciare a costosi filmati in computer grafica – i famosi “spiegoni” gettati in pasto al videogiocatore – divenne di fatto un’artificio per contenere i costi di produzione. Mai decisione si rivelò più azzeccata: perché mostrare a schermo un concetto quando è possibile scomporlo e disseminarlo ovunque nel mondo di gioco, negli oggetti, nei dialoghi, praticamente in ogni elemento di game design? Lasciare al giocatore la ricerca della verità e, laddove la stessa sia impenetrabile o addirittura inesistente, invogliarlo a riempire i buchi narrativi con ipotesi e supposizioni, alimentando discussioni nelle community online. Il contenimento dei costi divenne, di fatto, un incentivo all’esplorazione senza precedenti. Il piacere della scoperta, la vera anima dei Souls.

“Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto”

Italo Calvino

Citazione che Miyazaki sembra prendere piuttosto alla lettera. Nei Souls tutto comunica qualcosa, persino il silenzio, fedele accompagnatore durante il solitario peregrinare, una lunghissima avventura nel corso della quale il giocatore entra in contatto con concetti sospesi a metà tra il filosofico e il concreto, come luce e oscurità, vita e morte. Verrà sempre da chiedersi cosa sono i Non Morti o le Fiamme Sopite, della fine dei Draghi Eterni o del misterioso primogenito di Lord Gwyn, ma la risposta sarà sospesa chissà dove, sparsa nel vasto universo di gioco, senza che nessuno venga mai a svelarlo a chi sta giocando.

Dettagli diretti, ma anche una miriade di dettagli indiretti, perle nascoste il più delle volte sconosciute ai più, ma che una volta scoperte regalano soddisfazioni uniche. Parliamo della colonna sonora ad esempio, che accompagna solenne e consapevole le boss-fight più memorabili; ecco dunque che affrontando Artorias, il Camminatore dell’Abisso, una musica triste e cupa ci accompagna durante tutto il combattimento: solo chi avrà riunito i pezzi nel modo corretto riuscirà a comprendere il perché, mentre per tutti gli altri sarà semplicemente una durissima battaglia. Penso anche alla melodia struggente e bellissima che incalza lo scontro con Gehrman “The First Hunter” in Bloodborne, erede sprituale diretto e primo della saga Souls; una boss-fight unica nella sua drammaticità, restituita splendidamente da una colonna sonora immediatamente riconoscibile e ricca di significato.

Altri dettagli silenziosi li troviamo nelle architetture del mondo: come non citare Anor Londo, in cui è tangibile la sacralità di ciò che si staglia di fronte ai nostri occhi, si intuisce forte la presenza di qualcosa che ha a che fare con la religione, con il divino. La cattedrale in stile gotico è contornata da effigi che rappresentano il primo Lord, Gwyn il signore dei Tizzoni. Da lui e dal suo sacrificio nacque il culto del vincolo, che permise alla Prima Fiamma di non spegnersi, evitando così che il mondo fosse divorato dall’oscurità. Dettagli mai comunicati direttamente al giocatore, eppure in bella vista per un occhio attento. Nei Souls la lore è ovunque, alla portata di chiunque abbia la giusta sensibilità di coglierne l’essenza e il significato.

Ho introdotto Bloodborne, potrei citare Sekiro: Shadow Die Twice o dedicare un intera elegia a Elden Ring – e forse un giorno lo farò – è chiaro come la saga dei Souls abbia ispirato negli anni una serie di titoli di grande successo, un terreno di gioco in cui anche altre software house hanno provato a cimentarsi, ammaliate dal fascino della scoperta e da un diverso modo di concepire l’esperienza videoludica, non necessariamente progettata per prendere per mano il videogiocatore. Si tratta di titoli che sono stati poi racchiusi sotto il termine Soulslike, portando così alla nascita di un nuovo genere videoludico, dalle caratteristiche uniche e immediatamente riconoscibili.

Chiaramente, essendo in molti casi estremamente longeva e complessa da scoprire, la lore è inevitabilmente fautrice di infinite discussioni all’interno delle community, andando a creare un bellissimo ed unico ambiente di speculazione, confronto e intuizioni, con il fine ultimo di riuscire a comprendere qualcosa che è stato inserito volutamente celato dagli autori all’interno della narrazione.

La lore rappresenta al giorno d’oggi un qualcosa di fondamentale che rende, non solo i soulslike, ma ogni titolo di ogni saga degno di essere giocato ed esplorato fino ai suoi anfratti più remoti, e che permette all’industria videoludica di continuare ad evolversi nel raccontare universi di storie sempre più belle, dettagliate e in grado di unire nel modo più accomodante e piacevole giocatori da ogni parte del mondo.


Non è dunque la storia, né l’ambientazione; non sono le tradizioni, i culti e il folklore del mondo di gioco. Non è il racconto di epiche gesta del passato né delle piccole azioni che plasmano le fondamenta del presente, influenzando gli eventi futuri. È in ogni dettaglio eppure evanescente, palese e al tempo stesso celata, tangibile eppure inafferrabile. Singolarmente non è nulla di tutto ciò eppure ne è sintesi perfetta.

Parliamo di lore, la vera essenza dei Souls.

La lunga Notte della Caccia

Yharnam, Notte della Caccia.

Mi risveglio nel letto spoglio di una clinica; sono immerso nell’oscurità, immagini distorte, sfocate…creature spettrali, evanescenti, si manifestano e avanzano verso di me. Ricordi confusi. Ho subito una trasfusione, sangue antico per la cura di una malattia ignota. Che si tratti solo di un sogno…? Un incubo, terrificante. Fuori è buio. Per i vicoli poche luci, lanterne isolate. Urla e lamenti nella notte. Una piaga sconosciuta affligge l’antica città di Yharnam. Gotica e solenne. Spaventosa.

Devo uscire là fuori, affrontare quelle amenità. Devo trovare una cura. Sono un Cacciatore. La lunga notte della Caccia è iniziata.

Lettera di un cacciatore anonimo

L’epidemia dilaga a Yharnam. Un racconto dalle origini antiche e profonde.

Pthumeru è dove tutto ebbe inizio. Un’antica civiltà, guidata dalla Regina Yharnam, una stirpe dotata di capacità eccezionali, oltre le naturali qualità umane. Con tutta probabilità, antenati dell’umanità.

Una civiltà in grado di comprendere le verità dei Grandi Esseri.

Assimilabili a divinità, in possesso di abilità sovrannaturali e incomprensibili alla coscienza umana, i Grandi Esseri viaggiavano attraverso i diversi piani di esistenza, sia terreni che onirici, capaci di plasmare la fisica stessa dei piani esistenziali. Veri e propri demiurghi in grado di controllare i concetti di spazio e tempo, morte e vita. Oltre ad essere i custodi della verità assoluta. Avvicinarsi a loro significava comprendere appieno il significato ultimo del Cosmo.

Fu proprio questa brama di conoscenza ad attirare l’ambizione delle civiltà umane, fin dall’antichità. E gli pthumeriani non fecero eccezione.

L’antica civiltà visse a stretto contatto con loro, in un rapporto di simbiosi e cooperazione. La convivenza tra Grandi Esseri e pthumeriani portò questi ultimi a sviluppare capacità sovrannaturali, arti arcane e piromanzia. Una delle strade per arrivare alla conoscenza fu il Sangue Antico, il sangue dei Grandi Esseri. Una sostanza con enormi poteri, in grado di trasformare e migliorare le qualità umane.

E cambiare i destini del mondo.

I Grandi Esseri elessero la Regina come madre dei loro figli. Ogni Grande Essere, infatti, bramava un figlio, ma aveva bisogno di una madre per potersi riprodurre. E il concepimento poteva avvenire solo attraverso la Comunione del Sangue Antico, mescolando il sangue della Regina con quello dei Grandi Esseri, attraverso un rituale che portava alla corruzione del sangue stesso.

Un rituale che divenne ben presto un flagello.

Avvicinarsi alla conoscenza suprema del Cosmo, trascendere i diversi piani esistenziali, condusse gli uomini alla follia, mentre le qualità curative del Sangue Antico provocarono una forte assuefazione, costringendo le persone a farne un uso sempre più massiccio e frequente. Con il tempo, questo causò un vero e proprio mutamento cellulare, risvegliando negli infusi gli istinti più feroci e reconditi dell’animo umano e trasformando gli uomini in bestie.

Fu proprio il morbo della bestialità a sancire la fine della società pthumeriana. La prima a cadere città fu Loran, i cui abitanti si tramutarono in belve e le cui strade furono ricoperte da sabbia e detriti, a testimonianza del totale abbandono. Ma in poco tempo anche altre città e villaggi furono colpiti dalla piaga.

Questo fardello fu troppo da sopportare per le civiltà pthumeriane, al punto da arrivare ad una drastica decisione: sigillare i labirinti. Il tragico destino degli pthumeriani sarebbe stato l’isolamento eterno, confinati sottoterra al fine di proteggere l’umanità dal dilagare del morbo e custodire il loro agghiacciante segreto.

Molti anni passarono prima che i grandi labirinti venissero scoperti e profanati. L’unico modo per accedervi era compiere un rituale, utilizzando Antichi Calici, preziosi manufatti di origine pthumeriana, e sacre reliquie, materiali organici o di natura arcana. Furono i ricercatori dell’Accademia di Byrgenwerth a scoprire il meccanismo dei rituali dei Calici. E furono i primi ad accedere agli antichi labirinti dove sorgeva la civiltà di Pthumeru. L’accademia, fondata da Mastro Willem, iniziò l’esplorazione dei labirinti pthumeriani, scoprendo così i poteri miracolosi del Sangue Antico e riportando alla luce oscuri segreti ormai dimenticati.

“Temi il sangue antico”

Dalla decadenza della civiltà di Pthumeru, Willem apprese un grande insegnamento. Il rettore intuì sin da subito i rischi che il fluido portava con sé, ma non smise tuttavia di condurre i suoi studi sui Grandi Esseri e sulle verità del Cosmo. Semplicemente, orientò il suo metodo di ricerca in un’altra direzione. Egli si convinse che l’essere umano potesse ascendere a piani di conoscenza superiori ed entrare in comunione con i Grandi Esseri, senza necessariamente passare dall’infusione del Sangue.

Ma in seno all’accademia c’era chi non era d’accordo. Tra questi, Laurence, uno degli studenti più brillanti. Per lui la via più rapida ed efficace per l’ascensione era proprio l’utilizzo del fluido divino. Ben presto egli entrò in conflitto con il suo maestro. L’accademia di Byrgenwerth si spaccò e lo scisma portò Laurence a fondare la Chiesa della Cura, con sede nella Grande Cattedrale della vicina e antichissima città di Yharnam.

Primo Vicario della neonata organizzazione, Laurence fondò l’intera sua dottrina nella Comunione del Sangue, come mezzo per il contatto con i Grandi Esseri e l’ascensione verso gradi superiori dell’esistenza. Ma il sangue serviva anche per migliorare le qualità terrene degli esseri umani, così come tramandato dagli pthumeriani.

Nacque quindi il culto del Sangue Curativo (o Sangue Antico); la Chiesa della Cura fece di Yharnam il centro della sua giurisdizione, ed ivi condusse i suoi esperimenti sulla popolazione. Tali esperimenti consistevano nelle infusioni di massa su residenti e stranieri e il conseguente studio degli effetti. A causa delle pratiche d’infusione, la città divenne ben presto meta di pellegrinaggio per coloro che – da ogni parte del mondo – volessero sottoporsi a questa cura miracolosa, con la promessa di guarigione da ogni male. I riti legati al Sangue Curativo penetrarono in fretta all’interno della cultura cittadina, tanto che ogni singolo aspetto della vita dei suoi abitanti ne rimase permeato.

Grazie all’enorme potere del Sangue, la Chiesa della Cura instaurò un vero e proprio controllo sociale e politico sulla città. I suoi chierici e i suoi ministri divennero, di fatto, i governanti di Yharnam. Un’organizzazione gerarchica, quella della Chiesa della Cura, al cui vertice c’era il Coro, presieduto dai chierici di più alto rango. A loro era destinato il compito di dialogare con i Grandi Esseri dei labirinti; fu così che vennero in contatto con Ebrietas, la Figlia del Cosmo, prima divinità rinvenuta negli antichi labirinti e portata a Yharnam, nella Grande Cattedrale. Il contatto con Ebrietas permise ai membri del Coro di svilupparono le loro conoscenze. Ma soprattutto, fu proprio il Grande Essere a garantire alla Chiesa e alla città di Yharnam un costante e continuo afflusso di Sangue Curativo.

I membri del Coro erano abili esploratori dei labirinti. E a, differenza dei loro colleghi di rango inferiore, i soli in grado di maneggiare poteri e manufatti derivati dai Grandi Esseri. Uno dei membri più importanti del Coro fu Caryll, uno degli antichi, che trascrisse i suoni indecifrabili dei grandi esseri in particolari rune, utilizzabili dai cacciatori per migliorare le loro capacità nel combattimento e nella conoscenza.

I Cacciatori. Guerrieri, posti ai ranghi inferiori della Chiesa della Cura, il cui compito era difendere le strade di Yharnam dalle belve. Dotati di spiccata resistenza alla bestialità, effetto collaterale dell’infusione di Sangue Antico, che colpiva i cittadini trasformandoli in feroci animali, divennero l’ultimo baluardo di speranza prima dell’oblio.

Come nacquero i cacciatori è presto detto. Durante l’esplorazione degli antichi labirinti, gli studiosi di Byrgenwerth e della Chiesa della Cura si trovarono a fronteggiare creature così feroci e violente, che si rese necessaria la creazione di un vero e proprio corpo armato a loro difesa.

Serviva un ordine in grado di arginare con la forza ogni accenno di mutazione bestiale nei cittadini sottoposti alla Comunione. Fu quindi fondata da Laurence l’Antica Officina dei Cacciatori: un luogo dove uomini e donne venivano addestrati a sviluppare resistenza al richiamo bestiale derivante dalle infusioni.

Laurence vi mise a capo Gehrman, anch’egli ex studente di Byrgenwerth. Gehrman, il Primo Cacciatore.

I cacciatori utilizzavano armi trasformabili da mischia, nella mano destra, e armi a distanza, in quella sinistra. Alcuni di loro, però, erano in grado di maneggiare la magia e i poteri arcani. Abili, letali, suddivisi in classi: si distinguevano i cacciatori neri, il cui unico compito era mondare le strade di Yharnam dalle bestie; i cacciatori bianchi, chierici che approfittavano della caccia per studiare e condurre esperimenti sul sangue curativo. E poi c’erano loro, i cacciatori di cacciatori, potenti guerrieri con il compito di combattere i cacciatori che venivano corrotti dal sangue, cadendo nella bestialità.

Quando l’epidemia si abbatté anche sulla città di Yharnam, i cacciatori divennero il braccio armato della Chiesa della Cura. Ogniqualvolta la piaga delle bestie prendeva il sopravvento – e le strade di Yharnam si riempivano di belve – la Chiesa della Cura bandiva la Notte della Caccia. Durante questo evento, i cittadini che non erano stati toccati dal morbo, dovevano barricarsi nelle loro abitazioni, per proteggersi.

I vicoli della città, infatti, si trasformavano in un campo di battaglia, tra le bestie afflitte dal morbo e i loro cacciatori, che avevano il compito di contrastare l’avanzata dell’epidemia, trucidando tutto ciò che incontravano. La piaga si diffondeva in modo incontrollabile, al punto da rendere le notti di caccia sempre più lunghe ed estenuanti. Per questo motivo in molti cittadini, ebbri di sangue, si scatenava una violenta frenesia omicida, al punto da spingerli a partecipare alla caccia, nella doppia veste di prede e cacciatori improvvisati.

Ma i cacciatori vennero impiegati molto prima dell’istituzione della Notte della Caccia.

Nella parte più antica della città, Old Yharnam, si diffuse il morbo del Sangue Cinereo. Le cause, apparentemente sconosciute, sono da ricondurre ai primi esperimenti della Chiesa della Cura sugli ignari abitanti della città.

È opinione diffusa, infatti, che sia stata proprio la Chiesa a far ammalare i cittadini e, non appena le normali medicine si dimostrarono insufficienti, ebbero l’occasione di intervenire con una massiccia somministrazione di Sangue Curativo. Tale terapia, sebbene pose fine all’epidemia, trasformò l’intera popolazione in bestie feroci. Questa circostanza fu la prima in cui vennero impiegati i Cacciatori, al di fuori degli antichi labirinti. La loro spedizione, tuttavia, risultò inefficace. L’unica, tragica, alternativa fu bruciare l’intera area della città e sigillarne gli ingressi.

Ma il rimedio non bastò a bloccare la piaga, che, da lì a poco, avrebbe invaso l’intera città di Yharnam.


Figura chiave, quella del Primo Cacciatore.

Gehrman era un abile guerriero e un egregio inventore. oltre a dirigere il nuovo esercito della Chiesa della Cura, mise a punto una nuova tipologia di armi, in grado di trasformarsi a seconda delle esigenze di chi le brandiva in battaglia.

Tuttavia, dopo il rogo di Old Yharnam, i vertici della Chiesa della Cura presero una decisione. L’antica officina di Gehrman venne chiusa, a favore della creazione di una nuova palestra, più moderna e strutturata: l’Officina dei Cacciatori della Chiesa della Cura. Questa nuova istituzione si differenziava dall’altra per l’utilizzo di metodi e armi all’avanguardia e un reclutamento più massivo di milizie.

I nuovi cacciatori, inoltre, oltre ad essere abili nel combattimento, erano anche medici in grado di condurre esperimenti sugli inermi abitanti di Yharnam Centrale. Fu così che a capo della nuova officina venne messo Ludwig, un chierico preparato e stimato dallo stesso Laurence.

Un nuovo compito attendeva il Primo Cacciatore. Il morbo era ormai diventato endemico e le notti di caccia erano sempre più lunghe ed estenuanti. Alla Chiesa della Cura serviva dunque un luogo dove i cacciatori potessero allenarsi e rigenerarsi, in un ciclo infinito fatto di caccia e ristoro, in un alternarsi continuo tra sogno e veglia. Convinto da Laurence, Gehrman ricevette udienza da un Grande Essere, affinché questi potesse donare l’immortalità ai nuovi cacciatori chiamati a mondare le strade della città. Fu così che nacque il Sogno del Cacciatore, un piano di esistenza parallelo, identico all’Antica Officina. Il Sogno era il risultato dell’evocazione di un Grande Essere molto potente: la Presenza della Luna, colui che rispose alla chiamata del Primo Cacciatore.

Gehrman, ormai vecchio e senza più stimoli, rimase a presidio del Sogno. Ma quello che per i cacciatori era un luogo di ristoro, per lui divenne presto una prigione. Condannato a un triste destino, addestrare cacciatori per l’eternità, per le notti della caccia a seguire. L’unica compagnia al suo fianco, un Automa dalle sembianze di una giovane donna – probabilmente la sua allieva prediletta – pronta a servire i Cacciatori che sarebbero transitati dal Sogno. Dotata di una scintilla di umanità all’interno di membra meccaniche, con le sue parole di speranza ella divenne l’unico conforto per i cacciatori nelle lunghe e feroci notti di caccia.


Intanto, la Chiesa della Cura proseguiva nel suo intento. Alla periferia della città di Yharnam, non troppo distante dalla Grande Cattedrale, sorgeva il cimitero cittadino. Un luogo periferico, Hemwich Carnel Lane, lontano dagli sguardi curiosi dei cittadini, in cui la Chiesa potè perpetrare la più blasfema delle sue attività: la profanazione di tombe. L’obiettivo era estrarre dai cadaveri quanto più materiale organico possibile, da utilizzare come reliquie per i rituali dei calici. Le profanatrici, assoldate dalla Chiesa, erano delle megere senza scrupoli, rozze e aggressive.

A capo del quartiere, però, si impose una strega che intuì le potenzialità di queste reliquie nell’acquisizione di conoscenza e nel contatto con il Cosmo. Ben presto, la Strega di Hemwick e le sue megere iniziarono a condurre in autonomia i propri esperimenti, anche ai danni di malcapitati cacciatori che si trovavano a passare per quelle zone, i quali venivano rapiti e torturati. Una zona ormai perduta, fuori dal tempo, in cui nessuno osava addentrarsi più.

E lì, poco distante da Hemwick Charnel Lane, si ergeva l’imponente e dimenticato Castello di Cainhurst.

Così solenne e sfarzoso, abitato da una società con usi e costumi molto differenti da quelli di Yharnam, e governato da Annalise, sovrana di sangue pthumeriano. Una volta scoperti gli studi sul Sangue Antico di Byrgenwerth, la regina volle sfamare le sue ambizioni e sfruttò il suo fascino per corrompere uno studente dell’accademia, affinché le consegnasse un campione del liquido miracoloso estratto dal corpo di un Grande Essere, con tutta probabilità l’ultimo residuo del sangue di Oedon, il più grande e potente di tutti, capace di trascendere tutti gli altri Grandi Esseri, ormai privo della sua essenza corporea.

A seguito dell’infusione, la regina divenne immortale e tutta la sua corte poté godere della Comunione, grazie al fluido estratto dallo stesso corpo di Annalise. Da quel momento, i cavalieri di Cainhurst presero il nome di Vilesangue: un dispregiativo, per la Chiesa della Cura, sinonimo di corruzione e blasfemia.

La brama di sangue di Annalise e la corruzione dei Vilesangue, non piacquero alla Chiesa della Cura. I vicari e i ministri non potevano accettare che, altrove, venisse praticata la Comunione. Così, da una costola dei Cacciatori nacque il giuramento dei Carnefici: un ordine di guerrieri preposto ad annientare Annalise e il regno di Cainhurst.

Logarius, a capo delle milizie di Carnefici, invase il castello e sterminò l’intera corte. Ma non poté nulla contro l’immortalità della Regina. Decise, quindi, di far crollare il ponte che collegava Cainhurst a Yahrnam e sigillò la sala reale. Si mise a guardia del Castello per l’eternità, impedendo alla Regina Annalise di lasciare il palazzo. Sacrificò la sua vita a questa missione e divenne, per tutti, il Martire Logarius.

La Chiesa della Cura e L’Accademia di Byrgenwerth, tuttavia, non erano le uniche istituzioni a cercare disperatamente la comunione con i Grandi Esseri. Tra queste, la Scuola di Mensis, con il suo fondatore Micolash.

Quello di Micolash è, forse, il più inquietante e macabro tra i metodi di ascensione. Se la Chiesa cercava di sfruttare il potere miracoloso del Sangue e Mastro Willem bramava raggiungere la verità tramite la conoscenza, l’obiettivo della Scuola di Mensis era il contatto con i Grandi tramite la realizzazione di un rituale. Cercando di replicare, in qualche modo, i rituali degli antichi calici, Micolash rapiva e vivisezionava le sue vittime, al fine di estrarne materiale organico per compiere il suo personale rito di comunione. Per far questo, la Scuola di Mensis si serviva, talvolta, delle megere di Hemwick Chanel Lane e di antiche evocatrici pthumeriane. Tali esperimenti, inizialmente, furono avvallati dalla Chiesa della Cura, essendo Micolash sia un ex studioso di Byrgenwerth, che uno dei primi membri della Chiesa. Con il tempo, però, anche Laurence si allontanò dai metodi della Scuola, entrandone apertamente in conflitto.

Le ricerche della Scuola si svolgevano nel villaggio invisibile di Yahar’gul, alle porte di Yharnam e celato agli occhi della sua popolazione, dove veniva venerato il Grande Essere Amygdala: divinità liminare e padrona della Frontiera dell’Incubo.

Il rituale, grazie anche all’utilizzo di un terzo cordone ombelicale, portò i risultati sperati dalla Scuola. Micolash entrò in contatto con il Grande Essere Mergo. Sebbene, pagò un prezzo carissimo: il suo intelletto venne intrappolato nell’Incubo di Mensis e il suo corpo restò esanime a marcire a Yahar’gul. Stessa sorte nefasta toccò anche gli adepti della Scuola di Mensis, trasportati nell’incubo insieme al loro maestro; Alcuni abitanti del villaggio invece vennero fusi tra di loro, dando vita a creature informi e aberranti come il Rinato, altri invece si amalgamarono con l’architettura stessa di Yahar’gul.


Ma cos’è un terzo cordone ombelicale? Una potente reliquia, probabilmente una sezione di Grande Essere estratta dal corpo dopo il concepimento con una donna di sangue pthumeriano. Tali cordoni erano rari e spesso venivano rinvenuti nei pressi dei cadaveri di donne entrate in comunione con Oedon l’Informe, o nei loro neonati.

Si ha memoria di tre cordoni ombelicali: il primo, appartenuto a Iosefka, infermiera della clinica di Yharnam Centrale; il secondo, rinvenuto da Arianna, prostituta rifugiatasi nella Cappella di Oedon durante la Notte della Caccia; il terzo, sul cadavere di Mergo, figlio di Oedon e della Regina Pthumeriana Yharnam, che risiede ormai con la sua Balia nella dimensione dell’incubo.

Vi è, tuttavia, testimonianza di un quarto cordone, rinvenuto nella Vecchia Officina dei Cacciatori abbandonata. Esso, probabilmente, fu raccolto da Gehrman durante una spedizione al Villaggio dei Pescatori, dove viveva Kos, una Grande Essere incinta. si narra che proprio grazie a questo manufatto il primo cacciatore evocò la Presenza della Luna, dando origine al Sogno del Cacciatore.


Il primo a comprendere i piani di Micolash fu Willem. Una consapevolezza derivante dalla sua profonda conoscenza dei misteri del Cosmo e del rischio delle evocazioni dei Grandi Esseri. Per questo motivo, il rettore di Byrgenwerth cercò di mettere un argine all’impresa della Scuola di Mensis.

La strategia era celare il rituale di Mensis con un artefatto arcano. E per farlo c’era bisogno della collaborazione di un Grande Essere: Rom, il ragno ottuso.

Rom era stata una studentessa di Willem, che riuscì a raggiungere lo status di Grande Essere dopo aver messo in pratica gli insegnamenti dello stesso Willem e dopo essere venuta in contatto con Kos, l’altro grande essere residente nel remoto Villaggio dei Pescatori.

Grazie alle sue conoscenze sulle Verità Straordinarie, il rettore riuscì a contattare la sua studentessa, che albergava presso il Lago della Luna: un piano di esistenza parallelo a quello degli umani, nei pressi di Byrgenwerth. Il potere di Rom costituì una sorta di velo, con il compito di celare i macabri segreti del rituale di Mensis.

Con la morte di Rom, però, il rituale poté compiersi e abbattersi sulla città di Yharnam.

Il suo compimento, portò la fusione di due piani esistenziali: quello della veglia e quello dell’incubo. È così che sui cieli della città comparve la Luna Rossa, manifestazione vivente del Grande Essere Oedon. Alcuni abitanti della città caddero tra le braccia della follia. Per altri, invece, si accelerò il processo che li avrebbe trasformati in bestie feroci.

L’avvento della Luna Rossa fu un cambiamento cruciale per le sorti del mondo. Ed è qui che la triste storia di Yharnam si conclude, con l’incubo di Mensis, uno dei luoghi più cupi dell’intero mondo. Le architetture, le forme e le creature sono sconnesse e discontinue, come plasmate da una mente folle e irrequieta.

Si tratta dell’intelletto di Micolash, l’host dell’incubo, nato dalla nefasta conseguenza del rituale di Yahar’gul, effettuato da Micolash per ricevere udienza dal Grande Essere Mergo. Nell’incubo si trova anche la Regina Yharnam, in lacrime, con il ventre squartato e fedelmente protetta dalle sue Ombre, a dimostrazione del fatto che fu lo stesso Micolash ad ucciderla, per appropriarsi del Terzo Cordone e contattare suo figlio.

L’ambiente macabro e ostile dell’incubo di Mensis è anche un monito per il genere umano. Fino a che punto si è disposti a cercare la verità assoluta? Cosa si è disposti a sacrificare per conoscere appieno il significato ultimo del Cosmo?

L’ambizione umana ha trasformato la città di Yharnam in una tana di ferocia e follia e intrappolato i suoi protagonisti in prigioni oniriche, dove il tempo e lo spazio sono completamente distrutti.

E intanto, in un ciclo senza fine tra veglia e incubo, un’altra lunga Notte della Caccia è appena iniziata…

Into the Lands Between

Mi risveglio da un sonno eterno. La cappella è buia e disadorna. Flebili reminiscenze, sono un Senzaluce, un abitante dell’Interregno, esiliato un tempo ormai lontano per aver perduto la benedizione della Grazia. Mi ritrovo qui, ora, richiamato in vita da una volontà superiore; altro non mi è concesso sapere.

Filtrano deboli raggi di luce dal tetto fatiscente della struttura, illuminano alle mie spalle una statua greve e solenne. C’è un silenzio spettrale, malinconia e inquietudine si intrecciano e mi pervadono; ai miei piedi si srotola un tappeto rosso che conduce ad un portone massiccio. Sembra chiuso. Osservo meglio all’interno, c’è un cadavere alla mia destra, una sacerdotessa; tra le sue mani recupero delle dita avvizzite. Non so che farmene ma le prendo comunque, sono certo che mi torneranno utili.

Mi avvicino al portone e lo spingo a piene mani. Si spalanca, aprendo innanzi a me un cortile di pietre sconnesse ed erbacce. La Cappella dell’Attesa, conosco il nome del luogo del mio risveglio; un imponente struttura in pietra grigia che si erge sulla cima di una rupe a picco sul mare. Non ho tempo di chiedermi come sia arrivato qui, la mia attenzione è rivolta altrove: una breve scalinata in pietra malridotta si para innanzi a me e mi accompagna ad un baratro. Non è la paura che mi assale, quanto la silenziosa maestosità che si staglia oltre esso: un imponente castello, se ne scorge indistinto il profilo oltre un leggero velo di foschia, le sue guglie altissime si ergono sullo sfondo di un grigio cielo.

Ma c’è dell’altro a catturare il mio sguardo: un qualcosa che avevo già intravisto all’uscita della cappella e ora lì, sul quel baratro, domina prepotentemente la scena, come se non ci fosse altro all’infuori di esso. Un luminoso albero, maestoso, magnifico con le sue fronde e rami dorati. Un tronco imponente, anch’esso etereo e splendente, lo fa svettare sopra questa landa a me ancora sconosciuta; non è chiaro dove abbia inizio, ma la sua aurea permea e inonda tutte le cose visibili e invisibili. C’è chiaramente una volontà superiore, un che di indefinito che non riesco ancora a comprendere seppure sia lì, immobile e palese innanzi a me. Fasci di luce dorata irradiano grazia in tutte le direzioni. Sono pietrificato, un misto di speranza e terrore, qualcosa di indescrivibile; il mio sguardo si perde di fronte a uno spettacolo mai visto prima.

Il baratro non è la fine ma l’inizio: una scala di legno ancorata sulla parete rocciosa conduce ad uno spiazzo inferiore, e da qui verso un ponte sospeso. Lo attraverso con passo incerto, sono ancora disorientato tra lo stupore della vista e l’ansia di ciò che mi attende oltre.

Sono un cavaliere errante, temprato dal tempo e da battaglie di cui non ho più memoria, so bene che c’è solo una cosa ad attendermi oltre il solenne portale di fronte a me: la morte. Altre statue, figure ammantate impugnano spade rivolte verso il basso, il silenzio è greve, interrotto solo dal rumore del vento che sferza i rami avvizziti di antichi alberi che hanno visto troppi inverni. Supero l’arco di pietra e sono in uno spiazzo ancora più grande, dominato al centro da una statuta, la più imponente di tutte. Una figura femminile, forse una dea, con il capo chino e le braccia allargate; incute rispetto e riverenza, ma anche fiducia. Ha qualcosa che la avvolge fin sopra la testa, non riesco a comprendere fino in fondo la scultura, forse un simbolo a me ignoto.

Solo adesso mi accorgo dei pollini dorati che fluttuano intorno a me, l’aria ne è intrisa. Petali, forse foglie, danzano in silenzio ma non vi è traccia alcuna a terra. La quiete surreale viene bruscamente interrotta: un orrore con molteplici arti innestati balza fuori da non so dove e mi si para innanzi, minaccioso e immobile tra me e la divinità di pietra. Letale. Brandisce una spada e uno scudo, riesco a scorgerne il volto: un viso cereo, esangue, privo di ogni emozione. Mi si scaraventa contro.

Solo morte. La stavo aspettando.

Ripiombo nel sonno eterno ma dura poco, mi risveglio in una grotta buia e umida; una fanciulla incappucciata, in groppa ad un destriero, si avvicina cauta. Pare quasi mi stesse attendendo. Sono esanime, ma la sento comunque sussurrare qualcosa, parole che non comprendo…“la sorte è con lui”, …”anello ancestrale”, …”ordine aureo”…

Parole senza significato, ma portano con sé uno scopo, la ragione per cui sono ancora qui. Sento la vita scorrere in me, di nuovo. Non è la fine, non sono stato richiamato dalla morte per morire ancora. Non è una grotta, bensì un santuario, l’inizio del mio viaggio. Mi rialzo, la strada è tracciata innanzi a me.

Non è la fine, è solo l’inizio …

Ferocia e arte videoludica: le boss-fight

Cosa vuol dire esattamente affrontare una boss-fight?

Chi si è spinto a leggere queste righe probabilmente già lo sa; conosce la tensione e il battito accelerato che improvvisamente prendono il sopravvento, le dita tremanti che stringono forte il pad e quella perenne sensazione di sentirsi impotenti e mai completamenti preparati ad affrontare quello che ci aspetta.

E cos’è che ci aspetta? Cosa si erge di fronte a noi al termine di un livello o di una zona appena esplorata in ogni singolo anfratto? Molto spesso, il gioco ce lo fa capire chiaramente quando stiamo per avvicinarci ad una boss-fight.

Un’arena o comunque uno spazio aperto si apre di fronte a noi, la cui estensione va di pari passo con le dimensioni del boss di turno, o quantomeno delle sue capacità di manovra; il tema musicale cambia improvvisamente e più è solenne la melodia, più intima e dedicata, più il nemico di turno ha un suo peso in termini di importanza e di complessità all’interno della lore del gioco. E poi eccolo, il boss fa il suo ingresso trionfale, si manifesta più o meno imponente e minaccioso, concedendoci l’onore di poterlo affrontare sul campo di battaglia. Tutta la strada fatta sino a lì, i miglioramenti apportati al nostro equipaggiamento, l’esperienza acquisita e i nemici sconfitti fino a quel preciso momento, nulla ha più importanza; tutto scompare, passa in secondo piano, un nuovo boss si erge di fronte a noi e tutto ricomincia da capo.

Affrontare un boss per la prima volta è un’esperienza videoludica unica, una delle più totalizzanti, demoralizzanti ed elettrizzanti al tempo stesso che vi possa mai capitare pad alla mano; così come il successo di una boss-fight è qualcosa che riempe di autostima e orgoglio, una gioia e al tempo stesso una liberazione. Si perché raramente, almeno nei giochi quelli più hardcore – quelli in cui ha senso parlare di boss-fight, mi riferisco ai souls e suoi derivati – ci libereremo in tempi brevi dell’ostacolo che ci si para innanzi. Spesso occorrono giornate intere, anche settimane per venirne a capo – dipende ovviamente dal tempo che possiamo dedicare al nostro passatempo preferito – e più tempo impiegheremo, più saremo pervasi da uno stato di angoscia, giorno e notte. Ebbene sì, quante notti ogni hardcore gamer avrà trascorso, prima di addormentarsi, a ripensare ai moveset del boss, a come schivarlo e contrattaccare, a ripassare mentalmente i suoi attacchi concatenati e i movimenti corretti da eseguire al momento giusto. Perché per sconfiggere un boss occorre essere tecnicamente perfetti.

Si inizia con l’osservazione e lo studio dei suoi moveset di base, i suoi attacchi, magari imparando a distinguere tra quelli fisici e quelli elementali, per comprendere quali elementi sfrutti il boss e verso quali sia più debole così da equipaggiarci con il giusto set di attacco-difesa, in soldoni, l’armatura o l’arma più efficace contro quel particolare elemento. I primi tentativi servono proprio a questo, a comprendere le meccaniche di base di quello che sarà poi lo scontro vero e proprio. E moriremo, tante (troppe) volte, prima di iniziare a capire. Ed è qui che inizia la parte difficile, proprio quando iniziamo a capire: l’arena di scontro ci diventa familiare, la melodia che accompagna la boss-fight ormai risuona nella nostra mente e la canticchiamo a denti stretti, riusciamo a prevedere alcuni attacchi della bestia e a reagire di conseguenza; mettiamo a segno qualche colpo, ci sentiamo un pò meno impotenti, il pensiero di riuscire ben presto a prevalere ci sfiora. Ma è solo un’illusione.

Eh già, perché molto spesso arrivati a metà di una boss-fight e prese le misure al boss di turno questi ci spiazzerà, diventando molto più aggressivo e tirando fuori dalla manica tutto un nuovo set di attacchi che, oltre a farci molto male, ci costringeranno a rivedere l’odiosa scritta “You Died” ancora a lungo. Inutile girarci intorno, la seconda fase di una Boss Fight è una sfida estenuante e provante: solo arrivati a questo punto capiremo come la prima parte dello scontro fosse in realtà solo preparatoria e, soprattutto, una fase in cui occorrerà essere sostanzialmente perfetti e consumare meno pozioni/curativi possibile per avere una chance nella seconda. Il tema si fa ancora più incalzante, la velocità dello scontro aumenta e con essa i nostri riflessi, l’errore non è più ammesso, con il secondo siamo fuori dai giochi. Diventa una guerra di nervi e sangue freddo, occhi-cervello-dita diventano un tutt’uno, quello che vediamo a schermo viene rielaborato a velocità impensabili e si traduce in una pronta reazione delle mani con la pressione della giusta combinazione di tasti, che sia una schivata/rotolata o parata – eh no, non è la stessa cosa – un contrattacco o una fuga evasiva per curarci e riprendere fiato per un paio di secondi.

E infine quel momento arriva: lo scontro in cui siamo stati praticamente perfetti, la barra degli HP (punti salute) del Boss è quasi allo stremo ed è quello l’esatto istante che richiede più sangue freddo in assoluto: sappiamo che bastano ancora un paio di colpi per sconfiggere la bestia di turno ma non dobbiamo essere avidi, occorre avere ancora più pazienza del solito e aspettare il momento giusto; si perché è un attimo ingolosirsi di fronte all’opportunità di abbatterlo, abbassare le difese e attaccarlo, abbandonando la tattica che ci ha portati sino a quel punto; e, nonostante il boss sia stremato, senza pazienza e senza tattica saremo morti in un attimo. Aspettiamo il momento giusto, esaurita l’ennesima combo il boss riprenderà un pò di fiato, e noi saremo lì pronti ad assestargli il colpo definitivo. Il boss crollerà a schermo, e noi crolliamo dall’altra parte, rilasciando tutta la tensione accumulata; possiamo prenderci un bel respiro di sollievo: ce l’abbiamo fatta!

Sconfiggere il Boss di turno ci premierà spesso con una serie di oggetti rari o armi uniche, oltre che aprirci le porte per una nuova area di gioco e un nuovo step nella quest principale; godiamoci, fieri, il momento, raccogliendo tutto il possibile e facendo un veloce check di quanto lo scontro ci sia costato in termini di equipaggiamento e consumabili, ma proiettandoci già oltre: si perché conclusa una zona se ne apre un’altra, con nuovi nemici da sconfiggere – ancora più cattivi – una lunga strada impervia sino alla prossima arena di scontro e all’inevitabile boss successivo, estremamente più cattivo e insidioso di quello precedente.

C’è chi sostiene come oggi i videogiochi, grazie anche al loro sviluppo di massa, siano diventati più facili e accessibili a tutti; forse è anche per questo che titoli come i vari Dark Souls, Bloodborne, Sekiro – titoli sviluppati dalla celebre From Software e dal maestro Hidetaka Miyazaki – nonché tutti i derivati del genere, stanno riscuotendo sempre più successo, conquistandosi una fetta di pubblico ogni giorno più vasta, non solo tra gli hardcore gamers. In un mondo, quello videoludico, sempre più aperto e condiviso, è bello riscoprire di tanto in tanto la bellezza di un single player che ci metta davvero alla prova; da soli, sul divano o nel silenzio della nostra camera, provare a metterci in gioco nel gioco, testare le nostre capacità di riflessi e di apprendimento, studiare la tecnica del nemico affinando la nostra, avere una tattica e metterla alla prova. Tutto questo è sì, difficile e snervante, ma anche dannatamente appagante.

Senza nulla togliere ai videogiochi del passato, in cui c’erano già delle sfide estremamente difficili, complicate spesso anche da una grafica confusionaria e da meccaniche di gameplay ancora acerbe per i tempi, le boss-fight di oggi sono realizzate con una tale cura dal lato tecnico e ispirazione nella direzione artistica da rappresentare un’esperienza videoludica totalizzante, il cui valore spesso esula da tutto il resto.

Tra le tante boss-fight che mi hanno colpito – in tutti i sensine ho scelte tre, quelle che mi sono rimaste più impresse e delle quali ancora oggi ho un ricordo indelebile, quelle dove questo perfetto mix di ferocia e arte videoludica trova, a mio giudizio, la sua massima espressione e compimento.


Gehrman, The First Hunter (Bloodborne)

”Stanotte, Gehrman si unisce alla caccia.”

Gehrman, The First Hunter

Accompagnato da queste parole Gehrman, “The First Hunter, si alzerà dalla sua sedia a rotelle – si, avete capito bene… – armato di una falce, la Lama della Sepoltura, concedendoci l’onore di affrontarlo in un ultimo, straziante duello.

Un boss iconico, in onore al quale questo blog ne porta fiero il nome; c’è poco altro da aggiungere, se non che la boss-fight finale di Bloodborne – di uno dei possibili finali, per l’esattezza – è una delle più memorabili e struggenti che sia mai capitato di affrontare.

Gehrman è il Primo Cacciatore e rappresenta, di fatto, il vero volto della Caccia. Il più antico e potente dei Vecchi Cacciatori, è anche il più misterioso, nulla si sa infatti della sua infanzia e delle sue origini. Quello che sappiamo, sin dall’inizio, è che Gehrman è da tempo immemore una guida per i cacciatori novizi; dall’interno dell’Hub centrale di gioco, il sogno del cacciatore, con poche e criptiche parole ci accompagnerà attraverso una tetra e sanguinaria notte, la lunga notte della caccia.

A rendere così epica la boss-fight finale è senza dubbio l’atmosfera dello scontro: saremo in un cimitero, illuminati da una luna piena enorme e spettrale, il Primo e l’Ultimo cacciatore uno di fronte all’altro, l’esperienza innata contro noi, giovani cacciatori; provati da una notte di abomini, da un’impietosa e feroce caccia, con un ultimo gesto fiero rifiuteremo la proposta di Gehrman di morire per uscire dal sogno e tornare alla realtà. Ma arrivati a questo punto ci saremo spinti troppo oltre per tornare indietro, vogliamo prendere il posto del nostro mentore, consci di essere ormai degni di restare nel sogno come guida per i futuri novizi, e per farlo dovremo inevitabilmente affrontarlo e sconfiggerlo.

Gehrman non ci darà mai tregua; la sua Lama della Sepoltura ha una gittata immane, non ci lascerà scampo raggiungendoci ovunque; a circa metà dello scontro, il nostro crudele avversario prenderà una pastiglia della belva, che lo renderà ancora più furioso e devastante nel suo incedere. Inutile dire che lo scontro è molto lungo e snervante, servono tanta pazienza e sangue freddo per portarlo a termine con successo. E si deve essere disposti a morire tante volte, prima di capire come venirne a capo; perché si, memorizzate le combo del nostro avversario, prima o poi troveremo la chiave di volta dello scontro, il segreto per evitare i suoi attacchi e contrattaccarlo senza pietà. E allora saremo noi a picchiare forte, inarrestabili.

Per una volta tanto, vincere lo scontro ci renderà fieri ma anche svuotati di un qualcosa, perché sconfiggere Gehrman alla fine non ci darà quella soddisfazione che speravamo; se non altro, perché non potremo affrontarlo di nuovo e riascoltare il tema solenne e maestoso che accompagna la boss-fight le cui note risuoneranno a lungo nella nostra mente, l’indelebile ricordo del duello al quale abbiamo avuto l’onore di prendere parte.

Indelebile, come le ultime parole del nostro mentore.

”La notte…il sogno…sono stati lunghi.”

Gehrman, The First Hunter

Genichiro e Isshin Ashina (Sekiro: Shadow Die Twice)

“Il nostro lungo viaggio di redenzione ci ha condotti sino a qui: abbiamo un conto in sospeso con Genichiro Ashina; il nemico giurato, l’uomo che sul campo dall’erba d’argento ci ha mozzato il braccio sinistro e lasciato esanimi, portandosi via Lord Kuro, il giovane che avevamo giurato di proteggere.

Rimasti orfani sul campo di battaglia e cresciuti sulla via degli shinobi, il destino ci aveva affidato il compito di proteggere Kuro, l’ultimo erede della famiglia Hirata e custode di un potere ancestrale, il Retaggio del Drago. Un segreto tanto oscuro quanto potente, capace di ribaltare le sorti di un’intera dinastia, e forse della storia. Un potere tale da valere al giovane il titolo di Erede Divino, e da esporlo alle mira del clan Ashina, un tempo potente famiglia ora sull’orlo della disgrazia, alla cui guida siede il patriarca Isshin Ashina, il Maestro, leggendario guerriero. Con quel potere, la gloria della famiglia Ashina poteva essere ristabilita, e questo il giovane Genichiro, suo nipote, lo sapeva bene; ci ha provato, ma non possiamo essere spezzati: il nostro destino, il destino di Sekiro, “il lupo senza braccio”, è legato indissolubilmente a quello del giovane Lord, siamo i servitori dell’erede del sangue divino e non conosciamo la morte.

Eccoci qui, la fine del nostro viaggio; di nuovo nel campo dall’erba d’argento, è notte e c’è la luna piena. Di fronte a noi ancora Genichiro ma stavolta siamo pronti, la nostra sete di vendetta è cresciuta al pari della nostra abilità, padroneggiamo l’arte della spada alla perfezione e non saremo noi a cadere; Genichiro nel profondo lo sa, così come il Maestro, e sappiamo bene che stavolta Isshin non resterà a guardare.”

Sekiro: Shadow Die Twice è un gioco pieno zeppo di boss – la mia personale guida su come sconfiggerli la trovate qui – ma di tutti i boss che incontreremo e, fidatevi, saranno davvero tanti, nessuno eguaglia la sfida finale: considerato che, in caso di fallimento, dovremo ogni volta sconfiggere Genichiro prima di affrontare Isshin, la coppia Genichiro-Isshin rappresenta una della boss-fight più assurde e difficili mai concepite dalla mente di Miyazaki.

Il primo duello sarà contro Genichiro, dopo averlo già affrontato nel corso del gioco; memori di quello scontro, ne conosceremo già i moveset di base ma sarà comunque una sfida provante, considerata la velocità pazzesca con la quale si combatte nell’ultimo capolavoro di From Software. Sconfitto, Genichiro punterà la lama mortale contro di se uccidendosi ed evocando dal suo corpo il potente patriarca della famiglia Ashina, il Maestro Isshin Ashina.

“L’esitazione significa sconfitta.”

Isshin Ashina

Lo scontro con Isshin prevede ben tre fasi distinte, in un crescendo di furia e di attacchi sempre più devastanti; Isshin colpisce davvero forte, e l’unico modo per fronteggiarlo è studiarlo nei minimi particolari e memorizzare alla perfezione i suoi attacchi, imparare a distinguerli dal minimo movimento del corpo e reagire di conseguenza. A complicare il tutto, come già accennato, c’è l’incredibile velocità imposta dal combat system, che costringe a ridurre al minimo i nostri tempi di reazione; ulteriore difficoltà che si aggiunge a quelle prevedibili di una boss-fight finale. L’ultima fase dello scontro – quando finalmente riusciremo ad accedervi – sarà sotto una tempesta di fulmini, tanto faremo fatica a riconoscere il campo dall’erba d’argento che ci ha accolti al chiaro di luna, in una delle arene di scontro più ispirate ed evocative di sempre.

Migliorare noi stessi, a tal punto da rendere il pad come un estensione del nostro braccio, così come lo è Kusabimaru – la katana – per il Lupo; il segreto di Sekiro è nascosto qui. Si deve fare pratica e allenarsi, investire tempo ed affinare la nostra tecnica, dedicare tutto noi stessi alla causa e andare oltre i propri limiti; altrimenti, semplicemente, non si prevale. Solo allora potremo avanzare, quando saremo un tutt’uno con il nostro alter ego, come in una danza che infrange la quarta parete, perché per sopravvivere in Sekiro: Shadow Die Twice occorre essere tecnicamente perfetti.


Re Senza Nome (Dark Souls 3)

"Nell’era degli antichi…
Il mondo era amorfo e avvolto nella nebbia.
Un regno di rupi grigie, alberi giganti e draghi eterni.

Poi venne il fuoco…

Dall’oscurità giunsero loro
E trovarono le anime dei lord nelle fiamme.
Nito, il primo dei morti,
La strega di Izalith e le sue figlie del caos,
Gwyn, il lord del sole, e i suoi fratelli cavalieri,
E il nano furtivo, spesso dimenticato.
Con la forza dei lord, essi sfidarono i draghi.

Così ebbe inizio l’era del fuoco.
Ma presto le fiamme svaniranno, 
e resterà soltanto l’oscurità…”

Con questi versi solenni e premonitori, la Profezia, si apre il terzo e ultimo capitolo della saga souls per eccellenza, quella di Dark Souls. E non c’è dubbio alcuno che la boss-fight più leggendaria, quella il cui ricordo lo porterò sempre con me, a prescindere da quanto è stato e da quanto verrà dopo, debba provenire da questo titolo.

Quella con il Nameless King è riconosciuta dalla community, quasi all’unanimità, come la boss-fight più difficile di Dark Souls 3, probabilmente una delle più difficili di sempre; per fortuna, si tratta di uno scontro opzionale, nel senso che è possibile terminare la quest principale del gioco senza doverlo affrontare, ma è chiaro che il senso di sfida che impone il titolo e la voglia costante di ogni hardcore gamer di mettersi alla prova, alzando sempre più l’asticella, rendono di fatto lo scontro con il Re Senza Nome un passo obbligato verso la gloria. O meglio, verso la Vetta dell’Arcidrago.

Ma cosa spinge esattamente noi, e altri cavalieri erranti, verso questo luogo così remoto? La Vetta dell’Arcidrago si trova nelle lontane montagne del Nord, visibili da ogni punto di Lothric ma apparentemente irraggiungibili; è un luogo di pellegrinaggio e devozione, intrapreso da pochi eletti nella speranza di acquisire il potere dei Draghi Eterni. Ma il vero segreto di questa Vetta è un altro. Oltre una coltre di fitta nebbia, al suono di una campana si risveglia un grande condottiero; in groppa ad un’antica viverna alata e armato di enorme lancia capace di scagliare elettricità, il Re senza Nome attende il suo sfidante. Egli è in verità il primogenito perduto di Gwyn, Primo Signore dei Tizzoni e cacciatore di draghi, come narrano i racconti epici; caduto in disgrazia e rinnegato, egli trovò rifugio presso l’inaccessibile vetta alleandosi con i Draghi, gli stessi nemici contro cui il padre aveva combattuto una vita. E sotto la protezione di un incantesimo impenetrabile nell’ultima dimora accogliente per i Draghi, secoli dopo il suo disonore mai dimenticato, egli attende noi.

La maestosità e l’epicità dello scontro sono uniche, pari solo alla sua tremenda difficoltà; suonata la campana e squarciato il velo di nebbia tra noi e l’inevitabile, ecco il Re calare dal cielo in groppa alla sua maestosa viverna. Il Re delle Tempeste – è con questo nome che lo conosceremo inizialmente – in groppa alla sua macchina di morte alata ci sembrerà sin da subito un avversario insormontabile. Armati di pazienza e fiducia in noi stessi, dovremo aspettare il momento giusto in cui la viverna si lancerà in picchiata verso terra, evitare il suo alito di fuoco e cercare di stordirla, stando attenti al contempo agli attacchi del suo spietato cavaliere. La prima fase di scontro è estremamente complicata, ma nulla a che vedere con la seconda; si perché, ucciso l’enorme drago, il Re Senza Nome pianterà la sua lancia nel corpo dilaniato della cavalcatura abbattuta, assorbendone il potere dei draghi e fondendolo con quello del fulmine: sarà a questo punto che il boss ci concederà l’onore di affrontarlo in duello sul campo di battaglia.

Lo scontro con il Re Senza Nome è di una cattiveria assoluta: ci colpirà di continuo, e lo farà forte, senza tregua. L’estrema difficoltà di questa boss-fight sta nel fatto che, anche una volta memorizzato l’intero set di attacchi del boss, questi continuerà comunque a farci parecchio male, arginare i suoi attacchi è dannatamente difficile; quando riusciremo a pararlo, egli spezzerà comunque le nostre difese danneggiandoci. Il Re Senza Nome non conosce pause, è incessante e irremovibile nella sua furia, rendendo molto difficile anche riprendere fiato e curarci al momento del bisogno. Mettiamo a segno qualche colpo, ma ci sembra di scalfire la superficie di una montagna di granito, ci sembra di essere quasi impotenti benché arrivati a questo punto del gioco saremo di certo livellati a dovere e sicuri di poter spezzare chiunque.

Il Re Senza Nome è una soglia di sbarramento, mette alla prova chiunque; è stata la prima, vera, boss-fight in cui ho pensato seriamente di non farcela. Poi alla fine è successo: una run sostanzialmente perfetta, entrambi allo stremo delle forze ma il colpo mortale, l’ultimo, stavolta è stato sferrato da questa parte e il Re Senza Nome è finalmente caduto. Niente salti di gioia, esultanze o altro…solo tanta stanchezza e consapevolezza, la consapevolezza di aver affrontato un avversario impareggiabile, e di aver alzato ancora un pò più in alto l’asticella della sfida pad alla mano.


Amo le boss-fight, si è capito, e chi ha provato o prova tuttora queste emozioni sa di cosa sto parlando; per tutti gli altri, penso sia giunto il momento di tirare le somme e rispondere alla domanda iniziale: affrontare una boss-fight è un’esperienza unica nel panorama dell’intrattenimento videoludico. Si resta ammaliati dalla direzione artistica dello scontro, dalle fattezze dei boss e dei loro movimenti, dalla bravura con cui vengono modellati e animati; si viene rapiti dall’atmosfera che ci circonda, dalla melodia in sottofondo sempre più incalzante e solenne e, nel mentre di tutto questo tripudio artistico, si viene bastonati forte e occorre pensare velocemente a come ribaltare le sorti di una battaglia dall’esito già segnato. C’è tutto in una boss-fight, il momento più alto e complesso di ogni produzione videoludica e, per quanto frustanti e demoralizzanti possano risultare, la soddisfazione che ci invade ogni volta ne veniamo a capo non ha davvero eguali.

E una volta sperimentato tutto questo, non si smette più.

Il Giappone di Ghost of Tsushima

Nell’autunno del 1274 i mongoli guidati da Kublai Khan invadono l’isola nipponica di Tsushima dando il via, almeno nelle intenzioni, all’invasione del Giappone. È questo l’evento storico che fa da sfondo alle avventure di Jin Sakai, il samurai protagonista di Ghost of Tsushima. Un evento realmente accaduto trasposto magistralmente in forma videoludica dai ragazzi di Sucker Punch, che sono riusciti a raccontare un conflitto interiore, quello di un samurai, sullo sfondo di un conflitto ben più grande, quello in corso nell’isola, in un lungo viaggio di redenzione interiore e di liberazione esterna dagli invasori.

Ma non è tanto per la storia, semplice quanto appassionante, che sarà ricordato Ghost of Tsushima, e neanche per il combat system, uno dei più divertenti e al tempo stesso profondi nel panorama videoludico odierno, quanto per il cuore con cui il progetto è stato sviluppato. Partire al galoppo mentre il vento accarezza gli steli l’erba in un turbinio di foglie nell’aria, duellare al tramonto in un tripudio di colori, rilassarsi e comporre haiku mentre si osserva la natura, Ghost of Tsushima è realizzato con un amore e un rispetto verso la cultura nipponica ammirevoli. Per comprendere la filosofia del progetto nella sua interezza, dobbiamo necessariamente fare una piccola digressione storica e tornare al tempo di un Giappone che ormai non esiste più, ma rivive continuamente nell’immaginario collettivo di ogni appassionato.

Il contesto storico

Come detto, siamo nella fine del XIII secolo, più precisamente nel 1274. Così come accadeva nell’occidente medievale, anche il Giappone all’epoca era suddiviso in numerosi feudi amministrati dai signori locali, i Daimyō. Questi erano alle strette dipendenze della più alta carica militare nipponica, lo Shōgun, letteralmente il “Grande Generale dell’Esercito che sottomette i barbari”, titolo che veniva inizialmente conferito direttamente dall’imperatore per meriti sul campo, acquisendo solo in seguito il diritto di successione ereditaria.

È in questo contestano che entrano in scena le leggendarie figure dei Samurai, i nobili guerrieri del periodo feudale giapponese al servizio appunto dei Daimyō e degli Shōgun, simili per molti aspetti ai cavalieri dell’Europa medievale. Esperti nell’uso della katana, l’iconica spada ricurva celebrata in tante opere storiche e contemporanee, così come dell’arco e della lancia, i samurai erano rigidi seguaci del Bushido, un codice etico analogo al codice cavalleresco europeo, votato alla fedeltà assoluta verso il proprio padrone, al coraggio ed all’onestà.

E all’onore, al punto che un atteggiamento disonorevole in battaglia, una grave violazione del codice etico o la sola separazione dal proprio Daimyō potevano condurre il samurai a praticare una forma di suicidio rituale purificativo noto come seppuku (o harakiri, come forse conosciuto ai più).

Se all’interno il Giappone si era dato un’organizzazione solida, fuori dai confini il popolo nipponico stava per conoscere sulla propria pelle l’espansione di uno dei più grandi imperi che la storia ricordi. L’impero mongolo, al tempo, si estendeva in tutta l’Asia fino all’Europa Orientale, tanti i paesi sottomessi al loro dominio e resi tributari, innumerevoli gli eserciti sconfitti e massacrati sul campo, come monito per gli altri popoli. La stessa sorte, nelle intenzioni dell’impero guidato da Kublai Khan, celebre condottiero e nipote del ancor più famoso Gengis, doveva toccare anche al Giappone, già destinatario anni prima di una richiesta ignorata di sottomissione.

Quella mongola, al tempo era una potente macchina da guerra, forgiata dalle lotte di espansione in Cina e nei Paesi confinanti, famosa e temuta in particolare per la sua cavalleria e per l’utilizzo in guerra della polvere da sparo, impiegata nello sviluppo delle prime bombe rudimentali. I mongoli, forti di politica aggressiva ed espansionistica, peccarono tuttavia di presunzione, sottovalutando sia il periodo stagionale scelto per l’invasione – la stagione dei taifū – che la loro impreparazione in campo navale: sbarcato nella baia di Hakata e conquistata la città, l’esercito del Khan cadde vittima di un terribile tifone, che danneggiò la flotta mongola e ne ridusse sensibilmente le unità, constringendolo alla ritirata. Una sorte avversa per i mongoli, che si ripetè sette anni dopo, nel corso di una seconda invasione, un evento tanto naturale quanto provvidenziale per i giapponesi, tanto da meritarsi il nome di kamikaze, ovvero “vento divino”, appellativo destinato a cambiare accezione nel corso dei secoli, come ben noto.

Lo sbarco principale delle forze mongole avvenne sulla spiaggia di Komoda vicino a Sasuura, sulla punta nord-occidentale dell’isola meridionale; è proprio qui che ha inizio il racconto di Ghost of Tsushima, il primo scontro che ci vede protagonisti come ultimo baluardo della resistenza. Dalla cime di un’altura, l’epica carica a cavallo contro l’esercito invasore ha un destino nefasto, siamo uno dei pochi a sopravvivere e a toccare con mano la brutalità dell’esercito mongolo e del suo condottiero, Khotun Kahn, nipote – questo sì, finzione – del celebre Kublai. È così che ha inizio il lungo viaggio di redenzione e liberazione di Jin Sakai, e del nostro.

Il conflitto interiore

“Quando combattiamo, fronteggiamo i nemici a testa alta. E quando togliamo loro la vita, li guardiamo negli occhi. Con coraggio e rispetto. È questo che ci rende Samurai.”

Lord Shimura

Ovviamente non fu solo merito del “vento degli dei” a decretare le sconfitte dell’esercito mongolo, anche se per anni il presunto intervento divino rimarcò con forza la posizione di un Giappone visto come popolo “eletto”, unico nel panorama orientale, ma anche – e soprattutto – della forte coesione militare delle forze giapponesi, riunite sotto uno degli shogunati più forti della storia, quello Kamakura. Il confine tra mito e realtà è sottile, sta di fatto che la portata dell’impresa nipponica è ancora più grande se si analizza lo stile di combattimento proprio dell’ordine dei samurai, guerrieri specializzati nello scontro individuale e nella dimostrazione del proprio valore, di fatto poco efficaci contro un esercito – quello mongolo – dotato di esperti e spietati combattenti a cavallo, supportati da arcieri pronti a colpire nella mischia e da catapulte che lanciavano palle infuocate in grado di provocare gravi ustioni.

È in questo scenario tanto epico quanto drammatico che si inserisce la figura di Jin Sakai e del suo conflitto interiore. Se si tratta di pura licenza poetica la liberazione dell’isola da parte di un singolo samurai, come narrato negli eventi di Ghost of Tsushima, è innegabile che affrontare nemici così diversi e lontani dalla propria concezione di arte del combattimento, abbia portato i Samurai a mettere in discussione i principi saldi e immutabili del Bushido. Jin Sakai, soverchiato nel numero e armato solo della sua katana è costretto a ricorrere a metodi più subdoli, come attaccare alle spalle i soldati mongoli o sfruttarne le armi “poco onorevoli” come le bombe fumogene, per riuscire a prevalere; è in questi momenti che si percepisce la lotta interiore nella mente e nello spirito del protagonista, che è costretto a venir meno al suo essere samurai per poter vincere un nemico all’apparenza imbattibile. Questo conflitto interiore è di fatto la scintilla che lo porterà, nel corso degli eventi, a rinnegare il suo credo e le sue origini e diventare “lo spettro di Tsushima.”

L’animo di Jin è diviso e in costante conflitto, come pure la sua arte: in lui coesistono due guerrieri, il samurai e lo spettro, o meglio, lo shinobi. Anche se l’ambientazione storica è precedente, Ghost of Tsushima attinge a piene mani anche dal periodo Sengoku, letteralmente “periodo degli stati belligeranti”, un’epoca di forti conflitti feudali e di instabilità politica interna che si è protratta ininterrottamente dal 1467 al 1603. Ecco che le armature, bellissime, che possiamo ammirare nel gioco si rifanno storicamente più a quelle del tardo XVI secolo e al celebre cinema di Akira Kurosawa – che approfondiremo poi – che a quelle dell’effettivo periodo storico dell’invasione; possiamo padroneggiare arti e stili non propriamente da samurai, ma tipiche di un’altra figura “mitica” dell’immaginario collettivo nipponico, quella degli shinobi, meglio conosciuti in occidente con il nome di ninja. Protagonisti indiscussi del periodo Sengoku, gli shinobi erano delle vere proprie spie mercenarie al servizio dei vari signori feudali; ritenuti inferiori e “disonorevoli” dalla casta dei Samurai, erano di fatto dei killer a sangue freddo, abili conoscitori delle arti marziali, sottoposti a durissimi addestramenti che gli conferivano, oltre alle abilità di combattimento e furtività, una straordinaria resistenza fisica e capacità di adattamento alla sopravvivenza in situazioni spinte al limite.

Abili e letali ma, come detto, “disonorevoli” nei loro metodi di approccio. Il dilemma interiore di Jin viene ribaltato di fatto nel giocatore: Ghost of Tsushima non costringe mai ad una scelta netta ma lascia sempre massima libertà di approccio, facendo intuire tuttavia quale sia la via da seguire; da un certo momento in poi nella trama l’approccio stealth sembra quasi forzato, quasi a voler rimarcare il suo essere contro natura, privilegiando lo scontro a viso aperto, di gran lunga più appagante e spettacolare.

Duelli e poesia

I samurai erano uomini d’arme, combattenti fieri e onorevoli, ma anche uomini di una cultura sempre più raffinata. È affascinante pensare a questi grandi guerrieri sul campo di battaglia come uomini dediti alla poesia e alle arti visive nella loro sfera privata, curate con la stessa filosofia insita nel proprio ordine. Ghost of Tsushima, nella sua eccellenza artistica, riesce a rendere omaggio anche a questo, creando di continuo un’atmosfera in grado di ammaliarci con dei paesaggi visivamente incredibili, tali da incitarne l’esplorazione. E cavalcando per boschi e praterie capiterà non di rado di imbattersi in uccelli dorati dettano la via; seguendoli, possiamo giungere, tra gli altri luoghi, a dei piccoli altari di fronte ai quali si aprono panorami suggestivi; e dove possiamo comporre gli haiku, una delle più semplici e sincere forme di poesia giapponese.

Gli haiku sono dei brevi componimenti poetici composti da tre versetti, sviluppatisi in Giappone a partire dal XVII secolo. Componimenti dell’anima, che raccontano le emozioni delle stagioni, della precarietà dell’uomo e della magia della quotidianità, in Ghost of Tsushima potremo concederci una pausa dalla battaglia per rilassarci innanzi a un paesaggio armonioso e silente, per riflettere sul senso di quanto vissuto fino a quel momento.

O magari, nel nostro peregrinare potremo imbatterci nei torii, i portali rossi tipici della religione shintoista che costellano la lunga salita fino al relativo santuario. I santuari Shinto – jinja è il termine giapponese – in Ghost of Tsushima sono costruzioni erette in nome della Via dei Kami, gli oggetti sacri dello shintoismo, religione che permea la vita quotidiana di Tsushima, le sue tracce si scorgono ovunque. Raggiungerli non è immediato e si devono affrontare scalate impervie; situati in genere in cima a dirupi, rappresentano dei veri e propri luoghi di pace e silenzio, una sorta di pausa videoludica dal ritmo frenetico dei combattimenti, come lo sono di fatto questi luoghi nella realtà, ancora oggi.

Continuiamo a cavalacare, e all’ombra di alberi dalle fronde dorate incontriamo simpatiche volpi che ci accompagnano a santuari dedicati a Inari, divinità del riso, dell’agricoltura e della prosperità. A sud di Kyoto si trova il monte Inari, considerato fin dall’antichità come uno dei luoghi più sacri di tutto il Giappone: qui sorge il celebre tempio dedicato proprio all’omonimo kami, cui si accede con una lunga salita costellata, appunto, di torii. I santuari dedicati a Inari, in Ghost of Tsushima, sono piccole costruzioni votive di pietra la cui scoperta ci ricompensa con uno slot per indossare particolari amuleti. Il viaggio nel simbolismo nipponico prosegue, dal momento che i kami giapponesi venerati come portatori di buona fortuna e di aiuto per gli esseri umani – hanno tra gli altri il potere di fornire protezione e potenza tramite, appunto, degli amuleti – gli omamori – supporti di legno intrisi dallo spirito delle divinità Shinto.

E come non citare i racconti mitici, delle vere e proprie quest che ci ricompensano con lame e armature uniche, leggendarie. Qui la fantasia degli sviluppatori abbraccia la mitologia nipponica, e non di rado troveremo riferimenti neanche troppo velati a leggende tipiche del folklore giapponese o a personaggi realmente esistiti; penso ad esempio alla quest “Le sei lame di Kojiro”, omaggio al celebre spadaccino del tardo periodo Sengoku. Oltre ad abbracciare aspetti della cultura nipponica, sono di fatto le quest più belle e coinvolgenti, e regalano duelli finali ambientati in location uniche e suggestive, dal tramonto in un turbinio di foglie autunnali all’ombra di ciliegi ricurvi che inondano di petali rosa l’arena di scontro.

Un viaggio di redenzione, e di scoperta

Ed eccoci, infine, che ci ritroviamo senza quasi accorgercene, a completare la main quest del gioco; restano diverse missioni secondarie sparse per la mappa, non poi così tante in fondo: vista la bellezza e la spettacolarità del sistema di combattimento e la gioia dell’esplorazione che ci infonde il gioco, a questo punto ne avremo già affrontate un bel pò. Quella che resta davvero, nitido e tangibile, è la gioia della scoperta: raramente un videogioco riesce a divertire e a insegnare qualcosa; Ghost of Tsushima ci riesce alla grande, perché da amante della cultura nipponica è stato come giocare sopra un libro aperto di storia. Il gioco regala tanto, tanto in termini di intrattenimento quanto in quello di immersione in una cultura, un folklore, tradizioni e stile – restando in ambito videoludico, in una parola, lore – mai sbattuta in faccia al giocatore, ma dosata costantemente e delicatamente, della cui bellezza è impossibile restarne indifferenti.

Il gioco inoltre offre, in maniera totalmente opzionale, anche una piccola chicca: una modalità di gioco con un particolare filtro in bianco e nero, omaggio al cinema di Akira Kurosawa e all’influenza che le sue opere cinematografiche hanno avuto nella realizzazione del progetto videoludico, soprattutto suoi primi film di samurai, come Sanjuro e Seven Samurai. Questa modalità è molto di più di un semplice filtro in bianco e nero: il team ha fatto di tutto per ottenere i livelli di bianco e nero giusti e fedeli, ma non solo; Sucker Punch ha cercato le fonti più antiche per emulare il suono e la qualità visiva di quei vecchi film sui samurai. Questa modalità, la Kurosawa mode, ha richiesto, oltre al permesso ufficiale della Kurosawa Estate, un attento studio e lavoro da parte degli sviluppatori e, va ribadito, si tratta di un elemento puramente accessorio, totalmente ignorabile ai fini della trama e della fruizione del gioco. Altra, ulteriore, dimostrazione di quanta cura artistica Sucker Punch abbia riposto in questo titolo.

Tutto questo è Ghost of Tsushima, un gioco che non verrà certo ricordato come il massimo esponente della generazione di PS4 e PS4 Pro, ha certamente i suoi difetti, tra tutti quello di non offrire nulla di nuovo in termini di meccaniche di gameplay da open-world, ma che sa offrire tanto dal lato artistico e dei contenuti, regalando atmosfere uniche e uno sguardo d’insieme su di una cultura affascinante e un periodo storico così lontano dalla nostra visione storica.

Un titolo che lascerà un ricordo indelebile in quanti sapranno concedergli un’occasione, perché quando le cose vengono realizzate con amore lasciano sempre un segno nel cuore di ogni appassionato e non.

Hype da Next-gen

Ok, non è una novità: questo è il periodo dell’anno storicamente più “fiacco” dal punto di vista videoludico. Se poi ci aggiungiamo il fatto che le console old-gen sono di fatto arrivate a fine ciclo e le nuove non ingranano per mancanza oggettiva di titoli – e delle console stesse – ci troviamo in una fase di stallo che, da un lato, ci consente di recuperare magari qualche titolo già uscito che non siamo riusciti a goderci per mancanza di tempo o interesse, dall’altro ci solletica a fantasticare su quello che vorremmo vedere girare sui nuovi hardware.

Tralasciando il discorso dei “remake” che si spera non diventino un’abitudine, triste specchio di mancanza di idee originali sul tema, la nuova generazione sarà destinata ad essere ricordata come quella dei sequel lungamente attesi. Certo, di nuove IP ne vedremo, ma non saranno poi così tante, con buona pace di noi videogiocatori; e mi sento pure di comprenderlo. La questione è molto semplice: ideare, sviluppare e produrre un videogioco tripla A oggi è un investimento da non sottovalutare, in termini di tempi, costi e risorse; se pensiamo che un titolo come The Last of Us: Parte 2 ha richiesto oltre 2000 sviluppatori, la collaborazione di ben 13 studi di sviluppo ed è costato la cifra capogiro di 500 milioni di dollari – di fatto come una produzione cinematografica di alto livello – ecco che la risposta all’ipotizzata assenza di nuove IP è ben servita. Avventurarsi in territori inesplorati, col rischio di non catturare una vasta fetta di utenza, di non generare il giusto appeal e, soprattutto, di non coprire i costi di produzione richiesti, è una strada oltremodo pericolosa che sempre meno aziende vorranno percorrere; anche perché, diciamocelo, non tutti i giochi tripla A sono destinati a vincere 280 premi e a stracciare ogni record di vendite, come il già citato capolavoro di Naughty Dog.

Ecco quindi che lo sviluppo di sequel di quei titoli che già sono entrati nel cuore di milioni di appassionati sarà la strada maestra, la stella polare di questa nuova generazione; asset, storie e personaggi già sviluppati, pronti per essere ulteriormente approfonditi e con nuove dinamiche da introdurre, sfruttando le promesse e le meraviglie di motori grafici come l’Unreal Engine 5, delle cui vere potenzialità solo tra qualche anno potremo parlarne con cognizione di causa.

Ma quindi, quali sono i miei sequel più attesi di questa next-gen? Mi sono divertito a stilare una breve classifica in ordine personale di hype; in realtà è poco più di un podio esteso, i 5 titoli che aspetto con più ansia e trepidazione di giocare sulle nuove piattaforme. Pochi titoli, ma dannatamente buoni. Almeno si spera.


5. Ghost of Tsushima 2

L’ultima esclusiva per PS4 ha sicuramente lasciato un segno, in positivo e in negativo. Da un lato, infatti, ci siamo ritrovati tra le mani il classico open world 1.0, con le sue dinamiche di gameplay consolidate negli anni e che sanno di già visto, l’ormai stantia struttura narrativa scomposta tra missioni principali e secondarie, ripetitive e stancanti sul breve periodo, al netto di qualche guizzo interessante. Dall’altro lato tuttavia, quasi inaspettatamente, dobbiamo riconoscere la passione con cui i ragazzi di Sucker Punch hanno reso omaggio al Giappone, alla sua cultura e alla sua storia. E non stiamo parlando di una storia dal respiro epico – che, anzi, gradiremmo avere in un possibile quanto sperato sequel – ma della cura riposta nei piccoli dettagli, in quei elementi secondari e minimali che però contribuiscono a catturare il videogiocatore e ad immergerlo nel mondo pensato dagli sviluppatori.

Partire al galoppo mentre il vento accarezza gli steli d’erba in un turbinio di foglie nell’aria, duellare al tramonto in un tripudio di colori, rilassarsi e comporre haiku mentre si osserva la natura, Ghost of Tsushima è realizzato con un amore e un rispetto verso la cultura nipponica ammirevoli. Per non parlare del combat system; anzi, ne parliamo, perché se c’è un elemento in cui Ghost of Tsushima eccelle veramente è proprio il sistema di combattimento. Presentato come un evoluzione dell’ormai abusato e inflazionato “freeflow” che ha reso celebri i vari Batman Arkham e derivati, è in realtà molto più profondo e sfaccettato di quanto possa apparire a primo acchito, e per comprenderlo a pieno nelle sue molteplici dinamiche e opportunità bisogna provarlo e metabolizzarlo. Il risultato è che non ci si stanca mai di combattere in Ghost of Tsushima: sebbene il gioco offra anche tutta una serie di abilità per approcci stealth, si è portati ad ignorarli totalmente per gettarsi nella mischia ogni volta che si ha l’occasione. Il combat system è sicuramente il pilastro attorno al quale costruire il secondo capitolo, così come una direzione artistica che regala scorci e momenti indimenticabili in giro per l’isola.

Dunque, cosa vorremmo vedere migliorato in un ipotetico sequel? Di certo la storia, e non necessariamente un racconto di ampio respiro o di gesta per forza epiche, quanto piuttosto una narrazione meno lineare e che riesca magari ad entrare più in profondità nei personaggi, indagando le loro personalità e i loro contrasti interiori. Salviamo i racconti mitici, di gran lunga i più interessanti a livello di varietà e impreziositi da duelli finali memorabili, e che spero siano riproposti magari ancora più elaborati e in qualche modo centrali ai fini della storia principale; di certo, le missioni secondarie vanno necessariamente riviste. Troppe missioni, tutte dannatamente uguali nel loro approccio e svolgimento, il loro sviluppo merita una riflessione attenta: titoli come The Witcher 3: Wild Hunt dettano la via da seguire, perché spesso sono proprio le side-quest secondarie a trasformare un buon prodotto in un’esperienza totalizzante e indimenticabile.

E poi c’è la colonna sonora, così assente nel primo capitolo da risultare quasi assordante; con così tanta passione riversata nei piccoli dettagli, è un peccato non aver sfruttato l’occasione di rendere ancora più immersa l’esperienza di Ghost of Tsushima dal punto di vista audio così come da quello visivo, magari con musiche a tema del periodo storico e proprie della cultura e del folklore nipponico, incalzanti o rilassanti a seconda del momento giusto di gameplay.

In fondo non c’è così tanto da stravolgere; partendo dalle buone basi citate e rinnovando una struttura ormai obsoleta adattandola agli standard attuali, sono convinto che si possa tirare fuori un grande sequel, un secondo capitolo in grado di appassionare un pubblico ancora più ampio, fidelizzando chi già ha amato il primo e catturando chi ancora non gli ha dato una possibilità.


4. God of War: Ragnarok

Quando uscirà God of War : Ragnarok? Quando sarà pronto.” Con poche e taglienti parole affidate ad un tweet Cory Barlog, il game director di Santa Monica Studio, risponde all’enorme hype circolante da tempo in rete circa la data di uscita del sequel di God of War, generandone inevitabilmente altrettanto. E non che ce ne fosse bisogno, l’attesa per il sequel delle avventure di Kratos e del figlio Atreus è già alle stelle, sin dall’epilogo del primo capitolo, con quello spezzone di filmato inserito inaspettatamente dopo i titoli di coda che ha di fatto introdotto l’incipit del secondo capitolo.

La bravura innegabile di Santa Monica è stata rinnovare una serie storica e acclamata per Playstation; abbandonando l’Antica Grecia e abbracciando la mitologia norrena, God of War è stato un meraviglioso punto di ripartenza per la saga, l’epico viaggio di padre e figlio attraverso il regno di Midgard e non solo, che ha visto rinsaldare il legame tra i due e riaffiorare segreti di un passato mai definitivamente lasciato alle spalle dal protagonista Kratos. Tecnicamente eccelso e con una direzione artistica magistrale, God of War è stato un tripudio visivo, dalle ambientazioni agli scontri più concitati, il cuore pulsante di tutta l’esperienza; ecco quindi che il solo pensare a cosa potremo ammirare su Playstation 5 rende l’attesa così spasmodica. Come riusciranno gli sviluppatori a migliorare ulteriormente un sistema di combattimento così dannatamente appagante quanto spaccamascella dal punto di vista scenografico? Ho già l’acquolina in bocca.

Ma cosa sappiamo di questo sequel? Non ci resta che raccogliere i pochi indizi che abbiamo in mano e fare delle speculazioni sull’argomento. La morte di Baldur, avvenuta nelle battute finali del primo God of War, segna inevitabilmente l’approcciarsi del Ragnarok, e mai come adesso il futuro di padre e figlio si fa incerto. L’indimenticabile epilogo ci ha mostrato una delle rappresentazioni degli Jotnar in cui Atreus tiene in braccio il padre, apparentemente morto. In uno dei momenti più commoventi di God of War, Atreus chiede a Kratos se il destino degli dei sia quello di uccidere i propri padri, proprio come era accaduto allo spartano: Kratos gli risponde che loro due dovranno essere migliori. Sarà davvero così, o il Ragnarok segnerà la fine del protagonista storico della serie? Di certo lo scopriremo. Così come scopriremo il ruolo di Thor e Odino, figure centrali nella mitologia norrena, destinate a rivestire un ruolo chiave in questo nuovo capitolo.

Che altro aggiungere, se non che God of War: Ragnarok è in assoluto uno dei titoli più attesi di questa generazione. Annunciato per il 2021, forse dovremo attenderlo ancora un pò, ma in fondo va bene così: alla fine, come ha sottolineato il buon Cory, uscirà quando sarà pronto.


3. Bloodborne 2

Con buona pace di The Last of Us: Parte 2 – titolo di una grandezza irraggiungibile e che non ho mancato di elogiare a lungo tra queste pagine – se dovessi indicare l’esclusiva Playstation della passata generazione che imho ha lasciato il segno più profondo e indelebile, questa sarebbe senza ombra di dubbio Bloodborne.

Bloodborne è il gioco che mi è rimasto più nel cuore, è quello a cui sono più affezionato e che mi ha segnato di più perchè credo di averlo realizzato nel modo in cui volevo che venisse fatto

Hidetaka Miyazaki

E come non condividere queste parole. Affascinante quanto spietato, l’universo gotico e lovecraftiano sviluppato da From Software e dal genio creativo di Hidetaka Miyazaki ha catturato l’attenzione di milioni di videogiocatori, per le sue atmosfere e per la cupa bellezza della sua lore, regalandoci alcune delle boss fight più maestose e difficili mai concepite in un soulslike. Per chi non ne avesse avuto il piacere, il contesto è presto illustrato: Bloodborne catapulta il videogiocatore a Yharnam, un’antichissima città afflitta da una misteriosa malattia del sangue; le vicende si svolgono durante la “notte della caccia” e, nei panni di uno sconosciuto cacciatore, si devono affrontare bestie e mostruosità di ogni tipo, nel tentativo di trovare una cura e fermare la piaga.

Tanto è stato svelato, e tanto ancora c’è da scoprire e approfondire; pensiamo, ad esempio, ai Dungeon del Calice o a tutto il filone dei primi cacciatori, da Ludwig a Gherman, per non parlare delle antiche linee di sangue di cui non oso spoilerare nulla; c’è ancora un mondo da approfondire negli eventi passati, e tanti scenari possibili futuri rispetto alla linea temporale del primo – e al momento unico – capitolo. Un ipotetico sequel viene continuamente tirato in ballo dagli appassionati di ogni parte del globo, che sperano nella magnanimità di From Software e di poter tornare prima o poi ad aggirarsi tra gli oscuri vicoli di Yharnam e dintorni. Attualmente lo studio è incentrato sul suo prossimo gioco, ovvero Elden Ring, di cui sappiamo ancora poco, se non che vede la collaborazione del padre de Il Trono di Spade, George R.R. Martin.

Di sicuro Elden Ring, anche alla luce delle recenti novità, vedrà presto la la luce ma spero vivamente che nell’ombra, sotto traccia, From Software abbia realmente iniziato a ragionare su un possibile sequel di quello che reputo un vero e proprio spartiacque per la generazione dei soulslike; un titolo che ha saputo attingere da quanto di buono fatto con Demon’s Souls e la trilogia di Dark Souls, ma che ha avuto al tempo stesso il coraggio di cambiarne le dinamiche, soprattutto in riferimento al combat system, velocizzandolo e aprendo il gameplay a nuovi scenari e difficoltà e, come naturale conseguenza di sviluppo, ha portato a quel capolavoro che risponde al nome di Sekiro: Shadow Die Twice.

Un sequel magari multipiattaforma, così che ancora più utenti possano abbracciare e godere delle bellezze di una lore così oscura quanto affascinante, di un mondo tanto solenne quanto spietato. E non tornare più indietro, perché una volta che il siero di Bloodborne ti entra dentro è impossibile farne a meno.


2. The Elder Scrolls VI

Se dovessi pensare al videogioco che mi ha tenuto più tempo incollato davanti allo schermo, che mi ha sfidato ad esplorarne ogni singolo anfratto, ad unirmi alle sue gilde e a perdermi nelle sue sconfinate lande e side quest, il nome che risuona altisonante nella mia mente è uno e uno soltanto: The Elder Scrolls V: Skyrim. Solo Dio sa quanto tempo ho cavalcato per le lande innevate del quinto capitolo di TES, interi pomeriggi passati alla segheria di Riverwood a spaccare legna per racimolare qualche septim in più per migliorare il mio equipaggiamento di base; ed era solo l’inizio del gioco o, meglio ancora, di un’avventura che mi ha catturato e risucchiato come nessun altro titolo aveva mai fatto prima e nessuno – ne sono quasi certo, e chi ce l’ha più così tanto tempo libero! – farà mai più in futuro.

Anche se non si sa praticamente nulla a riguardo, The Elder Scrolls 6 è uno dei titoli più attesi di questa generazione; le uniche indicazioni al momento sono un teaser molto vago di Bethesda durante l’E3 del 2018, e un recente tweet di fine anno della stessa software house: l’immagine di una mappa, tre candele e le seguenti parole: “Trascrivi il passato e mappa il futuro. Un felice anno nuovo!”.

Tanto è bastato per far partire al galoppo speculazioni di ogni tipo e riaccendere i riflettori dell’hype su una delle saghe fantasy più celebri e acclamate della storia videoludica. Alcuni si sono avventurati persino sbilanciandosi sull’ipotetica ambientazione del sesto capitolo, ovvero la regione di Hammerfell, landa occidentale e patria dei Redguard, confinante con la già citata Skyrim, protagonista dell’ultimo capitolo. Le aspre montagne e l’estesa zona costiera hanno dato spazio all’immaginazione dei più, e non poteva essere altrimenti; naturalmente, stiamo parlando di semplici e ipotetici indizi, ma solo l’idea di poter calcare di nuovo le terre di Tamriel è un sogno ad occhi aperti.

Di recente, come è noto, Bethesda è stata acquisita da Microsoft, pertanto una cosa è certa: se e quando uscirà il sesto capitolo, di sicurò questo sarà disponibile su Game Pass al day one. M la vera domanda è: TES VI resterà un’esclusiva PC e Xbox o anche gli utenti Sony potranno goderne delle sue – si spera – meraviglie? Solo il tempo potrà dircelo, quello che possiamo fare noi comuni mortali è attendere con ansia ulteriori aggiornamenti al riguardo, con un pizzico di speranza e di fiducia: in fondo, nelle vaste e misteriose lande di Tamriel c’è posto per tutti, ed è giusto che sia così.


1. GTA VI

Solo a pronunciarne il nome mi vengono i brividi e la pelle d’oca: GTA VI.

Solo chi si è perso almeno una volta nella vita nei mondi creati da Rockstar Games può comprenderne il motivo; Grand Theft Auto è IL VIDEOGIOCO per antonomasia, un enorme-sconfinato-delirante-fuori di testa sandbox di contenuti capace di incollare davanti allo schermo per un numero di ore a tripla cifra senza mai annoiare veramente.

Due sono le milestone temporali dalle quali ripartire: la prima nel 2013, con GTA V e i suoi tre, indimenticabili protagonisti, quando Rockstar ha cambiato le regole del gioco, offrendo un’esperienza di gioco open-world al cubo, con sterminate possibilità di approccio e divertimento; la seconda nel 2018, con Red Dead Redemption 2, il capolavoro con cui l’azienda statunitense ha di fatto reinventato il concetto di open world, regalando al mondo videoludico un titolo inattaccabile da ogni punto di vista, grafico e narrativo, un videogioco capace di eccellere sotto ogni aspetto e di settare nuovi standard per il genere e per l’industria.

Ecco quindi che la parola GTA VI non si può liquidare con della semplice “acquolina in bocca”, ma stiamo parlando di una vera e propria scarica di adrenalina; basti solo pensare ad una geniale fusione dei due titoli sopra citati con le potenzialità offerte dai nuovi hardware in termini di prestazioni e potenza di calcolo…brividi e pelle d’oca, appunto! Rockstar ci ha da sempre abituato ad alzare l’asticella, quindi è possibile attendersi, accanto alle meccaniche più tradizionali della saga, l’aggiunta di tutta una serie di novità che serviranno a svecchiare quello che è sempre stato un brand che ha saputo innovarsi gioco dopo gioco. Pensiamo ad esempio a una o più città “vive”, dinamiche e in costante mutamento al susseguirsi degli eventi principali e – perché no – a seguito delle nostre azioni; o magari una virata decisa verso dinamiche da RPG, con personaggi capaci di evolversi, approcciare carriere diverse e relazionarsi con altri NPC, sullo sfondo di una comunità attiva e sempre più social. il già citato RDR 2 ha insegnato che anche in un open-world si può inserire una trama complessa e sfaccettata, supportata da comprimari che non sono dei meri personaggi scriptati, ma che partecipano attivamente alla nostra avventura e subiscono le conseguenze delle nostre azioni, nel bene e nel male; e se questo è stato possibile farlo nel vecchio west, immaginate cosa si possa prevedere nel contesto del 21° secolo, con tutte le possibilità offerte dalla società attuale. Non esiste confine all’immaginazione, e di certo non esiste limite alla creatività dei ragazzi di Rockstar.

Quando uscirà il sesto GTA e, sopratutto, dove sarà ambientato? Questa è la risposta dell’anno, si spera. Entro il 2021 è atteso l’annuncio, se non con una data precisa almeno con una finestra temporale di lancio più o meno ampia. Di certo, sviluppare un colosso del genere richiede anni di sviluppo e risorse ingenti, per GTA V ci sono voluti quasi cinque anni, e se pensiamo che Rockstar ha lavorato fino al 2018 a RDR2 i conti sono presto che fatti. Ma lungi da me – e penso dalla community – mettere fretta al team di sviluppo: stiamo parlando di un nuovo capitolo di GTA, di un titolo capace di intrattenere per quasi un decennio, basti pensare ai numeri odierni ancora macinati del predecessore. Che si prendano tutto il tempo necessario, davvero; perché mai come stavolta stiamo già godendo al solo pensiero di averlo prima o poi tra le nostre mani, mai come stavolta l’attesa del piacere è davvero essa stessa il piacere.

I grandi duelli di Sekiro

Sekiro: Shadows Die Twice è un capolavoro di stile e ferocia unico nel panorama videoludico odierno. Un’esperienza in cui per la prima volta è il giocatore, e non il suo alter ego digitale, a dover livellare le proprie abilità per poter proseguire nell’avventura; molti non esitano a definirlo come il gioco più difficile e punitivo mai realizzato finora da From Software, e mi sento in parte di confermarlo. Dimentichiamo gli scontri pesanti di Dark Souls e la “danza” all’arma bianca e polvere da sparo di Bloodborne, stavolta la formula ideata da Miyazaki ci catapulta nel Giappone feudale del periodo Sengoku, proponendoci duelli ad altissima velocità che richiedono al giocatore dedizione e spirito di abnegazione totali per portare a termine l’avventura, sbloccando tutti i diversi finali possibili.

Giungere ai titoli di coda sarà un privilegio per pochi, soltanto per chi sarà disposto ad abbandonarsi al gioco completamente, ad imparare da ogni singolo errore e ambire a padroneggiare alla perfezione l’arte del combattimento, tecnicamente inattaccabile, sviluppata da From Software. Arte del combattimento che raggiunge la sua massima espressione durante le boss-fight, mai così tante in un singolo gioco e tutte meravigliosamente complicate. Con una cura per i dettagli quasi maniacale, dalle location degli scontri – alcune memorabili – alle dinamiche di sfruttamento dell’ambiente circostante, sopravvivere alle boss-fight di Sekiro non sarà affatto semplice, ed ecco quindi che ho deciso di realizzare una piccola guida “homemade” allo scopo di fornire un semplice quanto utile – spero – compendio per affrontare gli spietati e bellissimi duelli che ci vedranno protagonisti in Sekiro: Shadows Die Twice.

Guida alle Boss Fight

Il gioco è pieno zeppo di boss principali e secondari, tutti gli scontri saranno memorabili e indimenticabili, alcuni “soft”, nel senso che non impiegheremo intere settimane per venirne a capo, altri sono da togliere letteralmente il sonno, destinati a perseguitarci per le notti a venire. Ecco, in ordine di apparizione, i boss che dovremo affrontare in Sekiro, con le migliori strategie da adottare per averne la meglio:


Generale Naomori Kawarada

Difficoltà: 🗡

Partiamo subito alla grande! Una manciata di nemici, giusto il tempo di comprendere le prime meccaniche di gioco e subito ci troveremo di fronte il primo mini boss del gioco. Dopo l’Idolo dello Scultore vicino ai lupi, incontreremo un grosso samurai; si tratta dell’unico nemico nel cortile. Per abbatterlo facilmente, il consiglio è fare il giro dai tetti e colpirlo alle spalle, eliminando una delle sue barre di HP. A quel punto possiamo tranquillamente colpirlo dopo aver deviato, bloccato o schivato i suoi fendenti. La parata è sicuramente la tecnica meno rischiosa, perché una volta portata a termine la combo il generale lascerà un’ottima apertura perfetta per il contrattacco. L’altro attacco del boss è la spazzata, preannunciata da un simbolo rosso, evitabile saltando e contrattaccando in aria. Un avversario da rispettare per i novizi ma, col senno del poi, una sfida neanche così impegnativa. Ci attende ben altro nel proseguo!


Orco Incatenato

Difficoltà: 🗡

Vi chiederete: una sola spada di difficoltà per l’Orco Incatenato, come è possibile? Si, è possibile. L’Orco Incatenato sembra una grande minaccia dato che lo incontreremo nelle prime fasi di gioco, in realtà con piccoli accorgimenti risulterà uno scontro assai gestibile. Per prima cosa dobbiamo uccidere i tre nemici nell’area, specialmente l’infame al piano di sopra armato di lancia, che potrebbe esserci sfuggito e non vorremo di certo ritrovarcelo tra i piedi durante la boss-fight. A questo punto saremo solo noi contro l’Orco: dal momento che, inizialmente, l’orco sarà incatenato e impossibilitato a muoversi, sfruttiamo la cosa a nostro vantaggio per colpirlo più volte che possiamo, prima che riesca a liberarsi. Iniziata la boss-fight vera e propria utilizziamo il salto per evitare i suoi attacchi, non la schivata mi raccomando, e teniamo a mente che possiamo agganciargli la testa con il rampino per portarci alle sue spalle e sferrare qualche attacco. Si tratta di uno scontro di pazienza, ed è piuttosto semplice: possiamo tranquillamente batterlo senza farci mai colpire. L’importante è schivare con il salto, e attaccarlo ogni volta che possiamo. Avremo senz’altro notato che l’Orco ha gli occhi rossi: bene, un nemico con gli occhi rossi in questo gioco significa che è vulnerabile al fuoco. Essendo ancora alle battute iniziali, potremmo non avere la protesi Shinobi che ci consente di sparare fiamme ai nostri avversari, ma nelle run successive avremo un’arma in più per infastidire l’Ogre e mettere a segno alcuni colpi a buon mercato.


Generale Tenzen Yamauchi

Difficoltà: 🗡🗡 

Ignoriamo completamente il boss e dedichiamoci all’assassinio di massa di tutti i nemici nell’area: ci sono tre samurai sul retro, di cui due armati di fucile, un nano infame che suona una campana sul cornicione in alto a destra, allertando tutti gli altri, e qualche soldato sul fianco sinistro, nonché un soldato sulla piazza accanto al generale. La strategia migliore è ripulire l’area in modalità stealth, utilizzando l’idolo dello scultore sotto il ponte: risalendo uccidiamo nell’ordine il soldato davanti a noi, l’infame con la campana, i due fucilieri e i soldati che nell’ordine incontriamo a destra; per ultimo uccidiamo il soldato nella piazza, a difesa del generale; se saremo bravi a non farci scoprire, riusciremo a togliere al generale una vita con un altro attacco in stealth. A questo punto non ci rimane che affrontarlo; l’unico punto debole del boss è l’attacco alle spalle, di fronte a noi parerà tutti gli attacchi, pertanto schiviamo utilizzando il salto e tentiamo di posizionarci alle spalle. Occorre prestare molta attenzione ai suoi attacchi imparabili, ne ha due e sono molto difficili da prevedere, nonché un affondo quasi letale.


Gyoubu Oniwa

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡

Dopo esserci battuti con il generale Tenzen Yamauchi ci ritroveremo in un canyon dove verremo assaliti da un serpente gigantesco. Fuggendo e sopravvivendo ai vari attacchi (fondamentale sarà il rampino per scappare in alto), arriveremo a una sorta di ampio campo di battaglia. È in questo luogo che affronteremo la nostra prima vera sfida del gioco: Gyoubu Oniwa.

Armato di lancia e di un cavallo, questo Boss si rivelerà piuttosto difficile da affrontare per via dell’ampio raggio d’azione dei suoi attacchi. Come per ogni scontro, il nostro approccio deve essere improntato a capire le mosse del nemico, imparando come e quando schivare/bloccare. Analizzandolo noteremo che nella sua combo ci sarà sempre un attacco pesante che lo lascerà sguarnito per qualche secondo. Possiamo sfruttare questa occasione, o ancora meglio possiamo prenderlo alla sprovvista sfruttando il rampino quando ha il relativo simbolo di aggancio in testa, mettendo a segno almeno 2-3 fendenti prima di allontanarci di nuovo. L’aggressività con cui affrontare questo scontro dipenderà dal nostro stile di gioco, ad esempio è possibile anche rimanere al sicuro e aspettare il segnale verde per colpire: in questo caso è fondamentale sbloccare l’abilità che ci consente di attaccare in salto. Appena perderà la prima vita inizierà a fare una spazzata che ci costringerà a saltare per evitarla. Prestando attenzione anche a questo nuovo attacco, riusciremo a vincere la battaglia e ucciderlo con una classica esecuzione. Utilissime le Castagnole Shinobi per spaventare il cavallo e concederci qualche secondo per attaccarlo.


Cacciatore di Shinobi Enshin di Misen

Difficoltà: 🗡 🗡

Il Cacciatore di Shinobi è il primo boss che incontreremo nella tenuta Hirata. “Che diavolo è la Tenuta Hirata?” Per raggiungerla abbiamo bisogno di un particolare sonaglio che ci darà una anziana signora nelle prime fasi di gioco, nei Dintorni di Ashina. Sconfitto il primo mini-boss del gioco, proseguiamo dopo il vessillo del generale nello spiazzo con il gigante armato di martello, andiamo fino in fondo e scendiamo sulla sinistra per trovare l’anziana all’interno di una casa distrutta. Una volta ricevuto il sonaglio, dovremo portarlo al tempio in rovina e pregare accanto alla statua del Buddha sorridente sulla sinistra, accanto allo Scultore. Ecco sbloccata la nuova location.

Il consiglio fondamentale, prima di affrontare lo scontro, è quello di utilizzare dall’inventario il confetto di Gachiin che ci rende “quasi” invisibili, così da eliminare furtivamente almeno i due nemici fra noi e il boss, il fuciliere e quello di guardia alla fine del ponte. A questo punto nascondiamoci finché il boss, allertato dalle precedenti esecuzioni, non ci perderà di vista. Una volta al sicuro, sfruttiamo l’erba alta sulla sinistra per attaccarlo in modalità stealth e liberarci della prima barra degli HP. Per abbatterlo dovremo tentare di attaccarlo alle spalle: fondamentale, se sbloccata, risulterà l’abilità “Contromossa Mikiri” per bloccare i suoi potenti affondi di lancia e fargli molto danno alla postura; molto utili sono anche le castagnole Shinobi per stordirlo e attaccarlo senza sosta, sempre allo scopo di far crollare la sua postura. Non si tratta di uno scontro particolarmente complicato, la difficoltà sta nel fatto che i suoi affondi non si possono deviare, se non con l’abilità sopra citata: giocando all’attacco e schivando in avanti non avremo problemi. La chiave è concentrarsi sulla postura del boss e non sulla barra della salute.


Juzou l’Ubriacone

Difficoltà: 🗡 🗡

Il boss in questione non è particolarmente difficile, a patto di eliminare preliminarmente tutti i nemici nell’arena e chiedere aiuto al samurai appostato sulla riva dello stagno. Entrati nell’area di scontro, il consiglio è quello di dirigersi a sinistra ed eliminare subito le due guardie appostate all’interno della pagoda; a questo punto si può andare a parlare al samurai vestito di blu, sul lato destro dello stagno, il quale combatterà al nostro fianco. Il suo aiuto è indispensabile, perché distrarrà il boss mentre ci prenderemo cura di tutti i nemici minori. Purtroppo, il nostro amico samurai morirà dopo pochi secondi, quindi bisogna cercare di eliminarli alla svelta. Il metodo migliore per sconfiggere Juzou, che poi è lo stesso per tutti gli altri boss, è schivare e posizionarsi alle sue spalle per infliggergli un paio di colpi nella schiena. Juzou non è in grado di colpirci se schiviamo verso di lui, quindi sfruttiamo la meccanica a nostro vantaggio. Altrimenti, possiamo attaccarlo tranquillamente ogni volta che beve o infonde la spada, per il resto basta solamente stare attenti ai suoi attacchi imparabili, che possiamo schivare saltando all’indietro o in avanti, mai lateralmente. Ripetere l’operazione, e l’ubriacone crollerà presto.


Falena

Difficoltà: 🗡 🗡🗡 🗡

La Falena è il boss finale dell’area di gioco “Tenuta Hirata”, si tratta di uno scontro molto bello ed evocativo, ma al contempo la prima vera sfida ardua del gioco.

Il boss, anche se all’inizio non sembra, ha due vite: per eliminare la prima, la strategia è quella consigliata per quasi tutti i boss veloci, cioè concentrarsi sulla sua postura piuttosto che sulla barra della salute. La Falena ci attaccherà con una serie di colpi rapidi, pertanto pariamo e colpiamo appena ci lascia l’occasione, la tattica migliore è colpire e schivare lateralmente, colpire e schivare, a ripetizione; quando si solleva, colpiamola con gli shuriken e riportiamola a terra, dove potremo utilizzare il fendente turbine per fargli danno. Prestare particolare attenzione ai suoi attacchi pesanti, preannunciati dall’ideogramma rosso, da schivare velocemente con salto. Rimanendo concentrati, attaccando e schivando senza sosta, riusciremo a toglierle la prima barra HP, per iniziare la seconda fase dello scontro.

Se saremo abbastanza veloci, prima che la Falena appaia di nuovo sul campo di battaglia, potremo posizionarci alle sue spalle, nel punto dove è apparsa la prima volta, e colpirla decisi con una serie di attacchi. Ora dovremo fronteggiare, oltre al boss, anche una sorta di illusioni, che potremo far svanire utilizzando dei particolari semi, i “semi della percezione” che ci consegnerà l’NPG all’ingresso della zona. Senza l’utilizzo dei semi, il consiglio è quello di correre veloci lungo il perimetro della sala, cercando di cambiare direzione continuamente per non dare punti di riferimento; ignoriamo il boss e scappiamo fino a che le illusioni non saranno sparite, altrimenti non avremo scampo.

Terminate le illusioni, massima attenzioni alle luci che ci seguiranno per colpirci: ancora una volta, scappare il più lontano possibile e saltare a ripetizione cambiando direzione. Terminato lo “show” della Falena, ricominciamo ad attaccare: lo schema di approccio è sempre lo stesso, schivata e attacco a raffica fino a sfiancare la nostra “simpatica” amica, nonché maestra shinobi, come scopriremo lì a breve. 


Toro Ardente

Difficoltà: 🗡 🗡

La prima cosa è non spaventarsi di fronte all’ira e alle dimensioni del boss in questione: il Toro Ardente è un boss gigantesco e impazzito che ci caricherà di continuo e spesso, con nostra grande frustrazione, occuperà gran parte dello schermo. Senza paura, quindi, vediamo come affrontarlo.

Il toro fiammeggiante ha un sacco di HP, però ha una sola barra della salute e non può bloccare nessuno dei nostri attacchi. Di contro, però anche noi non potremo parare i suoi: anche se li blocchiamo, subiremo comunque qualche danno. È importante tenere a mente che il Toro può colpirci solamente con le corna, il suo attacco base sarà caricarci e attaccarci con le stesse piantando i piedi per terra; bisogna stare attenti all’attacco che oneshotta, quello in cui fende il terreno con le corna: teniamo sempre le distanze. La regola generale è: mai schivare lateralmente, ma correre intorno al toro in una sorta di “inseguimento” per portarci quando possibile alle sue spalle; le Castagnole Shinobi lo stordiscono per svariati secondi, dandoci il tempo di curarci o di attaccarlo con calma. Questo è il primo scontro di Sekiro in cui occorre concentrarsi sulla vitalità e non sulla postura; ricordate: la fretta e i rischi inutili sono pessimi compagni di viaggio per affrontare questo boss.


Generale Kuranosuke Matsumoto 

Difficoltà: 🗡 🗡🗡

Troveremo il Generale Matsumoto ad attenderci in cima alla scalinata che conduce alla Torre della Luna, circondato da 4 “simpatici” fucilieri: inutile dire che il primo obiettivo sarà eliminare i suoi comprimari. Il metodo più semplice e “indolore” è quello di eliminarli dalla distanza con gli shuriken, evitandoci così un sacco di fucilate addosso. A questo punto il consiglio migliore è quello di allontanarci dall’area di scontro, fino a far cessare l’allerta del Generale; scaliamo i tetti, preferibilmente quelli alla nostra sinistra, attendiamo che il boss ritorni nella sua posizione iniziale e togliamogli una vita dall’alto, con un attacco in salto.

A questo punto inizia il duello vero e proprio: il Generale è molto forte, sia in termini di HP che di postura, ma soprattutto per il livello di danni che ci farà ad ogni colpo. A complicare la boss-fight ci si mette l’arena di scontro, una scalinata lunga e stretta, non proprio il massimo per portare a termine delle schivate perfette. La tecnica migliore è quella di stargli abbastanza vicini (ma non troppo!!) ed eseguire il fendente turbine in loop, stando attenti al suo affondo micidiale, preannunciato dal solito ideogramma rosso. Ci vuole un pò di pazienza ma, colpo dopo colpo, riusciremo ad avere la meglio. 


Ombra Solitaria con spadone

Difficoltà: 🗡 🗡🗡

Sono sincero, questi boss secondari – perché si, ne incontreremo più di uno – mi hanno dato parecchio filo da torcere. L’Ombra Solitaria in questione è un ninja davvero abile e veloce con la spada, tanto che affrontarlo in uno scontro faccia a faccia ci richiederà sostanzialmente di essere “perfetti”. Per ridurre la difficoltà dello scontro si può utilizzare una doppia strategia: la prima è quella di togliergli subito una vita dall’alto, colpendolo in caduta attraverso la crepa del terreno; la seconda, una volta all’interno, è quella di sfruttare il dislivello dell’arena di scontro, colpirlo con il fendente turbine quando sale, scendere e aspettare di colpirlo quando scende, per poi risalire e colpirlo di nuovo. Si lo so, non è una tecnica così “onorevole” ma ci eviterà la frustrazione di affrontare un duello ad altissima velocità in uno spazio angusto. Si può ripetere in loop la tattica sopra esposta, fino a sfiancarlo, stando sempre attenti ai colpi che ci sferrerà nel mentre. Ovviamente si può decidere di affrontarlo a viso aperto, in questo caso avremo bisogno di tutto il sangue freddo e riflessi possibili, essere perfetti nei tempi di parata e contrattacco, e schivare a destra i suoi attacchi più letali. Un (mini…?) boss veramente ostico.


Guerriero Shichimen

Difficoltà: 🗡 🗡🗡

Questo strano boss secondario lo incontreremo per la prima volta nelle segrete di Ashina e il primo istinto che avremo sarà quello di lasciarlo perdere, visto che non ostacola in alcun modo il nostro cammino. Affrontare questo boss all’inizio è difatti altamente sconsigliabile, ma a gioco avanzato è utile fargli visita, in quanto ci dropperà un oggetto molto importante, il “Cerimonial Tanto”, un pugnale che ci consente di convertire i nostri punti salute in emblemi spiritici.

Per sconfiggere il Guerriero Shichimen avremo bisogno dei Confetti Divini, oggetti fondamentali per aumentare notevolmente i danni inflitti alle essenze spettrali, nonché di parecchi Agenti Calmanti, per ridurre il terrore che ci infliggerà; per prima cosa saltiamo dall’alto e iniziamo a colpirlo a ripetizione con la spada infiammata; se dobbiamo proteggerci, utilissimo sarà l’Ombrello lilla, anche nei confronti del flusso che ci convoglierà contro al termine della prima fase. Quando si alza in volo, se saremo abbastanza vicini e precisi, potremo provare a sferrare un colpo critico in salto.

La seconda fase è sostanzialmente la stessa della prima, quindi colpiamolo a ripetizione e usiamo gli agenti calmanti quando il nostro livello di terrore inizia a crescere. Un boss secondario all’apparenza ostico e, di fatto, è proprio così!


Sette Lance di Ashina – Shikibu Toshikatsu Yamauchi

Difficoltà: 🗡 🗡

Dimentichiamo tutto quello che abbiamo imparato fino a questo momento: con questo mini-boss, le schivate sono completamente inutili; oltre ad avere HP praticamente infiniti, la sua lancia ha un raggio tale da vanificare la nostra abilità evasiva.

Per prima cosa, bisogna infliggergli un attacco in stealth per liberarsi di una barra della vita: per farlo, dopo aver eliminato – sempre in stealth – tutti i nemici nell’area, passiamo per il burrone a sinistra per aggirarlo e sorprenderlo alle spalle. A questo punto la tattica senza dubbio migliore è quella di incalzarlo costantemente con la tecnica del salto in testa e affondo, da ripetere in serie senza lasciargli praticamente mai l’iniziativa. Se qualcosa dovesse andare storto, è fondamentale allontanarsi il più velocemente possibile dalla sua lancia, ritrovare il tempismo giusto e ricominciare da capo.


Jinsuke Saze

Difficoltà: 🗡 🗡

Probabilmente, il boss più “scarso” di tutto il gioco, eppure con un solo colpo può farci fuori. Com’è possibile che sia il più facile allora, vi chiederete? La risposta è, banalmente, la più scontata: bisogna assolutamente evitare di farci colpire, sfruttando al contempo la sua difesa debolissima, in termini di postura. Come fare quindi?

Ci sono 2 vie: la prima è quella di parare i suoi colpi velocissimi e contrattaccare; per farlo, occorre essere tempisticamente perfetti: quando la sua lama si illumina, premere immediatamente – e rapidamente – due volte il tasto parata per deviare i suoi colpi, e contrattaccare; basteranno due-tre combo per togliergli la vita.

Se non riusciamo a mettere in pratica la tecnica descritta – eventualità molto probabile visto l’incredibile tempo di reazione richiesto – c’è la seconda: giragli intorno verso sinistra, schivare sempre a sinistra quando parte l’affondo e attaccare, con la spada o, meglio, con l’ascia della scimmia, per fargli più danno; anche in questo caso bastano un paio di colpi per ogni barra di HP.


Genichiro Ashina

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡 🗡

Lo scontro con il boss più “semplice” ci conduce direttamente a quello, probabilmente, più difficile della prima metà della nostra avventura. Incontreremo di nuovo Genichiro Ashina, il guerriero responsabile della nostra protesi e del rapimento di Lord Kuro, il fanciullo che abbiamo giurato di proteggere. Il duello ci chiederà di mettere in pratica tutta l’esperienza e le tecniche che avremo acquisito fino a questo punto.

Prepariamoci a morire un sacco di volte, lo scontro con Genichiro è senza ombra di dubbio il duello che più ci permetterà di “farci le ossa” in Sekiro; non solo, ci servirà per migliorare i nostri tempi di reazione, padroneggiare il combat system e, cosa non banale, memorizzare il suo pattern d’attacco. Senza prendersi rischi inutili, bisogna cercare poco alla volta di indebolire la sua postura, deflettendo colpo su colpo i suoi attacchi, per poi sferrare il colpo mortale. Non è uno scontro facile, considerata l’abilità di Genichiro e la sua velocità, con la quale potrà farci male in ogni momento, soprattutto quando non saremo “perfetti” nelle nostre esecuzioni.

Con pazienza e perseveranza riusciremo ad eliminare le sue due barre HP, ma non potremo ancora tirare un sospiro di sollievo; lo scontro, infatti, non sarà ancora finito. Con nostra sorpresa Genichiro si toglierà l’armatura e diventerà ancora più rapido e furioso, con l’aggiunta di un attacco con fulmini che se non arginato ci ucciderà all’istante.

In questa fase è fondamentale non farsi prendere dal panico: lo scenario intorno a noi cambierà, con tuoni e fulmini, e avremo come l’impressione di avere di fronte un avversario completamente nuovo da affrontare; in realtà basta prestare attenzione ai suoi 2 nuovi attacchi, uno caricato in slancio, da schivare lateralmente o con il Mikiri, e una combinazione di attacchi da parare per poi contrattaccare. Il segreto del successo di questa fase sta nel riuscire a respingere l’attacco con fulmini: quando lo vedremo piantare la spada a terra, attendiamo l’ideogramma rosso e la comparsa dei primi fulmini; quello è il momento esatto per saltare e premere il pulsante di attacco leggero mentre siamo in aria, respingendo l’attacco contro Genichiro: se saremo bravi nelle tempistiche, riusciremo a bloccare la scarica di fulmini e a restituirgli il favore, infliggendogli un sacco di danni.

In questa fase dello scontro ci vuole molto sangue freddo, pazienza e il giusto tempismo per gli attacchi e le schivate. Un duello epico, sicuramente il boss più difficile da affrontare nella prima parte della nostra avventura. Sconfitto Genichiro, ve lo garantisco, non saremo più gli stessi pad alla mano.


Guerriero Corazzato

Difficoltà: 🗡 🗡 

Ci imbatteremo per forza in questo guerriero esplorando la regione del Monte Kongo, una delle location più belle e suggestive del nostro viaggio. La cosa importante da sapere sul guerriero corazzato è che non recupera mai la postura nel corso del combattimento, quindi basta giocare bene le nostre carte e concentrarsi su di essa, riducendola piano piano senza correre rischi. Si tratta di un altro scontro di pazienza: occorre rimanere più vicino possibile al boss e parare i suoi attacchi, fino a che non ci colpirà con un affondo: schiviamolo in avanti, andiamo alle sue spalle e colpiamolo, senza esagerare. Proseguire nella strategia indicata fino a quando la barra della postura sarà quasi piena, a questo punto avviciniamoci al balcone e con un colpo mortale potremo scagliarlo nel burrone sottostante. Importante: questo è l’unico modo per eliminarlo, dovremo abbatterlo proprio sul bordo.


Centopiedi Sen’Un 

Difficoltà: 🗡 

Boss opzionale affrontabile nella location del Monte Kongo – Tempio Senpou. Anche se pare difficile orientarsi tra le tante pagode della regione, il mini-boss si trova in quella più a destra dopo il terzo Idolo dello Scultore; l’unico modo di entrare è attraverso un buco nel tetto.

Per prima cosa, eliminiamo i tre nemici sopra i cornicioni di legno, cercando di non cadere di sotto per non allertare il boss. Una volta ripulita l’area, potremo fare un attacco in caduta per rimuovere una barra degli HP in tutta sicurezza. Uccidiamo i due nemici più piccoli e poi concentriamoci sul nemico: schivare non serve a nulla, ma possiamo deflettere la sua intera combo – una volta memorizzato, il tempismo è piuttosto semplice – e usare il salto al momento giusto per fargli gravissimi danni alla postura e infliggergli un colpo mortale. Uno scontro facilissimo e brevissimo.


Scimmie del Tempio Senpou

Difficoltà: 🗡

Per affrontare le Scimmie del Tempio Senpou, dovremo interagire con l’altare del Tempio Senpou; da ricordare che questo particolare boss non sarà disponibile finché non avremo sconfitto Genichiro Ashina e parlato con Isshin su indicazione di Lord Kuro.

Si tratta di una boss-fight basata sulle meccaniche, un po’ come accadeva con Micolash per chi ha giocato a Bloodborne. Dovremo uccidere 4 scimmie in totale, e correre dietro a ciascuna non ci aiuterà affatto. Ecco come eliminarle tutte:

  • Scimmia Invisibile: Appena spawniamo nell’area, muoviamo qualche passo in avanti, poi giriamoci subito e attacchiamo lo spazio vuoto dove siamo apparsi; lì si trova la scimmia invisibile e, se avremo fortuna, la abbatteremo subito. In caso non si trovasse nel punto indicato, potremo trovarla nella torre a sinistra dell’arena, nei pressi dell’acqua, dove c’è una nota attaccata al muro.
  • Scimmia Verde: Saltiamo sul grande albero al centro dell’area, e vedremo la Scimmia Verde saltare sul tetto. Avviciniamoci, ma senza salire sul tetto, rimaniamo al piano terra. C’è una grossa campana con una nota: quando la scimmia è ferma sulla balconata, colpiamo la campana e questa stordirà la scimmia: saliamo sul balcone e colpiamola con un attacco alle spalle. Facilissimo.
  • Scimmia Viola: Andiamo nella torre di sinistra: la scimmia viola si trova in questa zona, ma non appena ci vedrà comincerà subito a scappare. Per prima cosa, dovremo spegnere le luci; apriamo le porte nella torre di sinistra e il vento spegnerà tutte le torce. A questo punto continuiamo ad inseguire la scimmia viola finché non torna al punto di partenza; una volta che è nella torre, lasciamoci cadere su di lei dal tetto e abbattiamola con un’esecuzione.
  • Scimmia Rossa: Questa è la scimmia con il tamburello, e non è particolarmente difficile. Dovremo trattarla come un nemico qualsiasi: portiamoci alle sue spalle, silenziosi  avviciniamoci lentamente fino a farle un’esecuzione. Non c’è una tattica specifica, dovremo solo inseguirla e prenderla mentre abbassa la guardia.

Shirafuji Occhi di Serpente

Difficoltà: 🗡 🗡 

Quando la vedremo per la prima volta – perché si, anche se non sembra, Shirafuji è una boss-fight al femminile – sarà girata dritta verso di noi. Ignoriamola subito, prendiamo il percorso a sinistra e attraversiamo il ponte fino a dove si interrompe. È fondamentale equipaggiare l’ombrello caricato, utilissimo in quest’area per proteggerci dai fucilieri appostati ovunque. Cessata l’allerta, torniamo al boss e avviciniamoci senza farci vedere, dal lato sinistro potremo aggirarla alle spalle e infliggerle un potente attacco in stealth. In fase di combattimento, il consiglio è utilizzare il pugnale Sabimaru fino ad avvelenarla; a questo punto potremo farle un sacco di danni alla postura. Attacchiamo quando ce lo consente, per il resto dovremo deflettere i suoi attacchi in combo (2 o 3 colpi) e stare molto attenti a due cose: anzitutto, ai colpi di fucile che scaglia in chiusura delle combo; in secondo luogo, al suo attacco imparabile, una presa che infligge gravissimi danni. Mai e poi mai, per nessuna ragione, curarsi di fronte a lei: cercare riparo dietro la roccia e bere la fiaschetta solo quando siamo al sicuro. Se affrontato come descritto, risulterà uno scontro abbastanza facile.


Centopiedi Braccia Lunghe Giraffa

Difficoltà: 🗡

Strategia esattamente identica al Centopiedi incontrato sul Monte Kongo, in questo caso senza ulteriori nemici da eliminare. La boss-fight più semplice di sempre.


Scimmia Guardiana

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡

Dopo una serie di boss “accessibili” arriva uno scontro che ci terrà impegnati per parecchie ore, uno tra i boss più pericolosi e furiosi dell’intera avventura.

La Scimmia Guardiana nella prima fase ha un pattern di attacco abbastanza semplice da memorizzare; nonostante ciò, il minimo errore ci condurrà a morte certa. Il segreto sta nel correre e indietreggiare quando la vedremo caricare, restare sempre a dovuta distanza e muoverci di continuo; i momenti buoni per colpirla sono quando si rotola a terra e quando si getta verso di noi, le castagnole Shinobi sono una buona tattica per stordirla e guadagnare secondi preziosi per colpirla. Attenzione al masso che ci lancerà contro, che ci ucciderà sul colpo o ci avvelenerà: schivarlo all’ultimo istante con un salto all’indietro.

Quando con il colpo mortale le taglieremo la testa, con nostra sorpresa la vedremo rialzarsi e, armata di spada, dovremmo affrontarla di nuovo. Ora le cose si fanno complicate: il metodo più semplice, anche se abbastanza lungo, consiste nel correre in circolo facendoci inseguire, aspettare che si tuffa in spazzata, saltare e affondare un colpo, per poi allontanarsi velocemente. Da evitare il raggio d’azione del suo urlo, una nebbia rossa che ci riempirà di terrore fino ad ucciderci. In alternativa, possiamo provare a deviare i suoi colpi e l’affondo finale, così da stordirla e arrecarle molti danni alla postura, ma ciò richiederà tempismo perfetto e nervi saldi, esponendoci di continuo al rischio della sua nebbia di terrore. Qualunque tecnica decideremo di adottare prepariamoci, sarà uno scontro molto lungo.


Shirahagi Occhi di Serpente 

Difficoltà: 🗡 🗡  

Il boss è molto simile a quello incontrato nella Forra, ma il contesto è diverso e va approcciato con un piano ben definito. Per prima cosa occorre liberare l’arena di scontro dai 3 fucilieri: il primo lo troviamo sotto di noi, eliminabile con un colpo mortale dall’alto; velocemente, utilizzando il rampino tra gli alberi a sinistra, piombiamo sul secondo e lo eliminiamo da dietro; il terzo ci aspetta nell’isolotto centrale, cadiamo dall’alto alle sue spalle e facciamolo fuori.

A questo punto possiamo dedicarci al boss; memorizziamo velocemente le sue combo: tre spazzate con il fucile, spazzata più colpo di fucile, affondo, e colpo di fucile da lontano. Al termine di ogni combo avremo un lasso di tempo per poterla attaccare, con non più di due colpi, al fine di evitare il suo contrattacco. Le due vite del boss sono sostanzialmente identiche, quindi prestiamo attenzione, in particolare ai suoi colpi devastanti con arma da fuoco, ed il gioco è fatto.


Scimmia Guardiana Immortale

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡

Negli abissi di Ashina ritroveremo, con nostra sorpresa, la Scimmia Guardiana senza testa ad attenderci; si, esatto, è proprio lo scimmione al quale avremo tagliato la testa in precedenza, ancora più furioso di prima! La boss-fight è identica alla seconda fase del boss Scimmia Guardiana affrontato nella Forra; nella prima fase dello scontro evitiamo tutti i colpi, in special modo il suo urlo di terrore, e aspettiamo che si slanci in aria e successivamente esegua un affondo di spada a terra: con il giusto tempismo, potremo deviare il colpo, stordirla e arrecarle un sacco di danni. Eliminata la prima vita, sembra incredibile, ma ci troveremo ad affrontare ben due boss: ancora la Scimmia Guardiana senza testa e la Scimmia Guardiana della Forra.

Prepariamoci ad una fase di scontro lunghissima, in cui il nostro obiettivo principale sarà quello di evitare gli attacchi di entrambe, in special modo di quella senza testa. Concentriamoci sulla nuova scimmia, più debole e con meno iniziativa: colpiamola dalla distanza con gli Shuriken e attacchiamola con Kusabimaru solamente quando saremo sicuri di poter affondare un colpo in sicurezza, durante il suo grido o quando si lancia a terra; evitiamo qualsiasi iniziativa o leggerezza per cercare di accelerare lo scontro: andremo incontro soltanto a morte certa. Eliminata la nuova scimmia, torniamo ad occuparci della scimmia decapitata – per la quarta volta! – stessa dinamica della prima fase, calma e sangue freddo, deviazione dell’affondo, colpo mortale e finalmente ci saremo liberati di uno degli scontri più incredibili e difficili mai partoriti dalla mente di Miyazaki.


Tokujiro il Ghiottone

Difficoltà: 🗡 🗡

Le dinamiche sono le stesse di Juzou l’Ubriacone; vanno prima eliminati i comprimari del Boss, in questo caso alcune fastidiose scimmie, per poi dedicarci al nostro amico.

Possiamo fargli perdere le nostre tracce sfruttando il percorso a destra, per poi tornare in stealth ed eliminare una barra di HP. Durante lo scontro, evitare o parare la sua lama poderosa e attaccarlo quando ce lo consente, ovvero quando imbeve la lama di veleno e al termine di una combo. Come Juzou, il boss è vulnerabile alle spalle.


Nobile della Nebbia

Difficoltà: 🗡 

Giunti alla Foresta Nascosta, troveremo il villaggio completamente avvolto nella nebbia e i suoi abitanti in versione “ombra”; il responsabile di questa illusione è il boss in questione, un “non-si-sa-che-cosa” nascosto all’interno di una pagoda impenetrabile, dalla quale fuoriesce unicamente una melodia di flauto.

Dovremo salire sull’albero più alto vicino alla pagoda ed entrare attraverso una piccola apertura sul tetto; eliminiamo la prima vita del boss dall’alto dopodiché attacchiamolo senza dargli tregua, in breve lo avremo sconfitto. Spodestato il Centopiedi, ecco il boss più facile di sempre.


Senza Testa

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 

Senza dubbio, i tra boss opzionali più temibili dell’intero gioco. Incontreremo ben 5 boss “Senza Testa” nel corso della nostra avventura, in location più o meno nascoste. Ecco dove trovarli, in ordine di apparizione:

  • Senza Testa 1: Grotta nascosta nei Dintorni di Ashina, “Muro Esterno – “Scalinata”, zona raggiungibile con pochi salti partendo dalla torretta fuori il portone dell’arena di scontro con il Generale Tenzen Yamauchi, proseguendo a destra;
  • Senza Testa 2: Dintorni di Ashina, accedendo alla Forra e proseguendo a destra al primo idolo; raggiunto il lago, immergiamoci e riemergeremo nell’antro del boss;
  • Senza Testa 3: Castello di Ashina, in fondo allo stagno;
  • Senza Testa 4: Foresta Nascosta, nella zona iniziale avvolta dalla nebbia;
  • Senza Testa 5: Palazzo della Sorgente, in fondo al Lago.

Per affrontare questi pericolosi avversari è fondamentale utilizzare i Confetti Divini per colpirli, altrimenti non gli faremo danni apprezzabili; equipaggiamoci inoltre di agenti calmanti per ridurre il livello di terrore e dell’ombrello lilla, per proteggerci dai loro attacchi spettrali e contrattaccare con l’abilità “proiezione di forza”. Quando eseguono una spazzata e alzano lo spadone siamo pronti a togliere il lock, saltiamo in avanti e giriamoci immediatamente; i boss infatti tenderanno a scomparire e riapparire dietro di noi. Le due fasi dei Senza Testa sono identiche quindi ripetiamo, usiamo soprattutto l’ombrello e riusciremo a sconfiggerli tutti.

Quasi. Infatti, due dei cinque Senza Testa dovremo affrontarli sott’acqua, uno nel lago del Castello di Ashina e uno nel lago del Palazzo della Sorgente. A parte il fatto che non potremo parare, le regole dello scontro non cambiano: armiamoci dei confetti divini prima di immergerci, poi colpiamoli sempre una sola volta e nuotiamogli intorno, evitando i loro attacchi; senza fretta, hanno una sola vita quindi lo scontro sarà piuttosto breve. Quello in fondo al Lago ha un alter ego virtuale ombra: concentriamoci sull’originale ed elimineremo entrambi.


O’Rin dell’Acqua

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡

Probabilmente, il boss secondario più complicato dell’intero gioco. Questa “simpatica” fanciulla con il cesto in testa che suona uno shamisen è in realtà una shinobi formidabile, velocissima e letale; affrontarla in un duello di spada è praticamente impossibile, neanche se fossimo degli Shinobi nel mondo reale; parare i suoi attacchi è fuori discussione, farle danni apprezzabili pure.

Quindi, come si affronta? In realtà non l’ho ancora capito, ma nonostante ciò sono riuscito a sconfiggerla solamente al secondo tentativo. Come? Utilizzando un elemento dello scenario, le lapidi, un pò come accadeva con Padre Gascoigne in Bloodborne. Mettendo tra noi e il boss le lapidi che troveremo sulla destra, intanto riusciremo a respirare, poi avremo quei secondi necessari per attaccarla con il fendente turbine quando si avvicina. Con pazienza, sangue freddo e senza lasciare mai la posizione di vantaggio ottenuta, riusciremo ad avere la meglio ed eliminare una delle insidie più grandi dell’avventura.


Monaca Corrotta

Difficoltà: 🗡 🗡

Uno dei boss principali del gioco, in realtà non difficilissimo, ci arriveremo già “cattivi” e bene allenati. Ha una sola barra di HP, pertanto memorizziamo i suoi attacchi, devastanti ma abbastanza semplici da evitare, correndole lateralmente.

Le finestre ottimali per attaccarla sono al termine delle cinque spazzate e quando affonda a terra; utili sono le castagnole shinobi per stordirla e poterla colpire 2-3 volte, e i confetti di Ako per aumentare i danni inflitti. Abbiamo visto di peggio, e di peggio ancora ne vedremo.


Grande Serpe

Difficoltà: 🗡

Non un vero e proprio boss, ma uno dei grandi esseri che abitano le terre di Ashina. La prima volta lo incontreremo nel passaggio per la Forra dove, nascosti dentro un palanchino, riusciremo a sferrargli il primo colpo mortale; per ucciderlo dovremo recarci al santuario di ingresso al Monte Kongo, utilizzare l’abilità Ninjutsu burattinaio sul nemico col cappello e far volare l’aquilone.

A questo punto potremo raggiungere un altro passaggio per la Forra, sfruttando l’aquilone e il nostro rampino; dopo una serie di salti, raggiungiamo il trampolino di legno per sporgerci sopra il dirupo ed eseguire un colpo mortale dall’alto. Non resta che goderci l’esecuzione più maestosa di Sekiro.


Orco Incatenato – Castello di Ashina

Difficoltà: 🗡

Stessa boss fight affrontata all’inizio del gioco, si tratta sempre di un Orco Incatenato ma questa volta lo scontro si svolge all’interno di una sala del Castello Ashina; eliminiamo la prima vita del boss dall’alto, dopodiché sfruttiamo lo scenario, in particolare la piccola porta, per incastrarlo ed eliminarlo con facilità. Sfruttiamo le nostre protesi di fuoco e prestiamo sempre attenzione alla sua presa, altrimenti andremo incontro a morte certa.


Ombra Solitaria Mano Infida

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡

Nella stanza dove abbiamo affrontato Jinsuke Saze, troveremo ad attenderci un’altra Ombra Solitaria, detta Mano Infida (Vilehand). All’interno della sala c’è anche un altro shinobi, che potremo far combattere con noi attraverso la tecnica Ninjutsu Burattinaio: il suo aiuto sarà prezioso, anche se piuttosto breve. 

Il duello sarà ad altissima velocità, quindi non ha senso scappare, cerchiamo di deviare i suoi colpi e contrattaccare quando ce lo consente; memorizziamo i suoi movimenti e studiamo i momenti giusti per la parata. Attenzione ai  suoi attacchi con il pugnale avvelenato, da schivare lateralmente, teniamo pronti comunque gli antidoti. Sconfitto il boss, potremo tornare alla terrazza sul tetto, già teatro del duello con Genichiro, verso il primo finale possibile del gioco.


Grande Shinobi Gufo

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡 🗡

Se scegliamo di rinnegare Kuro, ci avvieremo verso il primo finale – il peggiore possibile – del gioco, il finale Shura e dovremo affrontare, in successione, Emma e Isshin. Se invece rimaniamo fedeli al fanciullo, scegliendo la via di Kuro, ci troveremo ad affrontare nostro padre adottivo, il Grande Shinobi Gufo. Inutile dire che si tratta di uno dei boss più forti e complicati dell’intero gioco, i suoi attacchi sono devastanti e se non si trovano subito le giuste contromosse non avremo speranze.

È importante cercare di memorizzare i suoi attacchi:

  • Quando ci lancia 2 shuriken, salterà e affonderà la spada a terra: schivare lateralmente e utilizzare il fendente turbine o l’arte equipaggiata; è il momento migliore che avremo per attaccarlo:
  • Quando ci calcia, salterà indietro e ci lancerà contro degli shuriken: saltiamo via e usciamo rapidamente dalla sua combo;
  • Quando lancia un solo shuriken, ci caricherà con una spazzata: pariamo e corriamo via, cercando di recuperare rapidamente la postura;
  • Quando ci verrà contro con la spada, potremo parare o deviare i suoi colpi, stando attenti ai danni alla nostra postura;
  • Quando lancerà una pallina verde, schiviamo laterale o in avanti, sfruttando la finestra temporale per colpirlo; cerchiamo di non respirare la polvere verde o verremo impossibilitati temporaneamente ad usare la fiaschetta curativa.

Le mosse saranno sempre le stesse, tuttavia si tratta di una boss-fight molto complicata per via della sua incredibile rapidità e degli ingenti danni che il Gufo ci procurerà ogni volta che sbaglieremo approccio. In realtà, dopo innumerevoli tentativi di scontro a viso aperto, ho realizzato che la tattica migliore è quella di muoverci di continuo lungo il perimetro e “provocare” il Gufo ad attaccarci, reagendo rapidamente con la contromossa giusta. Quando abbiamo bisogno di curarci, usiamo la Castagnola Shinobi e prendiamo la fiaschetta con calma, senza prenderci inutili rischi.

Riusciti nell’impresa di togliergli una vita, inizierà la seconda fase dello scontro: il move set del boss rimane lo stesso, aggiungerà di tanto in tanto un colpo a terra che solleva un gran polverone, facendocelo perdere di vista temporaneamente: saltiamo indietro, allontaniamoci velocemente e ricominciamo. Una boss fight molto complicata, lunga e, ovviamente, notevolmente appagante.


Ombra Solitaria Masanaga

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡

Una dannata Ombra, di nuovo.

Sconfitto il Gufo, e scelto un finale alternativo al primo, troveremo l’ennesima Ombra Solitaria, questa volta Masanaga, nel tempio della foresta dei bambù; avviciniamoci di soppiatto ed eliminiamo i cani a protezione dell’esterno, poi entriamo dal retro e togliamo una vita al boss con un colpo mortale alle spalle. Lo scontro è identico a quelli già affrontati, per facilitarci il compito teniamo le distanze ed utilizziamo l’ombrello caricato oppure lo scatto d’ombra. Anche Sabimaru è un opzione, a patto di deflettere con precisione i suoi contrattacchi. Ennesimo scontro ad altissima velocità.


Monaca Reale

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡🗡

Raggiunto il Palazzo della Sorgente ci troveremo ad affrontare la Monaca Reale, in uno scenario dalle tinte autunnali bellissimo. Si tratta di una boss fight piuttosto complicata, ma se non abbiamo avuto problemi in precedenza, non li avremo neanche stavolta.

Il Boss ha ben tre barre HP, ma per nostra fortuna la seconda potremo eliminarla sfruttando l’ambiente circostante, nello specifico i rami degli alberi che delimitano il ponte: se saremo veloci e precisi potremo sferrare il colpo mortale dall’alto.

Ma andiamo con ordine: in questa boss fight dovremo concentrarci sulla postura, quindi attacchiamo, memorizziamo bene i colpi (il suo move set non è difficile da ricordare) e pariamo ogni volta che possiamo, allontanandoci quando siamo in difficoltà; se riusciremo a sfruttare la contromossa Mikiri al termine della sua combo con doppio fendente, le arrecheremo ingenti danni alla postura.

Eliminata la prima vita, saliamo velocemente sull’albero più alto a sinistra, aspettiamo che la Monaca si materializzi sotto di noi e sfruttiamo l’attacco dall’alto per sferrarle il secondo colpo mortale.

La terza fase è senza dubbio la più complicata, in quanto il boss cambia completamente move set di attacco e diventa estremamente veloce, perdendo però, per nostra fortuna, parecchia resistenza ai danni da spada: il consiglio è quello di utilizzare le castagnole Shinobi, stordirla e colpirla più volte che possiamo, per poi allontanarci. Se saremo attenti e veloci, riusciremo a danneggiarle in maniera importante la barra della salute (in questa fase concentrarsi solo sulla barra degli HP) e a sferrarle il terzo e definitivo colpo mortale.


Toro Sakura

Difficoltà: 🗡 🗡

Eliminiamo i samurai sul tetto, poi occupiamoci del Toro Sakura. La strategia è la stessa dello scontro con il Toro Ardente, ma in questo caso saremo facilitati dal nostro livello attuale: corriamogli intorno, restiamogli sempre dietro e colpiamolo quando possiamo, sfruttando i confetti di Ako per aumentare  il nostro danno e velocizzare lo scontro. 


Capo Okami Shizu 

Difficoltà: 🗡 

Non si tratta di un vero boss, dobbiamo soltanto raggiungerlo con il rampino, evitare saltando il suo attacco in fulmine e riempirlo di botte rapidamente. Una passeggiata.


Drago Divino

Difficoltà: 🗡 🗡 

Nel Regno Celeste ci troveremo ad affrontare il Drago Divino, al fine di ottenere il dono delle lacrime e portare a termine la Recisione Immortale (altro finale possibile).

Si tratta di una boss fight finale molto tattica: per prima cosa eliminiamo i Vecchi Draghi dell’Albero, saltando sugli alberi che spuntano dal terreno e attendendo il momento giusto per sferrare i nostri colpi critici, ricordando di prestare attenzione al veleno che ci tireranno addosso. Eliminati i comprimari possiamo affrontare il Drago Divino; la tecnica è semplice: saltiamo di albero in albero fino a raggiungere quelli con l’elettricità ed usiamola contro il Boss premendo il tasto di attacco; quando verremo spazzati a terra, prestiamo attenzione agli affondi e alle spazzate di spadone del Drago, le prime parando e le seconde saltando e correndo velocemente.

Quando gli avremo tolta molta salute il Drago ci attaccherà con una serie di colpi continui e potenti: proteggiamoci con l’ombrello scudo e stiamo pronti a sferrare il colpo finale, mirando alla testa. Ripetiamo la tattica, curiamoci quando siamo a terra lontani da lui, e in men che non si dica avremo eliminato il Boss (forse) finale del gioco.


Genichiro Ashina

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡

Se abbiamo pensato che il Boss finale, tutto sommato, fosse abbastanza facile, è perché il Drago Divino non è il Boss finale. Raggiunto Lord Kuro nel campo dall’erba d’argento di inizio gioco, troveremo ad attenderci il nostro “amico” Genichiro Ashina: spogliato della sua armatura e abbracciata la Via di Tomoe, dovremo affrontarlo ancora una volta in un epico duello.

Lo scontro è difficile ma non “quasi impossibile” come la prima volta, stavolta avremo a disposizione l’intero campo di battaglia per schivare ed evitare i suoi attacchi; il suo pattern è più o meno lo stesso della terza fase dello scontro precedente, integrando un’ampia spazzata con la lama mortale al posto dell’attacco in fulmine. Il segreto è memorizzare il suo pattern e parare la maggior parte dei suoi attacchi, stando attenti al tempismo e alla nostra postura, e contrattaccare quando possiamo; presto scopriremo di avere delle finestre utili al termine dei suoi attacchi, per danneggiare in maniera significativa salute e postura.

Qualora decidessimo di affrontarlo in duello a viso aperto, scelta decisamente più appagante, questa è la guida a tutti i suoi colpi:

  • Genichiro alza la spada sopra la testa e inizia una combo lunghissima: memorizziamo e deflettiamo tutti i colpi; al termine, salto indietro o contromossa Mikiri: danneggeremmo pesantemente la sua postura;
  • Colpo caricato con lama mortale: andiamo velocemente alle sue spalle ed effettuiamo un doppio Ichimonji, per spezzare anche l’eventuale secondo colpo;
  • Colpo con arco e rotolamento in avanti: deflettiamo la freccia, il successivo colpo di spada e contrattacchiamo;
  • Quando siamo ad una certa distanza, Genichiro attaccherà in slancio; abbiamo diverse opzioni: fermi/avanti e contromossa Mikiri, schivata alla nostra sinistra e fendente turbine, schivata indietro e doppio Ichimonji;
  • Due affondi pesanti da destra e sinistra: deflettiamo entrambi e contrattacchiamo; mai, per nessuna ragione, scappare all’indietro: verremo colpiti dalle sue frecce;
  • Attacco con l’arco: pariamo le sue frecce; non proviamo a defletterle, Genichiro è troppo veloce e imprevedibile;
  • Salto e affondo: pariamo l’attacco in salto e contromossa Mikiri sul successivo affondo, oppure schiviamo lateralmente, mai indietro;
  • Simbolo della spazzata: saltiamo e colpiamolo sulla testa.
  • Colpo circolare in salto: pariamo e basta, attenzione a contrattaccare, Genichiro eseguirà un successivo doppio attacco in salto.

Se non vogliamo rischiare di sbagliare tra deviazioni e contrattacchi, restiamo sempre a una certa distanza, costringendolo all’attacco in salto: schiviamolo indietro o a sinistra e rispondiamo con il fendente turbine, per poi allontanarci di nuovo. Tattica lunga ma estremamente più sicura.

Sferriamo l’ennesimo colpo mortale a Genichiro e godiamoci il final…ehm, il prossimo boss!


Isshin Ashina, il Maestro

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡 🗡 

Sconfitto, Genichiro punterà la lama mortale contro di se uccidendosi ed evocando dal suo corpo il potente patriarca della famiglia Ashina, il Maestro Isshin Ashina. Dato che, in caso di nostra morte, dovremo ogni volta sconfiggere Genichiro prima di affrontare Isshin, la coppia Genichiro+Isshin Ashina è di gran lunga la boss-fight più difficile e frustrante di Sekiro: Shadows Die Twice. 

Lo scontro con Isshin sarà molto lungo e difficile, ben tre saranno le vite del Boss da spezzare, quindi prepariamoci al peggio.

La prima fase, concediamocelo, è la “più facile”: Isshin ci colpirà prevalentemente con tre tipi di attacco:

  • Quando inizierà a correre alla sua sinistra, ci attaccherà con tre colpi di spada: corriamo anche noi verso sinistra, al termine della combo facciamo in modo di essere alle sue spalle e colpirlo una/due volte;
  • Quando abbasserà la testa, ci verrà incontro e colpirà sempre tre volte: questa volta stiamo pronti a parare ed, eventualmente, deflettere e contrattaccare al termine, sempre una sola volta;
  • Quando metterà mano alla spada e vedremo un luccichio, stiamo pronti a correre e, come nel primo attacco, portiamoci alle sue spalle: sarà la nostra finestra migliore per attaccarlo.

A questi colpi potrà aggiungere di tanto in tanto un affondo Ichimonji, da schivare lateralmente o correndo indietro, e una doppia onda d’urto con la spada, da evitare lateralmente, al termine della quale facciamo in modo di trovarci sempre alle sue spalle per colpirlo. Se ripetiamo lo schema, potremo portare a termine un esecuzione pulita, risparmiando preziose fiaschette per le fasi successive. Altra tecnica, per velocizzare la fase di scontro, è restargli attaccati e parare tutti i suoi colpi, per poi eseguire un doppio Ichimonji al termine di ogni sua combo; quando vedremo l’ideogramma rosso, Mikiri e contrattacco; in questo modo danneggeremo la sua postura e concluderemo velocemente la prima fase dello scontro.

Ora le cose si fanno complicate: Isshin si armerà di una lancia dalla gittata improponibile e ci “sparerà” addosso con una pistola. Cerchiamo di restargli abbastanza vicini, ma non troppo, in modo da costringerlo ad attaccare in salto e affondo: questa sarà la finestra migliore che avremo per colpirlo, corriamo e schiviamo in avanti (mai lateralmente o verremo massacrati) andiamo alle spalle e colpiamolo una/due volte, poi pronti in parata. Possiamo parare quasi tutti i suoi colpi ma la nostra postura ne risentirà, quindi appena possibile usciamo dalle sue combo, recuperiamo postura e ricominciamo. Quando ci sparerà 4 colpi di pistola, proviamo e defletterli e prepariamoci per una contromossa Mikiri al termine, altra finestra importantissima da sfruttare. Quando esegue una serie di spazzate teniamoci a distanza, al termine effettuerà un affondo e quando vedremo il relativo ideogramma prepariamoci nuovamente al Mikiri: viene da se che, sbagliando la tempistica, saremo “oneshottati”, quindi proviamoci a nostro rischio e pericolo.

La terza e, finalmente, ultima fase è come la seconda, con l’aggiunta dell’elettricità: sul campo di battaglia inizieranno a cadere fulmini e, se avremo la sfortuna di incapparci, ci “oneshotteranno” all’istante; oltre a ciò, Isshin aggiungerà al suo pattern di attacco anche un doppio affondo di spada, con seguente scarica elettrica oppure onde d’urto, che ci colpiranno se non schiviamo/corriamo lateralmente.

Il segreto è rimanere concentrati e non arretrare, i suoi attacchi base saranno sempre gli stessi quindi non spaventiamoci dei fulmini, anzi: quando vedremo la scarica e Isshin saltare, aspettiamo un istante, saltiamo anche noi e premiamo attacco per restituirgli la scarica e danneggiarlo in maniera importante. Se siamo in possesso dello strumento prostetico “Ombrello Caricato”, possiamo adottare anche un’altra tecnica per le fasi 2 e 3: quando Isshin ci attaccherà, con pistola o in salto, apriamo lo scudo, pariamo tutti i suoi colpi e al termine effettuiamo un contrattacco; danneggeremo sia la postura che la barra della salute, e noi saremo al sicuro. Ripetiamo fino ad esaurire gli emblemi spiritici, poi o utilizziamo il “Cerimonial Tanto” o cambiamo strategia, passando alla prima tecnica descritta.

Quando, finalmente, riusciremo a rompere la sua guardia e sferrare il terzo colpo mortale, sarà una liberazione, giustiziamo Isshin e godiamoci finalmente, in base alle scelte fatte, uno degli altri tre finali del gioco. Ce l’abbiamo fatta!


Shigekichi della Guardia Rossa

Difficoltà: 🗡 🗡

Terminato il gioco, il Castello e i dintorni di Ashina saranno invasi dai soldati del Governo Centrale. Nell’arena dove abbiamo affrontato il Generale Yamauchi ad inizio gioco, potremo scontrarci con un nuovo boss; le dinamiche sono identiche al duello con il boss Juzou l’Ubriacone, stessi pattern di attacco e punti deboli. Prima di affrontare lo scontro, come per Yamauchi, eliminiamo in stealth tutti i nemici dell’area, utilizzando il confetto di Gachiin.  


Sette Lance di Ashina – Shume Masaji Oniwa

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡

Nei pressi del lago Ashina troveremo in Boss Sette Lance Shume; utilizziamo il confetto di Gachiin per eliminare il soldato accanto a lui, scappiamo utilizzando i rami sospesi sul burrone a sinistra e torniamo, sempre invisibili, per togliere la prima vita del boss. La sua lancia è devastante, quindi sfruttiamo la stessa tecnica usata con il Sette Lance già incontrato: doppio salto in testa e affondo, ripetiamo fino ad aprire un varco alla sua postura per sferrare l’attacco mortale. Possiamo anche utilizzare la fuliggine per stordirlo ed eseguire un doppio Ichimonji ma esponendoci alla sua lancia, e non è proprio il caso.


Ombra Solitaria Masanaga – Tenuta Hirata

Difficoltà: 🗡 🗡

Seguendo la quest di Emma per il finale “Purificazione”, ad un certo punto otterremo il sonaglio del padre che ci darà accesso a nuovi ricordi presso la Tenuta Hirata. Sulla nostra strada, tra le fiamme della tenuta, troveremo l’ennesima Ombra Solitaria Masanaga ad attenderci: questa volta non potremo coglierla di sorpresa anzi, sarà lei ad anticipare le mosse e a mandarci contro dei cani rabbiosi con un fischio; affrontare lo scontro all’interno del cortile in fiamme è un suicidio, pertanto occorre una strategia di attacco ben definita.

Voltiamoci indietro ed eliminiamo i tre nemici sul ponte; appena entriamo nella tenuta, utilizziamo gli shuriken per bloccare il suo fischio, dopodiché attiriamola fuori, giù per le scale, fino al ponte di legno: il nostro avversario, allo scoperto, perderà le sue abilità e la sua incredibile rapidità, pertanto potremo incalzarlo a colpi di spada e finirlo con calma. 


Gufo – Tenuta Hirata

Difficoltà: 🗡 🗡🗡 🗡🗡

All’interno del salone in fiamme, lo stesso dove abbiamo già sconfitto la Falena dovremo fronteggiare ancora il Gufo, questa volta in versione giovane e potenziata: si tratta, senza mezzi termini, di una boss fight leggendaria. Rispetto allo scontro al castello, il Gufo disporrà di un pattern di attacco ancora più ampio e devastante, comprese castagnole Shinobi e attacchi di fuoco.

Prepariamoci ad uno scontro lungo e che non ammette errori, pertanto fondamentale, ancora una volta, memorizzare ogni singolo attacco/combo e la relativa contromisura:

  • Shuriken + spazzata: deflettiamo entrambi e recuperiamo postura;
  • Doppio shuriken più salto in capriola e affondo: pariamo gli shuriken, schivata laterale e affondiamo un colpo caricato;
  • Doppio attacco lento, spinta, castagnole shinobi e spazzata: deflettiamo i primi due colpi, usciamo dalla combo e proviamo e allontaniamoci;
  • Doppio attacco veloce + spazzata: deflettiamo i primi due colpi, doppio salto in testa con fendente e in guardia;
  • Spazzata: saltiamo, recuperiamo la posizione e pronti a schivare lateralmente l’Ichimonji all’ultimissimo momento, per poi affondare un colpo caricato;
  • Fumo, salto indietro, castagnole shinobi e affondo: saltiamo indietro e pronti per la contromossa Mikiri (la migliore apertura della boss fight);
  • Scatti veloci laterali + shuriken: deflettiamo e pronti al successivo attacco.

Questi sono i principali attacchi che il Gufo ci scatenerà contro; se saremo perfetti nelle contromisure descritte riusciremo ad avere la meglio, in genere danneggiandoli la postura, e sferrare il primo colpo mortale.

La seconda fase è identica alla prima, se non per un piccolo e “fastidioso” dettaglio: un gufo in forma di spirito che svolazzerà per il salone, creandoci qualche problema di visuale. Gli attacchi del Gufo in carne ed ossa saranno sempre gli stessi, con un paio di novità:

  • Quando il gufo volatile si posa sulla spalla del Gufo Shinobi (ma che diamine…?) saltiamo per evitare l’attacco di fiamme, per poi eseguire un Mikiri; questa è la seconda migliore apertura della boss-fight;
  • Di tanto in tanto il Gufo Shinobi scomparirà: quando questo accade, corriamo senza fermarci, quando riapparirà vedremo un lampo di luce, giriamoci immediatamente ed eseguiamo il lock sul Gufo, pronti al suo attacco.

La boss fight sarà piuttosto lunga, non demoralizziamoci se vedremo la sua salute scendere pochissimo, incalzandolo prima o poi la sua postura inizierà a risentirne, e avremo una possibilità di sferrare il colpo mortale. Se escludiamo la boss fight finale con Genichiro e Isshin, questo scontro è senza dubbio il più bello, difficile e appagante dell’intero gioco.


Emma

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡  

Se sulla terrazza presteremo fedeltà al Gufo, rifiutando si seguire la Via di Kuro, sbloccheremo il finale Shura con i relativi boss finali. La boss fight con Emma sarà la pre-boss fight finale, complicata ma non troppo, vale lo stesso discorso fatto per Genichiro e Isshin.

Fondamentale in questo scontro sarà l’abilità scatto d’ombra, con la quale potremo fare danni ingenti ad Emma, mantenendo le distanze dalla sua lama. Possiamo anche duellare con lei colpo su colpo, in questo caso memorizziamo il suo pattern d’attacco e deflettiamo con precisione i suoi fendenti e affondi; la nostra priorità deve essere risparmiare quante più fiaschette curative possibile per lo scontro successivo. 

Le aperture migliori sono al termine del suo attacco fulmineo con doppio fendente e la sua presa, da evitare semplicemente allontanandoci quel tanto che basta per poi contrattaccare.


Isshin

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡

Sconfitta Emma, eccoci ad affrontare di nuovo Isshin, il boss finale (del finale Shura, ovviamente).

A differenza degli altri finali, in questo caso Isshin ha solo due vite, ma la seconda ci darà parecchio filo da torcere. La prima fase è analoga alla prima fase di Isshin il Maestro: deflettiamo i suoi tre colpi e contrattacchiamo, attendiamo che porti la mano alla spada e il successivo luccichio per sfruttare la migliore apertura della boss fight.

Nella seconda fase, Isshin si divertirà ad incendiare tutta la terrazza ed effettuerà tre tipi di  attacco con il fuoco: i primi due sono evitabili lateralmente, correndo intorno e provando a piombargli alle spalle; l’importante è non rimanere di fronte a lui al momento dell’attacco. Il terzo tipo di attacco è devastante: Isshin alzerà dal pavimento il fuoco, dovremo essere veloci e precisi da posizionarci in una zona dove non c’è fuoco per terra, aspettare il suo attacco per poi deflettere rapidamente la sua combo di attacchi invisibili: se sopravviviamo alla sua furia, il resto del combattimento sarà identico alla prima fase, pertanto non si tratta di una boss fight impossibile.

Se riusciamo a risparmiare gli emblemi spiritici per questa fase, sfruttiamo l’abilità scatto d’ombra per danneggiarlo e chiudere rapidamente lo scontro.


Demone dell’Odio

Difficoltà: 🗡 🗡 🗡 🗡 🗡 

Vogliamo completare Sekiro al cento per cento? Allora dovremo sconfiggere tutti i boss, e per farlo la nostra via passerà inevitabilmente per il Demone dell’Odio.

Questo super boss gigantesco, infuocato e cattivissimo comparirà al termine del gioco, completato con il finale relativo all’alleanza con Kuro, nell’area dove abbiamo sconfitto il Generale Gyoubu Oniwa; se credevamo non ci potesse essere nulla di peggiore della coppia Genichiro-Isshin o del Gufo, forse è giunto il momento di ricredersi, il Demone dell’Odio è probabilmente il boss più spietato in Sekiro: Shadows Die Twice.

Questo ammasso di fiamme e cattiveria dispone di attacchi ad ampio raggio devastanti, in grado di ucciderci all’istante. È fondamentale restargli sempre vicino, andargli alle spalle e colpirlo più volte possibile prima che reagisca: pariamo, schiviamo e torniamo alle sue spalle. Quando salterà, corriamo immediatamente verso di lui, per evitare che possa attaccarci dalla distanza; il boss ha tre vite, quindi armiamoci di pazienza, fiaschette e tanta buona volontà. Scontro difficilissimo.

Non riusciamo a sconfiggere il maledetto Demone dell’Odio? Nessun problema, esiste un glitch che ci consente di eliminarlo senza muovere un colpo di spada. Come? Bene, entriamo nell’arena e dirigiamoci a sinistra sull’orlo del burrone, attirando lì il Demone; a questo punto corriamo verso la  torretta vicino le mura, saltiamo sullo spigolo sinistro fino a raggiungere il tettino, da qui spicchiamo un balzo in corsa per aggrapparci al tetto delle mura: sembra facile, in realtà la combo di salti appena descritta è quasi più complicata dell’intera boss fight con il Demone. Provateci, e capirete.

Se riusciremo ad appenderci al tetto, portiamoci sopra il Demone e aspettiamo: nella foga di colpirci, il nostro simpatico amico perderà l’equilibrio e cadrà nel burrone, liberandoci dell’ostacolo finale tra noi e il relativo trofeo.


Finali

Illustrando i duelli con i boss, si è accennato ai finali; ebbene, in Sekiro: Shadows Die Twice ce ne sono ben quattro, tutti meritevoli di essere portati a termine per godere dello splendido lavoro compiuto da From Software. Ovviamente, per sbloccarli tutti, non solo occorrono almeno due run complete, ma dovremo effettuare dei particolari step che altrimenti ci precluderanno una o più opzioni per accedere ai diversi finali.

Finale 1: “Shura”

Il finale più semplice e veloce da ottenere, dopo aver raggiunto il Gufo sulla terrazza prestiamogli fedeltà e rinneghiamo Kuro: dovremo affrontare in successione Emma e Isshin, sbloccando così gli ultimi due boss del gioco.

Seguendo questa via, non avremo accesso all’ultima location del gioco, il Palazzo della Sorgente.

Finale 2: “Separazione Immortale”

Il finale standard del gioco: senza cercare ulteriori indizi lungo l’avventura, raggiunto il Gufo sulla terrazza rinneghiamolo, rimanendo fedeli a Kuro; sconfitto il Gufo, proseguiamo con la storia principale, raggiungiamo il Palazzo della Sorgente e sconfiggiamo il Drago Divino, per ottenere l’ultimo oggetto della quest, il “Dono delle Lacrime”, per portare a termine la separazione immortale e recidere il retaggio del Drago.

Finale 3: “Purificazione”

Il primo finale segreto del gioco: si tratta sempre di raggiungere il Gufo e prestare fedeltà a Kuro.

Sconfitto il Gufo, ci sono dei passaggi che dobbiamo necessariamente seguire:

  • Senza riposare all’idolo, raggiungiamo dai tetti la stanza di Isshin e origliamo la conversazione tra lui ed Emma;
  • Torniamo nella stanza di Kuro e consegniamo gli oggetti che abbiamo ottenuto fino a quel punto della storia, riposiamo e vedremo comparire Emma: andiamo dietro le paratie ed origliamo la conversazione tra lei e Kuro;
  • Riposiamo presso l’idolo, saliamo le scale e parliamo con Emma, mostrandoci d’accordo con lei;
  • Riposiamo ancora, parliamo di nuovo con Emma poi raggiungiamola alle Tombe Antiche, dove si svolgerà un altro dialogo;
  • Raggiungiamo il Tempio in Rovina e dal retro del tempio origliamo la conversazione tra Emma e lo Scultore; raggiungiamo all’interno Emma ed otteniamo il Sonaglio per sbloccare ulteriori ricordi presso la Tenuta Hirata;
  • Nella Tenuta Hirata, affronteremo ancora l’Ombra Solitaria e Juzou l’Ubriacone, per poi sfidare il Gufo nella sala dove in precedenza abbiamo combattuto con la Falena;
  • A questo punto, completiamo normalmente il gioco e scegliamo nel dialogo finale la via della Purificazione.

Finale 4: “Il Ritorno del Drago”

Il più difficile da sbloccare ma, probabilmente, il finale migliore che possiamo ottenere in Sekiro: Shadows Die Twice.

Si tratta sempre di restare fedeli a Kuro e sconfiggere il Gufo; a questo punto dobbiamo seguire una fitta rete di passaggi, nonché completare la quest della Fanciulla Celeste:

  • Per prima cosa, dobbiamo ottenere il Tomo Sacro del Tempio Senpou: se abbiamo raggiunto il Monte Kongo prima della boss-fight con Genichiro, potremo riceverlo dal Monaco nella Sala Principale del Tempio; se ci andiamo dopo, lo troveremo in fondo allo stagno nei pressi del terzo idolo dello scultore;
  • Raggiungiamo il Sancta Sanctorum del Tempio Senpou e parliamo con la Fanciulla Celeste: chiediamole del riso, che potremo mangiare o regalarlo all’anziana fedele che prega nei pressi del Monte; riposiamo e chiediamo ancora del riso, ripetiamo fino a che non vedremo la Fanciulla starnutire ed ammalarsi;
  • Per guarirla, doniamole del Loto, ottenibile lungo il percorso del Monte Kongo, acquistabile dal mercante di zona o regalato da Kotaro, se avremo completato la sua quest con la Girandola Bianca Pura;
  • Curata la malattia, la Fanciulla ci donerà del riso speciale per Kuro; se ci regalerà del riso normale, riposiamo e andiamo da lei di nuovo;
  • Doniamo il riso a Kuro e questi ci darà dei dolcetti consumabili; a questo punto la Fanciulla si sposterà nella Sala delle Illusioni, dove abbiamo sconfitto le scimmie; può darsi che la Fanciulla si sposti dopo aver combattuto contro il Gufo o dopo l’arrivo del tramonto, controllare dopo ogni step importante della storia principale;
  • Una volta che sarà nella Sala delle Illusioni, parliamole e verremo a conoscenza di un secondo Tomo Sacro, recuperabile in fondo alla caverna alle spalle della Sala Principale del Tempio Senpou;
  • Consegnatole il secondo Tomo, il nostro obiettivo sarà la ricerca dei frutti del serpente: per il frutto fresco dovremo sconfiggere la Grande Serpe, azionando l’aquilone del Monte Kongo e raggiungendo la Forra dal grande albero vicino all’anziana fedele; per il ottenere il frutto secco raggiungiamo la valle del Bodhisattva, scendiamo nella parte bassa dove c’è il mercante e raggiungiamo la grotta del Serpente Gigante: utilizziamo il Ninjutsu Burattinaio sulla scimmia così da distrarre il serpente, raggiungiamo il fondo della caverna e prendiamo l’oggetto della quest;
  • Consegniamo entrambi i frutti alla Fanciulla e questa ci donerà le Lacrime Congelate, oggetto fondamentale per sbloccare l’ultimo finale del gioco.

Journey, un viaggio indimenticabile

Uno strano omino di stoffa, dal passo lieve, danza leggero nell’aria trascinato dal vento, attraverso paesaggi di pura poesia e sinfonie che sembrano comporsi da sole lungo il cammino. Una distesa sabbiosa, sullo sfondo una montagna eterna, solcata da una cicatrice di luce, la meta finale del nostro viaggio.

Descrivere Journey con ulteriori parole è difficile, per comprenderlo bisogna provarlo; dura poco più di un film, ma è un’esperienza commuovente e indimenticabile, un viaggio virtuale e spirituale in cui ognuno di noi è libero di ricercare significati nascosti o trovare le risposte che cerca. Mi stupisce parlarne qui, sono sincero, ma molte delle sensazioni che mi ha regalato non sono riuscito a ritrovarle più, neanche nei titoli più blasonati, e ancora oggi lo ricordo con estremo piacere e un briciolo di nostalgia.

Emozionarsi con semplicità e leggerezza. Perché niente è più semplice del gameplay di Journey; non c’è un tasto per l’attacco, né uno per la difesa. Non ci sono tecniche complesse da padroneggiare o abilità speciali da sbloccare. L’unico tasto attivo è quello che ci permette di spiccare un piccolo salto, tutto qui. E niente è più leggero del nostro personaggio, quasi quanto uno stelo d’erba che ondeggia al vento. È difficile comprendere il nostro ruolo in tutto questo. Vediamo delle rovine tra la sabbia e il nostro istinto ci suggerisce di avvicinarci. Forse i resti di un’antica civiltà. Notiamo una stele di pietra con un simbolo luminoso, una sorta di runa; attorno, dei quadratini di stoffa che si librano nel vento, simili a quello che abbiamo dietro il collo. Ci accostiamo, ne assorbiamo l’energia e i due pezzetti si uniscono a formare una sorta di sciarpa. I nostri balzi sembrano migliorati, ora possiamo saltare più in alto. È questa l’unica meccanica che ci serve conoscere, non abbiamo bisogno di altro. Emettiamo un suono, una sorta di nota, sempre diversa ad ogni partita e per ogni personaggio. Un linguaggio minimale, senza significato, eppure ci sentiamo meno soli.

Avanziamo leggeri in questo strano paesaggio, ci colpisce la palette cromatica di questo mondo abbandonato. Ma c’è ancora vita, e magia. La percepiamo, nelle rune e nei glifi che incontriamo, narratori silenziosi di una storia più grande di noi, forse di ciò che è stato, forse di quello che sarà. Ricostruiamo ponti di stoffa, incontriamo creature simili ad aquiloni, ci vorticano attorno, quasi a ringraziarci di essere lì; la grande montagna sullo sfondo, sempre lì, imponente e immutabile. Strane figure, simili a bianchi sacerdoti, ci accolgono silenziosi alla fine di ogni livello, ripercorriamo il nostro viaggio, la storia si compone innanzi a noi. La danza continua, sempre più veloce, le musiche sono un’estasi che ci fanno vibrare dentro; suoni e immagini sono un tutt’uno, una discesa veloce e poetica di cui non abbiamo memoria, eppure è come se l’avessimo già affrontata. Sempre più giù, poi il buio. L’oscurità eclissa la luce, toni bluastri prendono il posto delle tinte dorate, siamo sul fondo. L’atmosfera è più cupa, avanziamo sommessi. Proseguiamo ma il cuore si stringe, strane creature volano sopra noi, percepiamo la paura, una sorta di terrore ancestrale. Poi una torre, la fine dell’oblio. La risalita è un’estasi di luce e di suoni, siamo di nuovo fuori. E ai piedi della montagna. Inizia la salita finale. Ma in cuor nostro, abbiamo già capito

Journey è un viaggio che racconta la vita, lo percepiamo dentro. All’inizio si cammina, con stupore, in un mondo nuovo; impariamo a saltare, superiamo ostacoli e siamo sempre più in alto, la nostra sciarpa cresce e noi con lei. Cresciamo, e affrontiamo le prime difficoltà, dobbiamo ingegnarci per raggiungere punti apparentemente irraggiungibili; ma sono lì davanti a noi, sappiamo che c’è un modo per raggiungerli e di avere tutti i mezzi per farlo. Le piccole gioie dei successi e la tristezza dei fallimenti, siamo a terra ma possiamo sempre risalire, e la luce che ci accoglie è più forte di prima. La nostra storia è sempre con noi, il quadro finale si compone e riassume tutto quello che è stato. I glifi parlavano di noi, il nostro percorso in un mondo di rovine che forse è lì da sempre, spettatore silente di chissà quanti viaggi prima del nostro e quanti ancora a venire.

Journey ci dà una piccola spinta, lasciando il resto alla nostra fantasia. Ogni viaggio è una scoperta, e una condivisione. Perché capiterà, non di rado, di incontrare viaggiatori silenziosi come noi, qualcuno sta affrontando lo stesso viaggio da chissà quale parte del mondo. Una sola nota per comunicare, ma tanto basta per comprendersi; si avanza leggeri dettando la via, si condividono segreti e simboli nascosti. E storia e il quadro finale ne tengono conto, il dipinto che si va a comporre non è più quello di un pellegrinaggio solitario, ma condiviso, un’amicizia che dura una vita o forse qualcosa di più.

Ciascuno è libero di leggere in Journey un significato diverso, una propria interpretazione del viaggio, magari dettata dalle singole esperienze individuali. Una cosa è certa, Journey non lascerà indifferenti, a meno di essere completamente aridi dentro. Alla data odierna, è pure scaricabile gratuitamente dal PS Store, un motivo in più per dargli una possibilità e regalarsi un’esperienza indimenticabile.

La grandezza di The Last of Us: Parte II

Gettare via il DualShock e rifiutarsi di proseguire una sequenza d’azione, seppur digitale, ma che va contro ogni nostro principio morale, realizzando che, forse, ciò che abbiamo tra le mani va ben oltre il concetto di prodotto videoludico.  Chi vi scrive ha provato esattamente questo durante l’ultima avventura di Ellie e Joel, lasciati nel lontano 2013 con quella scena potente, tanto un videogioco aveva osato sfidarci come nessuno prima d’ora. 

The Last of Us: Parte II è il proseguo e la conclusione di quell’avventura iniziata sette anni fa, e se il primo capitolo ci ha fatto innamorare per poi scherzare con i nostri sentimenti, la seconda parte ci prende letteralmente a pugni, mette in discussione tutte le nostre certezze e ci scaraventa ancor più in profondità in quel mondo post-pandemico dove non esistono più scelte giuste o sbagliate, ma soltanto decisioni e relative conseguenze, il cui peso lo porteremo con noi sino alla fine dell’avventura.

Giurami che tutto quello che mi hai raccontato è vero.”

Ellie, The Last of Us

L’ultima fatica di Naughty Dog muove i suoi primi passi riprendendo esattamente da dove si era fermato il primo capitolo; quella scena così potente e spiazzante, il dialogo tra Ellie e Joel che ha cambiato per sempre il modo di concepire la narrativa all’interno dell’esperienza videoludica. Ricordo ancora la mia incredulità, come uno schiaffo in faccia, quella semplice e potente risposta – “Lo giuro” – con cui Joel celava ad un’inconsapevole Ellie la scelta di condannare l’umanità intera per un puro e semplice atto egoistico. Sacrificarla per dare una speranza al mondo o strapparla al suo destino, salvare quella ragazzina anticonformista, conosciuta per caso, che aveva portato una luce nel grigio della sua esistenza. La nostra Ellie, colei in cui Joel rivedeva le speranze e i sogni infranti della figlia Sarah, la cui vita gli era stata strappata via tra le braccia durante quello che fu l’inizio, o meglio, la fine di ogni cosa; la stessa Ellie, immune al virus, forse la chiave per trovare finalmente un vaccino all’infezione che ha cambiato per sempre il volto del mondo.

Parlando a cuor sincero, chi non avrebbe fatto la stessa scelta di Joel? Chi mai avrebbe condannato a morte una ragazzina con cui, tra mille difficoltà, aveva condiviso un lungo viaggio attraverso quello che resta degli Stati Uniti, anteponendole l’idea di una cura per un mondo “malato”, non solo per via del virus, ma devastato nel profondo dell’animo, un’umanità apatica, diffidente e spietata, il cui unico fine è la propria sopravvivenza a discapito del prossimo. Probabilmente chiunque avrebbe fatto quella scelta egoistica, il fatto straordinario è averla inserita in un contesto ludico in cui ci si aspetta sempre il lieto fine, l’eroe che salva il mondo compiendo il sacrificio estremo. Non ci siamo abituati, vedere il protagonista che antepone il proprio bene rispetto a quello comune. Troppo realismo sbattuto di colpo in un videogioco, senza darci le istruzioni. E senza eroi, lasciandoci in mano semplici esseri umani con le loro fragilità e debolezze.

Ma i videogiochi sono “cresciuti“, sono maturati così come ormai lo sono la stragrande maggioranza dei suoi giocatori, i ragazzini di una volta che sono cresciuti a pane e joystick; siamo maturi e siamo pronti, ci aspettiamo ormai qualcosa in più da questa meravigliosa forma d’intrattenimento. Il confine con il concetto di esperienza realistica è sempre più labile, non solo da punto di vista grafico, ma soprattutto nei contenuti, nei temi trattati e nelle decisioni da prendere; come nella vita reale, dove non c’è una decisione importante che non sia sofferta, che accontenti tutti e ci lasci senza macchia, così nei prodotti videoludici odierni ogni decisione va presa accentandone il peso delle conseguenze, giuste o sbagliate sarà solo il tempo a dircelo.

Joel ha preso la sua decisione, e insieme ad Ellie li ritroviamo a Jackson, uno degli ultimi baluardi di una civiltà che non c’è più. Le loro vite continuano, così come quelle degli altri, ignari di quello che è stato e che poteva essere. Ma il peso delle conseguenze sta per arrivare forte come un macigno, perché se la parabola di Ellie e Joel ha seminato una scia di atti violenti e uccisioni “ludicamente” accettabili, ecco che il gioco sta per sbatterci in faccia un punto di vista differente, di chi sta dall’altra parte, di chi quelle perdite le ha subite sulla propria pelle.

Ed è qui che The Last of Us: Parte II emerge con forza, differenziandosi da tutto il resto. Finora ogni titolo ci ha sempre raccontato la storia da un singolo punto di vista, sai benissimo chi è il tuo alter ego digitale, conosci il suo background, le sue abilità e le sue motivazioni, vai avanti eliminando chi ti sta di fronte, perché è il tuo fine quello corretto, sei tu il protagonista della storia. Giusto? Non necessariamente, e Naughty Dog ce lo ricorda fin dai primissimi minuti. Ci ritroviamo inaspettatamente a giocare con un altro personaggio, non sappiamo chi sia o da dove venga. Ne conosciamo solo il nome, Abby, così la chiamano i suoi amici, degli estranei ai nostri occhi. Proseguiamo senza capire, percependo tuttavia che stiamo dando la caccia a qualcuno, abbiamo un conto importante in sospeso. Siamo sulle tracce di Joel, lo capiremo di lì a poco, lo stiamo braccando ma non ne comprendiamo le motivazioni. Abby non ci sta simpatica, ci dà fastidio giocare nei suoi panni, è tangibile, un disagio che si trasforma in odio quando la situazione precipita e ci ritroviamo di fronte all’inevitabile. Joel finisce nella mani del gruppo e viene brutalmente ucciso. La vicenda la viviamo dalla prospettiva di Ellie, spettatrice impotente del massacro. Joel non c’è più, il protagonista con il quale abbiamo vissuto l’intero primo capitolo, ne abbiamo condiviso i dolori e le sofferenze, l’indifferenza che si è trasformata in affetto verso Ellie, ma anche la rabbia e gli atti violenti con cui ci siamo fatti largo per arrivare sino a quel punto di non ritorno. È questo il potente incipit di The Last of Us: Parte II, il grande motore di vendetta che ci mette in moto, un ultimo viaggio nei panni di Ellie sulle tracce di Abby e del suo gruppo, responsabili di quel crimine inspiegabile ai nostri occhi. Ma sono effettivamente loro i criminali? Perché abbiamo impersonato Abby solo per quel dannato spezzone di gioco al quale mai avremmo voluto assistere? Cosa c’è dietro l’intera vicenda? Non lo comprendiamo ancora, possiamo solo percepire una profondità inquietante alla quale dovremo scavare per trovare le nostre risposte.

Neil Druckmann, direttore creativo del progetto e co-presidente di Naughty Dog, ci ha regalato negli ultimi anni delle sceneggiature memorabili. La saga di Uncharted e, ovviamente il primo The Last of Us, sono il biglietto dal vista di una delle menti creative più brillanti del mondo videoludico nonché esempio, più in generale, di come vanno raccontate le belle storie; perché non basta avere una buona idea, bisogna saperla rivelare con i tempi giusti, coinvolgendo l’utente e suscitando in lui le stesse sensazioni che proverebbe vivendole sulla propria pelle. Solo così le belle storie diventano reali, ti entrano dentro e non ne escono più.

Tre giorni piovosi in una Seattle spettrale, con l’ombra degli infetti e di un nemico senza nome, che si muove nell’ombra. Tre giorni a disposizione di Ellie e la sua compagna Dina per dare risposta a tutte le domande in sospeso, in un crescendo di suspense e violenza che già intuiamo dove ci sta conducendo. Intanto scopriamo che Dina è incinta; cosa abbiamo fatto: l’abbiamo trascinata in questo inferno. In realtà è stata una sua scelta, ma sapevamo che sarebbe stato così, non ci avrebbe mai lasciato da sole. Un teatro abbandonato come ricovero, la base da dove iniziare la ricerca; fuori piove incessantemente, Dina sta male, è debole e febbricitante, non può uscire insieme a noi. E da soli, là fuori, è ancora peggio. Fuggiamo da orrori di ogni tipo, ci lasciamo dietro una scia di sangue e ci macchiamo di violenze che ci fanno stare male, non ne comprendiamo bene il motivo ma sentiamo che qualcosa non va per il verso giusto, iniziamo a mettere in discussione le nostre certezze. Nella nostra spirale di vendetta uccidiamo una ragazza e il suo compagno, a sangue freddo; scopriamo solo dopo che la ragazza era incinta. Il pensiero vola subito a Dina; Ellie si sente male, noi con lei. Non possiamo più andare avanti, per fortuna sentiamo di essere prossimi all’epilogo. Almeno così crediamo. Perché l’inevitabile scontro con Abby non è la fine, è solo l’inizio. O meglio un nuovo, sconvolgente inizio.

Lo schermo si oscura, torna la luce e ci ritroviamo di nuovo nei panni di Abby, stavolta adolescente, in un bosco insieme al padre. Stiamo prestando soccorso ad una zebra ferita; i colori sono più accesi, si respira un aria nuova, c’è amore, serenità, la voglia di vivere e la speranza si toccano con mano. E poi, finalmente, capiamo. La verità ci travolge come una tempesta, Druckmann sfodera il suo asso nella manica, The Last of Us: Parte II ci colpisce forte allo stomaco. Perché c’eravamo anche noi nel viaggio di Ellie e Joel attraverso il Paese, siamo anche noi responsabili della scia di sangue che è stata lasciata alle spalle, sino a quel maledetto ospedale di Salt Lake City, dove la scelta di Joel ha cambiato per sempre il corso degli eventi. Siamo usciti da quell’ospedale con Ellie tra le braccia, colpevoli forse di aver annientato l’ultima speranza del genere umano, di certo consapevoli di aver spezzato le vite dei medici che stavano lottando per sviluppare finalmente una cura. Ma al tempo nessuno ci aveva prestato caso, l’amore tra Ellie e Joel era troppo forte, più grande di ogni altra cosa, del mondo intero, importava solo quello. Scoprire che il padre di Abby era a capo di quell’equipe medica ci fa male, solo ora percepiamo le conseguenze delle nostre azioni. Non sappiamo più cosa pensare.

E sono ancora tre giorni piovosi a Seattle, gli stessi tre giorni ma vissuti dall’altra parte della barricata, dove assistiamo alle vite spezzate dei nostri affetti, di una Mel in dolce attesa e del suo compagno Owen, il ragazzo con cui siamo cresciute e che abbiamo amato sin da piccole. Ora quei corpi freddi hanno un nome, da vittime sacrificali del nostro viaggio di vendetta diventano improvvisamente personaggi con una vita, un passato, con i loro sogni e speranze infranti da un turbine di violenza assurda lasciata alle spalle da una spietata ragazzina anticonformista. E il mondo ci cade addosso, odiamo noi stessi per aver odiato una Abby di cui non sapevamo nulla, per noi era solo la “cattiva” del videogioco. Invece di cattivo non ha un bel niente, è solo un’altra faccia della stessa medaglia, una persona che come tante ha lottato per sopravvivere in questo mondo dilaniato dall’infezione, che ha voluto bene al padre, ha pianto e sofferto. Ha vissuto gli orrori e i pochi momenti di felicità sulla propria pelle, proprio come Ellie. E come noi dall’altra parte dello schermo. E odiamo Ellie, dopo averla tanto amata. Tanto ci ha fatto commuovere al tempo quanto ci fa arrabbiare adesso.

Sappiamo che, prima o poi, dovremo rivivere lo scontro tra Ellie e Abby e già stiamo male. Sappiamo che non sarà come affrontare il classico boss di fine gioco, stiamo imparando che The Last of Us: Parte II non è il classico videogioco. È un’esperienza totalizzante e sconvolgente, ci sta dando una lezione, ci sta insegnando a non giudicare, emettere sentenze senza prima comprendere, senza mettersi nei panni dell’altro. La vendetta per noi ha perso ogni significato, ma non per Ellie, una Ellie scavata in volto, segnata dalla violenza e dal quel maledetto desiderio al quale non riesce a staccarsi. Noi lo abbiamo fatto già da un pezzo, siamo stanchi. Abbiamo già perso Joel, ora stiamo rinunciando a quello resta, all’affetto di Dina, a una vita “tranquilla” per quanto possibile dopo gli orrori di una vita vissuta sempre in fuga, a guardarci le spalle. Vorremo urlarle contro “basta così, ti prego”. Ma il videogioco non ha ancora finito con noi, la lezione non è ancora finita, c’è ancora una sequenza tremenda da affrontare.

Siamo in una spiaggia dalle tinte spente, domina un grigio funereo; Ellie stringe tra le mani il collo di Abby, il lungo viaggio è finito. Il Dualshock in mano e solo un tasto da premere. Ora ditemi voi quante altre volte vi siete trovati a rifiutarvi di premere un maledetto tasto, di gettare via il pad e non volerne più sapere niente. Ve lo dico io, mai. Perché mai un videogioco è riuscito a fare questo, a rompere la quarta parete e renderci così coinvolti in quanto sta accadendo a schermo, di toccarci a tal punto da farci portare il peso reale delle conseguenze di un azione digitale.

Non credo che potrò mai perdonarti. Ma mi piacerebbe provarci.

Ellie, The Last of Us: Parte II

Eppure siamo costretti a farlo, il gioco è lì che aspetta e non accenna a muoversi senza di noi; premiamo quel maledetto tasto, quasi senza guardare; per fortuna dura poco. È un attimo: Ellie è al culmine della vendetta quando lo vede, rivede Joel seduto in veranda con la chitarra in mano, la sera prima di morire; la sera in cui Ellie aveva deciso di dargli una possibilità, di perdonarlo nonostante la sua decisione e tutto quello che ne era seguito. Perché si, alla fine Ellie lo aveva capito. La grande bugia di Joel, l’atto che aveva condannato l’umanità intera, e che Ellie non gli aveva mai perdonato. Forse in cuor suo lo aveva sempre saputo, ma non voleva ammetterlo. È solo un attimo, un fugace ricordo ma tanto basta per redimerla, per accettare che ormai niente e nessuno potrà cambiare quello che è stato. E la lascia andare. Abby si allontana in barca, Ellie rimane seduta a riva, sola nel grigio di quel momento spettrale. Tiriamo un sospiro di sollievo, ma non siamo sollevati, ci siamo spinti troppo oltre per poter tornare indietro, niente sarà mai più come prima.

Non sappiamo se il mondo dei videogiochi sarà più lo stesso dopo questo capolavoro, solo il tempo potrà dircelo. Se un giorno si parlerà di un pre e post The Last of Us: Parte II, come una sorta di spartiacque più che generazionale, di tipo esperienziale. Di certo Naughty Dog ha dimostrato a tutti che infrangere la quarta parete è possibile, raccontare una storia dal respiro cinematografico combinandola all’esperienza ludica è possibile; e che vivere il paradosso delle nostre emozioni in un istante e mettere in discussione il nostro operato, seppur digitale, è possibile. Ma soprattutto, che è possibile raccontare una storia da due punti di vista opposti, insegnandoci quanto sia sbagliato trarre conclusioni affrettate o elargire facili giudizi sulle persone che incontriamo, nel gioco come nella vita, perché non siamo sempre e solo noi i protagonisti.

Ed è questa la vera grandezza di The Last of Us: Parte II.