Prendersi la scena in silenzio

Vi diranno che non è un film da Oscar. Vi diranno che trattasi del semplice remake di un filmetto francese di qualche anno fa, di quelli che ce se ne dimentica quasi subito dopo i titoli di coda. Vi diranno che c’era di meglio. Senza dubbio è così, o meglio è anche così, perché in cambio di due ore scarse di visione è tanto quello che resta dentro. Coda – I segni del cuore vince la 94esima edizione degli Academy Awards come Miglior Film meritandoselo appieno, eccome; a dimostrazione che si può avere successo anche senza grandi pretese o budget illimitati, si può arrivare al pubblico raccontando una storia semplice. L’importante è farlo bene.

Perché sì, al netto dell’originalità di base, la storia raccontata da Siân Heder è semplice: Ruby (Emilia Jones), una ragazza di diciassette anni – una piccola donna per la sua età – è l’unica persona udente all’interno della sua famiglia. Anche per questo, ogni giorno, prima di entrare a scuola, la ragazza aiuta i genitori (Marlee Matlin e Troy Kotsur) e il fratello (Daniel Durant) nell’attività ittica di famiglia, sullo sfondo della cittadina costiera di Gloucester.

Tuttavia quando Ruby decide di entrare nel coro della scuola, la sua vita comincia a cambiare in modo lento e inesorabile. Questo perché la ragazza ha il dono di una voce incredibile, ben presto realizza che la sua passione per il canto può essere un’alternativa e dovrà decidere se inseguire il suo sogno o restare con la famiglia, che sembra avere un disperato bisogno di lei.

Partirò subito col dire – me lo sono chiesto pure io – che CODA è l’acronimo di “Child of Deaf Adults” ovvero di bambino in un gruppo familiare di non udenti. Una tematica complessa trattata in modo semplice eppure mai superficiale, una narrazione che scorre via delicata, cosa tutt’altro che banale. Tutte le difficoltà di una famiglia disagiata – in realtà molto più normale e unita di altre solo all’apparenza perfette – raccontate con una naturalezza disarmante; c’è la sofferenza quotidiana nell’affrontare anche le più piccole sfide, le incomprensioni sovrastate sempre dall’affetto che tiene uniti, le piccole gioie e sì, anche l’emarginazione, ma sentita molto più all’interno del nucleo familiare che proveniente dal mondo esterno. Col passare dei minuti e e lo scorrere degli eventi le barriere inesorabilmente crollano, le distanze si accorciano e si scopre una comunità molto più accogliente di quanto la pellicola facesse intendere all’inizio. Perché i pregiudizi fanno del male soprattutto a chi li porta, ed è bellissimo come questo film ce lo palesi così serenamente, senza sermoni o lezioni di vita.

Lezioni – di recitazione – quelle sì che ce ne sono, offerte da un cast composto da attori realmente sordomuti, che di fatto stanno più raccontando sé stessi che recitando, e ben venga anche la statuetta al miglior attore non protagonista per Troy Kotsur. E poi c’è lei, Emilia Jones. Un’interpretazione magistrale nella sua semplicità, e scusate se mi ripeto di continuo, ma c’è del talento nel raccontare certe problematiche con delicatezza, con toni semplici ma mai banali, a tratti con ironia senza mai oltrepassare il confine. È un film che mette di buon umore, trasuda serenità e tira fuori il meglio di noi stessi da ogni fotogramma.

Semplicità. L’adolescenza, i conflitti familiari, il primo amore, le passioni e i sogni che si scontrano con la realtà, la vita che bussa alla porta e presenta sempre il conto. Una, mille, milioni di storie di vita riassunte in quella di Ruby, e un solo modo di affrontarla: con semplicità. Perché alla fine tutto si sistema, e non necessariamente con il lieto fine delle favole, bastano piccoli cambiamenti, il motore che spinge in avanti le nostre vite, verso nuove sfide, conquiste e, perché no, fallimenti. L’importante è affrontare sempre tutto con cuore e bontà d’animo.

Restando in tema di interpretazioni, come dimenticare Bernardo Villalobos (Eugenio Derbez). L’insegnante di canto che per primo intravede le potenzialità canore di Ruby, il primo a mostrarle che c’è di più oltre la soglia di casa. Con professionalità, certo, e semplicità – ovviamente – ma senza mai essere invadente, con rispetto. Altro grande valore, mai pronunciato, ma di cui la pellicola ne è intrisa.

C’è una scena, una delle prime lezioni con il coro, nella quale per tirare fuori la “vera” voce di Ruby, la spinge a “scrollarsi” come un cagnolino; accortosi dell’imbarazzo di lei, coinvolge tutta la classe nell’imitare lo stesso movimento.

Una scena divertente, non c’è che dire, comica a dirla tutta, ma in cui c’è gran parte dell’essenza del racconto: raggiungere un’obiettivo insieme, divertendosi.

Nulla di più semplice.

Ho avuto il piacere di vedere il film il giorno dopo gli Academy Awards, sapendo già della vittoria. E mentre lo guardavo, piacevolmente rilassato, comunque una domanda iniziava a rimbalzarmi in testa: ma cosa ha davvero questo film per meritarsi la statuetta come IL MIGLIORE? Certamente non ho il privilegio di sapere cosa abbia spinto la giuria verso un tale verdetto, ma posso senz’altro condividere con voi il momento esatto in cui io, nei miei umili panni, avrei potuto maturare una tale decisione.

C’è una sequenza, nella seconda metà inoltrata, in cui tutto è dannatamente perfetto. Sono tutti lì, l’atmosfera è rilassata, lei sta cantando ed ecco che, dal nulla, senti crescerti qualcosa dentro. È stramaledettamente bella quella scena. Vorrei rivedere il film propio in questo momento, da capo, solo per arrivare lì, dove tutta la pellicola converge e prendi veramente coscienza di cosa stai guardando. Vieni scaraventato dentro il film e nella vita dei protagonisti, o forse sono loro che entrano a gamba tesa dentro la tua. Il resto non conta più nulla. Hai capito, e non ti serve sapere altro.

Ed è a questo punto che il racconto spinge sull’acceleratore. Non perché si conclude in fretta, sia chiaro, ma perché la cortina tra noi e i protagonisti si è ormai squarciata e l’escalation di emozioni ci porta a godere delle sequenze finali così ben confezionate che poco ci importa ormai se il lieto fine arrivi davvero oppure no. Siamo in pace con noi stessi e con il mondo. Il resto non conta.

Tra qualche anno, probabilmente, questo film sarà poco più che una lontana rimembranza. A ricordarci la notte degli Oscar 2022 probabilmente rimarrà il grande colossal Dune con le sue 6 statuette, di sicuro la performance di Will Smith. Ma sfido chiunque abbia visto Coda – I segni del cuore e non sia completamente arido dentro a non sorridere ed emozionarsi ripensando alla sequenza di belle immagini che ci regala questa pellicola, così potente nella sua silenziosa semplicità.

È un film di poche parole, e in fondo non c’è bisogno di tante parole quando tutto è in armonia.

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