Alle volte, una storia raccontata è solo una storia raccontata.
È da un pò che non scrivo – almeno da queste parti – per cui mi perdonerete se ricomincio da un argomento almeno all’apparenza poco interessante.
Il fatto è che ci tenevo, nel mio piccolo, a dire la mia su un certo disagio social che da qualche tempo a questa parte sta dilagando e investendo pressoché ogni prodotto di intrattenimento audiovisivo, cinematografico o videoludico che sia.
E non sto parlando dei titoli volutamente provocatori, o che si avventurano palesemente oltre i confini del politicamente corretto; sto parlando di TUTTO.
È tutta una polemica. Che sia sui contenuti, sulla trama, sul casting, sul finale. Ogni opera, anche la più forzatamente inclusiva, è oggetto di critiche da parte dell’utenza. Siamo purtroppo giunti a quel punto di non ritorno nel quale i produttori più che concentrarsi sul realizzare contenuti originali e di qualità si preoccupano, e non poco, di accontentare tutte le minoranze e categorie di possibili fruitori, per evitare di sollevare polveroni e vedere il duro lavoro di una vita sbeffeggiato e mortificato da leoni da tastiera sempre pronti a scovare la polemica anche laddove non esiste.
E purtroppo, questi leoni si sono riprodotti a ritmo esponenziale.
Da piccolo, avrei pagato l’oro che non avevo per poter vivere in un mondo traboccante di contenuti di intrattenimento come lo è quello odierno. Con tutto quel tempo libero poi!
Eravamo agli albori dell’era digitale, ancora le notizie dovevamo leggerle sulle riviste e la sera si guardava quello che veniva trasmesso in TV. C’era X-Files su Italia 1 il sabato sera? Bene, si guardava quello. L’alternativa era il Bagaglino. L’uscita di un videogioco non veniva pubblicizzata sulle principali reti televisive come accade con un God of War; ci toccava leggerla su TGM (The Games Machines), un piccolo articolo, magari un paio di immagini di gameplay. Nulla in confronto ad oggi. Eppure avevamo tutto quello che serviva. Non esisteva lamentarsi, quello che usciva era oro colato, una benedizione.
Oggi assistiamo ad un alluvione di contenuti. Un fiume in piena, è impossibile avere la reale percezione di tutto quello che abbiamo a portata di mano. Piattaforme streaming stracolme di serie, film, documentari, store digitali pieni di videogiochi, da giocare ovunque, sul divano piuttosto che sul tram.
Sono convinto che se anche avessi tutta la giornata a disposizione, non riuscirei comunque a vedere e giocare a tutto quello che c’è sul mercato. E poi, se anche quel tempo lo avessi, non mi sognerei mai di farlo. Ho i miei gusti, scelgo con cura come dedicare il mio tempo libero. Non sono proprio il tipo da abbuffate, da binge-watching tanto per intenderci, solo per poi correre a vomitare le mie opinioni in rete. Per stare sempre sul pezzo, aggiornato sulla serie del momento.
Eppure, evidentemente, c’è chi lo fa. E tra questi, i paladini del politically correct sono sempre all’erta, pronti a stroncare ogni contenuto al minimo segnale di non inclusività globale, a mediocrizzare qualsiasi prodotto provi solo ad accennare un messaggio che non sia buonista a tutto tondo.
E stanno sempre sul pezzo. Guardano tutto, giocano a tutto, commentano tutto. E denigrano tutto.
Viviamo ormai in una quotidianità nella quale se un cast di protagonisti non è perfettamente multietnico – anche laddove non ha alcun senso – si storce il naso. E se provi a cavalcare animali in un videogioco, sei una brutta persona. Ogni messaggio potenzialmente lesivo nei confronti di qualcosa o qualcuno rende l’opera in oggetto non meritevole di essere presa in considerazione e l’autore una persona retrograda e ottusa, sulla quale riversare insulti o peggio.
Non so dove davvero dove stiamo andando, ma la via intrapresa non mi piace per nulla.
A questo punto, probabilmente, vi starete chiedendo cosa c’entra il titolo dell’articolo. Poco, in effetti. Concedetemi tuttavia un breve spunto di riflessione.
La sospensione dell’incredulità – cito testualmente Wikipedia – “è un particolare carattere semiotico che consiste nella volontà, da parte del lettore o dello spettatore, di accettare che nelle opere di fantasia sia possibile ciò che non si riuscirebbe normalmente a fare.”
È, di fatto, il fondamento necessario per la fruizione di ogni storia. Una sorta di patto tra l’autore e l’utente con il quale quest’ultimo accetta di credere alla storia raccontata, pur sapendo che non è reale.
La parola più importante della descrizione è senza dubbio la volontà. È la volontà del fruitore del contenuto che fa tutta la differenza del mondo: accettare che la cosa che sto guardando è possibile, pur sapendo che non lo sia. Ed è possibile perché sto godendo di un contenuto di intrattenimento che ho scelto consapevolmente di guardare o giocare. Perché mi piace quel contenuto. E mi piace pensare che da qualche parte anche l’impossibile sia possibile.
Ma la volontà di accettare l’inganno va di pari passo con l’intelligenza di comprendere che l’inganno è parte del racconto. E, come tale, lì si ferma. Qui sta l’altra grande presa di coscienza.
L’intelligenza è il secondo pilastro fondante nella fruizione di un contenuto d’intrattenimento. È l’intelligenza dello spettatore (o del videogiocatore) a riportarlo dal lato giusto della parete. La quarta parete, il “muro immaginario” che ci separa dallo spettacolo al qual stiamo assistendo, che ci ricorda la distinzione tra cosa è reale e cosa non lo sia.
A questo punto, estendiamo il concetto di sospensione dell’incredulità ad ogni tipo racconto. Non soltanto ai alle opere di fantasia, mondi con regole proprie che vanno accettate. Estendiamo il concetto di sospensione ad ogni tipo narrazione, anche a quelle calate nella realtà quotidiana, storie che sembrano reali ma non lo sono, al più ispirate a fatti reali ma reinterpretate dal punto di vista personale dell’autore.
Ogni prodotto d’intrattenimento audiovisivo – al netto dei documentari e delle produzioni con su scritto “tratto da una storia vera”, dove spesso avrei qualcosa da ridire… – ci racconta una storia inventata. Questo vuol dire che qualcuno, da qualche parte, si è preso la briga di lasciarsi ispirare e di riversare la sua idea in un racconto. Con elementi più o meno realistici, ma pur sempre frutto della fantasia, di una reinterpretazione personale. Quella che ne viene fuori può piacerci o meno, può essere violenta o con gli angoli smussati, può farsi piacere da tutti o discriminare qualcuno. Ma resta pur sempre una storia.
La volontà di accettare gli elementi e le regole della storia, unita all’intelligenza di discernere la storia dalla realtà sono passi fondamentali, ma evidentemente difficili da compiere al giorno d’oggi. Ed ecco quindi che ogni prodotto d’intrattenimento diventa motivo di litigio, di accuse, di polemica. Si cerca sempre la discriminazione, si polemizza sulla scrittura, non si accettano i finali o il punto di vista dell’autore. Vittime e carnefici, ovunque.
Ci si arroga il diritto, quali spettatori paganti, di criticare le opere e i suoi creatori. Si arriva a firmare petizioni per boicottare un’opera, addirittura cancellarla. E qui voglio essere proprio chiaro: questo diritto noi utenti non ce lo abbiamo.
Paghiamo per i contenuti, è vero, ma questo non ci da il diritto di distruggere la passione che il creatore ha riversato sulla sua opera, solo perché non tratta una tematica come piace a me. Basta cercare sempre i colpevoli e le vittime delle storie nel mondo reale. E se anche l’idea di base di un racconto è agli antipodi del nostro pensiero, è nostro dovere comunque rispettarla. Guai a criticare una storia solo perché nel mondo della storia non sono tutti buoni e felici, o viceversa. È così che è nata, è così che l’ha pensata il suo autore ed è così che va fruita. Nel bene e nel male.
Non avremo un mondo migliore solo perché in TV scorrono arcobaleni. Senza la volontà e l’intelligenza di chi li osserva anche gli arcobaleni possono essere confusi.
La libertà creativa va difesa, sempre, e l’opinione di un contenuto d’intrattenimento, cinematografico seriale o videoludico che sia, non fa eccezione.
Diamoci una calmata, per cortesia. E torniamo a stupirci come un tempo.
Perché alle volte, una storia raccontata è solo una storia raccontata.
Vi diranno che non è un film da Oscar. Vi diranno che trattasi del semplice remake di un filmetto francese di qualche anno fa, di quelli che ce se ne dimentica quasi subito dopo i titoli di coda. Vi diranno che c’era di meglio. Senza dubbio è così, o meglio è anche così, perché in cambio di due ore scarse di visione è tanto quello che resta dentro. Coda – I segni del cuore vince la 94esima edizione degli Academy Awards come Miglior Film meritandoselo appieno, eccome; a dimostrazione che si può avere successo anche senza grandi pretese o budget illimitati, si può arrivare al pubblico raccontando una storia semplice. L’importante è farlo bene.
Perché sì, al netto dell’originalità di base, la storia raccontata da Siân Heder è semplice: Ruby (Emilia Jones), una ragazza di diciassette anni – una piccola donna per la sua età – è l’unica persona udente all’interno della sua famiglia. Anche per questo, ogni giorno, prima di entrare a scuola, la ragazza aiuta i genitori (Marlee Matlin e Troy Kotsur) e il fratello (Daniel Durant) nell’attività ittica di famiglia, sullo sfondo della cittadina costiera di Gloucester.
Tuttavia quando Ruby decide di entrare nel coro della scuola, la sua vita comincia a cambiare in modo lento e inesorabile. Questo perché la ragazza ha il dono di una voce incredibile, ben presto realizza che la sua passione per il canto può essere un’alternativa e dovrà decidere se inseguire il suo sogno o restare con la famiglia, che sembra avere un disperato bisogno di lei.
Partirò subito col dire– me lo sono chiesto pure io – che CODA è l’acronimo di “Child of Deaf Adults” ovvero di bambino in un gruppo familiare di non udenti. Una tematica complessa trattata in modo semplice eppure mai superficiale, una narrazione che scorre via delicata, cosa tutt’altro che banale. Tutte le difficoltà di una famiglia disagiata – in realtà molto più normale e unita di altre solo all’apparenza perfette – raccontate con una naturalezza disarmante; c’è la sofferenza quotidiana nell’affrontare anche le più piccole sfide, le incomprensioni sovrastate sempre dall’affetto che tiene uniti, le piccole gioie e sì, anche l’emarginazione, ma sentita molto più all’interno del nucleo familiare che proveniente dal mondo esterno. Col passare dei minuti e e lo scorrere degli eventi le barriere inesorabilmente crollano, le distanze si accorciano e si scopre una comunità molto più accogliente di quanto la pellicola facesse intendere all’inizio. Perché i pregiudizi fanno del male soprattutto a chi li porta, ed è bellissimo come questo film ce lo palesi così serenamente, senza sermoni o lezioni di vita.
Lezioni – di recitazione – quelle sì che ce ne sono, offerte da un cast composto da attori realmente sordomuti, che di fatto stanno più raccontando sé stessi che recitando, e ben venga anche la statuetta al miglior attore non protagonista per Troy Kotsur. E poi c’è lei, Emilia Jones. Un’interpretazione magistrale nella sua semplicità, e scusate se mi ripeto di continuo, ma c’è del talento nel raccontare certe problematiche con delicatezza, con toni semplici ma mai banali, a tratti con ironia senza mai oltrepassare il confine. È un film che mette di buon umore, trasuda serenità e tira fuori il meglio di noi stessi da ogni fotogramma.
Semplicità. L’adolescenza, i conflitti familiari, il primo amore, le passioni e i sogni che si scontrano con la realtà, la vita che bussa alla porta e presenta sempre il conto. Una, mille, milioni di storie di vita riassunte in quella di Ruby, e un solo modo di affrontarla: con semplicità. Perché alla fine tutto si sistema, e non necessariamente con il lieto fine delle favole, bastano piccoli cambiamenti, il motore che spinge in avanti le nostre vite, verso nuove sfide, conquiste e, perché no, fallimenti. L’importante è affrontare sempre tutto con cuore e bontà d’animo.
Restando in tema di interpretazioni, come dimenticare Bernardo Villalobos (Eugenio Derbez). L’insegnante di canto che per primo intravede le potenzialità canore di Ruby, il primo a mostrarle che c’è di più oltre la soglia di casa. Con professionalità, certo, e semplicità – ovviamente – ma senza mai essere invadente, con rispetto. Altro grande valore, mai pronunciato, ma di cui la pellicola ne è intrisa.
C’è una scena, una delle prime lezioni con il coro, nella quale per tirare fuori la “vera” voce di Ruby, la spinge a “scrollarsi” come un cagnolino; accortosi dell’imbarazzo di lei, coinvolge tutta la classe nell’imitare lo stesso movimento.
Una scena divertente, non c’è che dire, comica a dirla tutta, ma in cui c’è gran parte dell’essenza del racconto: raggiungere un’obiettivo insieme, divertendosi.
Nulla di più semplice.
Ho avuto il piacere di vedere il film il giorno dopo gli Academy Awards, sapendo già della vittoria. E mentre lo guardavo, piacevolmente rilassato, comunque una domanda iniziava a rimbalzarmi in testa: ma cosa ha davvero questo film per meritarsi la statuetta come IL MIGLIORE? Certamente non ho il privilegio di sapere cosa abbia spinto la giuria verso un tale verdetto, ma posso senz’altro condividere con voi il momento esatto in cui io, nei miei umili panni, avrei potuto maturare una tale decisione.
C’è una sequenza, nella seconda metà inoltrata, in cui tutto è dannatamente perfetto. Sono tutti lì, l’atmosfera è rilassata, lei sta cantando ed ecco che, dal nulla, senti crescerti qualcosa dentro. È stramaledettamente bella quella scena. Vorrei rivedere il film propio in questo momento, da capo, solo per arrivare lì, dove tutta la pellicola converge e prendi veramente coscienza di cosa stai guardando. Vieni scaraventato dentro il film e nella vita dei protagonisti, o forse sono loro che entrano a gamba tesa dentro la tua. Il resto non conta più nulla. Hai capito, e non ti serve sapere altro.
Ed è a questo punto che il racconto spinge sull’acceleratore. Non perché si conclude in fretta, sia chiaro, ma perché la cortina tra noi e i protagonisti si è ormai squarciata e l’escalation di emozioni ci porta a godere delle sequenze finali così ben confezionate che poco ci importa ormai se il lieto fine arrivi davvero oppure no. Siamo in pace con noi stessi e con il mondo. Il resto non conta.
Tra qualche anno, probabilmente, questo film sarà poco più che una lontana rimembranza. A ricordarci la notte degli Oscar 2022 probabilmente rimarrà il grande colossal Dune con le sue 6 statuette, di sicuro la performance di Will Smith. Ma sfido chiunque abbia visto Coda – I segni del cuore e non sia completamente arido dentro a non sorridere ed emozionarsi ripensando alla sequenza di belle immagini che ci regala questa pellicola, così potente nella sua silenziosa semplicità.
È un film di poche parole, e in fondo non c’è bisogno di tante parole quando tutto è in armonia.
“Forse moriremo, ma almeno lo faremo da uomini liberi“
Tutta l’essenza del racconto racchiusa in una frase semplice quanto potente.
Peter Weir ci regala un film d’altri tempi, ci prende per mano e ci accompagna in un viaggio memorabile, il dramma di un gruppo di persone in fuga da un gulag siberiano, sullo sfondo del secondo conflitto mondiale, un cammino che diventa rinascita e riscoperta di sé stessi.
La via intrapresa e le traversie personali, i pregiudizi e gli obiettivi comuni, tutto si intreccia e ammalia lo spettatore, tanto è profonda l’alchimia che si instaura a schermo da farci sentire protagonisti del viaggio.
La crudele bellezza dei paesaggi attraversati, dalle gelide vette del Tibet alle lande desolate del Gobi, fino alle rigogliose vallate dell’India, è cornice silenziosa di una narrazione curata, mai invadente, dal ritmo lento ma inesorabile.
Un viaggio silenzioso e struggente. Raramente una pellicola riesce a trasmettere nitida la sofferenza di un cammino incerto, la fatica fisica che riflette il dramma interiore, ogni passo è un pugno allo stomaco dello spettatore, appeso alla stessa flebile speranza di libertà che muove sommessamente la compagnia in fuga.
E bastano semplici parole dosate a fiato corto, gesti e sguardi impercettibili quanto potenti, per instaurare rapporti che vanno ben oltre la semplice solidarietà nel condividere assieme la via; legami tra fuggiaschi che diventano storie di vita vissuta, sconosciuti in grado di squarciare il velo dell’animo altrui e comprendersi, tanto non basterebbe un’intera esistenza per leggersi così nel profondo.
Una pellicola di rara bellezza che lascia un segno indelebile, in un cinema sempre più avvezzo agli artefatti digitali, una storia che rimette al centro della scena la fragilità dell’esistenza, il coraggio, e la solennità di una natura teatro indifferente delle sorti umane.
Un inno alla vita e alla libertà, un epico e commovente viaggio di ritorno a casa.
Amo Quentin Tarantino. Il suo cinema, si intenda. E adoro i suoi film.
Me ne sono innamorato ancora giovanissimo un giorno a scuola quando, durante i giorni dell’occupazione – un classico di fine novembre – gli studenti più grandi, in quella che ribattezzarono “l’aula cinema”, mi mostrarono per la prima volta Le Iene. Al tempo non conoscevo ancora Tarantino, né avevo idea di cosa aspettarmi da quel film.
Rimasi estasiato. Furono sufficienti i primi dieci minuti per realizzare che avrei adorato quello stile di cinema, nulla era ancora accaduto a schermo, la trama neppure accennata eppure ero già coinvolto nell’intera vicenda. L’oggetto della discussione, tra quelli che presumevo fossero i protagonisti, era il significato di “Like a Virgin“ di Madonna, nulla a che fare con il plot narrativo del film. Il linguaggio diretto e ironico, la costruzione spontanea dei personaggi, i dialoghi che si prendono la scena, sostituiscono l’azione e sono il pilastro attorno al quale si sviluppa l’intera vicenda. Fu come un’illuminazione.
Bastarono quei primi dieci minuti per cambiare la mia visione del cinema. E bastano quei primi dieci minuti per spiegare a chiunque l’essenza di quello che, di lì a poco, sarebbe diventato il cinema “tarantiniano”.
1992. Le Iene
“Fate Mezzogiorno di fuoco in una gioielleria e vi sorprendete perché arrivano gli sbirri?”
Eddie
Le Iene racconta di una rapina andata male; una rapina che non viene mai mostrata a schermo, eppure lo spettatore è come se ne avesse preso parte. La lenta ricostruzione dei fatti è affidata unicamente ai dialoghi dei sei partecipanti al colpo i quali, rifugiatisi all’interno di un capannone abbandonato, iniziano a ragionare sulle cause della disfatta e a sospettare l’uno dell’altro, in una spirale di delirio che conduce inesorabilmente la banda all’autodistruzione.
Dialoghi taglienti e ironici, diretti, pieni di digressioni apparentemente senza senso, semplicemente geniali nella scrittura. Tanti dialoghi, e tanta, tanta violenza. Forse anche troppa. Perché il cinema di Tarantino è anche questo. Una celebrazione della violenza che diventa “arte” tra le mani del regista, le scene più crude oggi sono sequenze emblematiche, fanno parte dell’immaginario collettivo, al punto che la grottesca ironia intrinseca nelle stesse supera il concetto di brutalità e ferocia che esse palesano.
In questo senso, una delle sequenze più celebri del film, la scena della tortura messa in atto da Mr. Blonde (Michael Madsen) ai danni di uno sventurato poliziotto, sulle note di “Stuck in the Middle with You”, è l’esempio perfetto che sintetizza il paradosso della violenza tarantiniana: una scena che lo stesso attore, appena divenuto padre, si rifiutò più volte di girare, che addirittura fece abbandonare la sala a Wes Craven durante una delle prime proiezioni, è oggi una delle sequenze più iconiche e riconoscibili del cinema moderno, fonte di citazioni più disparate e meritevole di action figure dedicate.
Le Iene oggi è considerato un cult, l’inizio di una lunga carriera dietro la macchina da presa che ha cambiato per sempre la storia del cinema. Ma l’accoglienza del pubblico non fu così calorosa: si parlò di violenza gratuita ed eccessiva, ci fu anche chi accusò Tarantino di plagio; certamente non si può dire che il film passò inosservato. Fu evidente come quel genere di cinema necessitava di tempo per essere metabolizzato dalla massa, come puntualmente colto dalla critica:
“Non penso che il pubblico fosse pronto. Non sapevano cosa fare con Le Iene. Fu come il primo film muto, quando la gente vide il treno che arrivava verso la telecamera e uscì dalla sala di proiezione.”
Jami Bernard, New York Daily News
Selaprima opera del regista di Knoxville si può etichettare come qualcosa di inaspettato e rivoluzionario, è con la seconda, nel 1994, che arriva la prima, vera consacrazione.
1994. Pulp Fiction
“Il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi. Benedetto sia colui che nel nome della carità e della buona volontà conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre; perché egli è in verità il pastore di suo fratello e il ricercatore dei figli smarriti. E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare ed infine a distruggere i miei fratelli. E tu saprai che il mio nome è quello del Signore quando farò calare la mia vendetta sopra di te.”
Ezechiele 25,17
Chi ama il cinema di Tarantino probabilmente conosce questi versi a memoria; sfido chiunque abbia visto il film la prima volta ad ammettere di non essere corso a procurarsi una Bibbia per ritrovare il passo in questione – in realtà fittizio – nel libro di Ezechiele; oggi basta digitare il nome del profeta su Google che subito appare il celebre versetto, e penso questo sia sufficiente a dare l’idea dell’impatto che avuto il cinema di Tarantino sulla nostra cultura di massa.
Il versetto, qui recitato da un Samuel L. Jackson in stato di grazia, diventa la classica frase ad effetto da elargire prima di un’esecuzione a sangue freddo. Perché questo è quello che fanno i gangster nella Los Angeles di Tarantino, la giornata tipica di Jules Winnfield, appunto Jackson, e Vincent Vega, nel ruolo che vale la rinascita per John Travolta. L’intero film vanta un cast incredibile: da Bruce Willis nei panni del pugile Butch, ad Harvey Keitel, l’indimenticabile Mr. Wolf che “risolve problemi”, fino ad arrivare ad una giovanissima, e sorprendente, Uma Thurman, il cui volto divenne di fatto il simbolo di Pulp Fiction; la sua posa sul letto con la sigaretta tra le dita, la pistola e la rivista pulp accanto, è senza ombra di dubbio una delle locandine più iconiche della storia del cinema.
Pulp Fiction è un mosaico di sequenze memorabili, in cui interi dialoghi sono costruiti su fatti o eventi mai portati a schermo – come dimenticare in tal senso il celebre “massaggio ai piedi” – ma necessari a introdurre i diversi personaggi in scena e che fungono da collante tra i vari capitoli. Un nuovo modo di fare cinema, in cui scambi di battute taglienti ed ironiche si alternano ad una violenza gratuita, trattata il più delle volte con leggerezza, una sorta di umorismo nero che pervade le sue pellicole ed è tratto tipico dei suoi protagonisti.
Il citazionismo tanto amato da Tarantino, e che permea indistintamente tutte le sue opere, trova in Pulp Fiction la sua massima espressione nella “misteriosa valigetta” dal contenuto luminoso, trasportata a destra e manca dal povero Vincent Vega; come non tirare in ballo il geniale MacGuffin di Alfred Hitchcock, termine coniato dallo stesso regista per indicare un elemento scenico di importanza cruciale per i protagonisti, in realtà privo di un vero significato per lo spettatore, ma unicamente un espediente narrativo per mettere in moto gli eventi che seguono.
Eventi che sono messi in scena con abile “disordine” dal parte del genio di Knoxville. Storie di gangster, di un pugile e della moglie del boss si intrecciano sullo sfondo di una Los Angeles quotidiana, raccontata attraverso scorci urbani semplici, in cui tuttavia emerge l’amore di Tarantino nei confronti della città, un amore che esploderà con forza più avanti, nella sua più recente e ultima opera.
Non tutti sanno che Pulp Fiction doveva inizialmente nascere come il primo di un serie di cortometraggi incentrati sul mondo del crimine; l’idea di Tarantino era quella di partire da situazioni “classiche” per poi inserire qualche imprevisto che facesse precipitare la situazione. E se le situazioni raccontate sono piuttosto “semplici”, la vera grandezza del film sta nella particolare narrazione degli eventi. Con Pulp Fiction nasce di fatto la celebre “scomposizione cronologica” degli accadimenti, marchio di fabbrica delle produzioni di Tarantino: sequenze appartenenti a momenti temporali diversi vengono collocate in una forma apparentemente lineare; si viene pertanto a creare una narrazione circolare ed irregolare, in cui il quadro d’insieme si può avere solamente raggiunti i titoli di coda.
Al netto di qualche critica iniziale, Pulp Fiction è stato un successo di pubblico e riconoscimenti, a partire dalla Palma d’Oro al Festival di Cannes e l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale, e continua ancora oggi ad essere riconosciuto come uno dei più grandi capolavori della storia della cinematografia mondiale.
1997. Jackie Brown
Se con i primi due film la strada sembra tracciata, con il terzo Tarantino cambia decisamente rotta.
“Se oggi come oggi, senza un’occupazione, avessi la possibilità di scappare con mezzo milione di dollari, l’afferreresti?”
Ordell
Jackie Brown è un film abbastanza diverso dai suoi predecessori, in un certo senso forse il film meno “tarantiniano” dell’intera filmografia del regista di Knoxville. Un film quasi privo di quella violenza gratuita vista nei primi due, Jackie Brown è ispirato al romanzo “Punch al Rum” di Elmore Leonard, che inevitabilmente ha finito per ispirare Tarantino nella costruzione dei personaggi e del plot narrativo, dai tempi decisamente più dilatati.
Nel film, Jackie Brown è una hostess di volo che contrabbanda denaro per un mercante d’armi; scoperta e arrestata, si trova di fronte al classico dilemma “da che parte stare”, in una situazione destinata ben presto a degenerare. Il racconto, a differenza di Pulp Fiction, è pressoché lineare, dai toni e dalle situazioni più “realistiche”, con la violenza messa in disparte a favore di una narrazione più calma, in cui non mancano comunque una buona dose di suspense e un finale decisamente movimentato.
È forse il film meno personale del regista, anche perché l’unico dalla sceneggiatura non originale, una pellicola nella quale Tarantino è costretto a limitare gli eccessi e la sfrontatezza dei predecessori, abbracciando toni più delicati, quasi intimi. Non ci sono dialoghi surreali e situazioni borderline destinate a diventare cult, il film è un esercizio di stile confezionato a regola d’arte. E con ottime prove di recitazione, su tutte quella dell’interprete di Jackie Brown, Pam Grier. Tarantino, al netto delle critiche misogine che gli vengono da sempre addossate, dimostra grande bravura nella costruzione dei suo personaggi femminili, sulla scia di Pulp Fiction con Uma Thurman, e in preparazione di quello che sarebbe stato di lì a poco il suo nuovo capolavoro.
Al netto dell’ormai ingombrante nome che porta alla voce regia e il carico di aspettative che inevitabilmente ne consegue, Jackie Brown è un film godibile, dall’inizio ai titoli di coda, a detta di Samuel L. Jackson, addirittura “il miglior film di Tarantino”. Un progetto che mette in luce una discreta maturità raggiunta da Quentin Tarantino e la capacità di saper abbracciare anche uno stile diverso dal suo. Anche se forse, proprio per il fatto che la vera impronta del regista non riesce quasi mai ad emergere, rimane la sua pellicola più “fredda” in termini di accoglienza e di impatto.
2003-2004. Kill Bill Volume 1 e 2
Se con Pulp Fiction è arrivata la consacrazione a livello internazionale, con i due volumi di Kill Bill Tarantino entra di diritto nella leggenda del cinema. Kill Bill è il trionfo dell’azione, un contenitore di generi e stili diversi con cui il regista di Knoxville si esalta e dà libero sfogo al suo cinema esagerato e citazionista.
Kill Bill è un film che ha spaccato la critica, chi lo ha amato alla follia – come il sottoscritto – chi lo ha criticato aspramente per la sua “confusione” di generi; in realtà, l’apparente mix di stili e situazioni al limite di cui il film è strabordante mostra tutta la lucidità di Tarantino, le cui idee sono ben chiare dal primo all’ultimo ciak. Una dimostrazione senza eguali di potenza comunicativa al suo livello più alto, in cui lo stile adottato in ciascuna scena, che sia d’animazione o in bianco e nero, è il veicolo perfetto per punzecchiare le giuste corde dello spettatore.
Una storia di vendetta, quella che porta Beatrix, ieri celebre assassina soprannominata Black Mamba, oggi ragazza incinta e promessa sposa, ritiratasi ormai dalla professione, a ricercare uno dopo l’altro i suoi sicari, guidati da Bill, in una spirale di violenza e situazioni al limite dell’assurdo.
Kill Bill è un film cucito sulla pelle di Uma Thurman, come ha affermato lo stesso Tarantino; un’idea nata ai tempi di Pulp Fiction, poi ripresa in mano anni dopo, quasi un regalo di compleanno per i 30 anni dell’attrice. E di fatto Uma Thurman è semplicemente perfetta nel ruolo di Beatrix Kiddo, come dimostrato dalla sua totale dedizione al ruolo; nonostante fosse diventata recentemente madre e fosse in piena fase di allattamento durante le riprese, la Thurman ha dedicato mesi alla comprensione delle tecniche della spada e all’addestramento, avvalendosi di veri maestri dello stile orientale. Non solo Beatrix, ma l’intero cast ha dedicato ore alla preparazione fisica delle scene di combattimento, con risultati grandiosi: nella loro esagerazione, le scene di combattimento restituiscono paradossalmente una credibilità unica, merito anche di una regia impeccabile.
L’azione è il vero cuore pulsante di Kill Bill, questa ricerca spasmodica della vendetta che funge da motore per l’introduzione dei vari personaggi antagonisti di Beatrix, ognuno con la sua caratterizzazione unica; se il primo volume è un chiaro omaggio alla cultura orientale, con il secondo si vira decisamente verso il genere western, con l’introduzione della figura di Bill, interpretato da un grande David Carradine, solo citato nel primo volume, nel secondo si prende la scena da antagonista principale ed elargitore di perle indimenticabili.
“Mi trovi sadico? Sai bimba, mi piace pensare che tu sia abbastanza lucida persino ora da sapere che non c’è nulla di sadico nelle mie azioni. In questo momento sono proprio io, all’apice del mio masochismo”
Bill
Torna la scomposizione temporale della storia, raccontata con capitoli quasi mai temporalmente lineari, celebre al riguardo il capitolo che racconta il durissimo addestramento affrontato anni addietro da Beatrix con il maestro Pai Mei, e la sua ricerca di Hattori Hanzo, leggendario armaiolo giapponese creatore delle spade più affilate del mondo; capitolo che, oltre ad essere di fatto la trasposizione scenica del “vero” addestramento affrontato da Uma Thurman sul set, rappresenta un esempio di indiscutibile maestria nella regia e nella recitazione.
Kill Bill è film esagerato e violento, a tratti insostenibile, ma è il tripudio dell’essenza tarantiniana all’ennesima potenza; un film da vedere, un esempio unico e autentico di ricchezza cinematografica e libertà espressiva dietro la macchina da presa.
2007. Grindhouse – A Prova di Morte
Nelle intenzioni, Grindhouse doveva essere un’unico progetto condiviso da Tarantino con l’amico regista Robert Rodriguez. A seguito del flop ottenuto ai botteghini americani, la pellicola venne spezzata nei due episodi, uscendo nel resto del mondo come due film separati: A prova di Morte, scritto e diretto da Quentin Tarantino, e Planet Terror, uno splatter fuori di testa a tema zombie firmato Robert Rodriguez.
“La gente non aveva capito nulla. Non avevano la minima dea di cosa ca**o stessero guardando. Quello che stavamo facendo non aveva alcun senso per loro.”
Quentin Tarantino
Il progetto originario era un chiaro omaggio alle Grindhouse, sale cinematografiche tipiche delle metropoli americane degli anni ’70, in cui i vagabondi trovavano ricovero e dove venivano proiettate vere e proprie maratone di b-movie caratterizzati da una profonda impronta violenta e dai contenuti esplicitamente sessuali, il cinema “d’exploitation”.
Grindhouse: A Prova di Morte è una pellicola a sua volta divisa in due parti, il cui collante è Stuntman Mike, il protagonista/antagonista della vicenda, nonché chiaro omaggio alla passione che da sempre lega Tarantino al mondo degli acrobati spericolati del cinema. Interpretato da un perfetto Kurt Russell, A Prova di Morte è la storia di uno stuntman in pensione che prova eccitazione a terrorizzare e uccidere giovani ragazze a bordo della sua macchina, appunto, a “prova di morte”. Lo stacco tra le due parti è ben visibile anche dallo stile registico adottato: colori sbiaditi nella prima parte, inquadrature lasciate al caso, stacchi improvvisi nel montaggio tipici delle vecchie pellicole rovinate; il regista sembra scherzare con lo spettatore, omaggiando al contempo le pellicole degli anni ’70. Introdotti tutti gli elementi e personaggi a schermo, il turbine di delirio e violenza ha inizio, ma presto si interrompe. Il film “ricomincia”, una seconda parte dai colori più accesi e con nuove protagoniste, fino al finale non ti aspetti. Una pellicola che ripropone la vendetta al femminile sul filone di Kill Bill, condita dal “chiacchiericcio” iconico tra le protagoniste, a cui si contrappone la perversione maschile, identificata nel voyeurismo sadico del “cattivo” e nei contenuti esplicitamente feticisti, già emersi sottovoce in Pulp Fiction nel tema del famoso “massaggio ai piedi”, qui manifestati apertamente.
Film d’azione, dai toni splatter, dominato tuttavia per larghi tratti da interminabili dialoghi, di solito inconcludenti, tra le protagoniste della vicenda. Non che questo sia una novità per le pellicole del regista, ma i dialoghi stavolta sembrano un po’ meno ispirati del solito, da soli non riescono a sorreggere il peso della sceneggiatura e catturare lo spettatore, come accade in Pulp Fiction o ne Le Iene. La divisione in due del progetto iniziale ha inevitabilmente influito sul ritmo della pellicola di Tarantino, che soffre di qualche momento di stallo, al netto comunque di sequenze riuscite e iconiche, su tutte l’improvvisata lap dance di “Butterfly” Arlene all’interno del Texas Chili Parlor.
Grindhouse: A Prova di Morte è a conti fatti un buon film, ma forse il “più debole” del regista di Knoxville, quello di cui lo stesso Tarantino va meno fiero, come ha recentemente dichiarato. Unica pellicola della sua filmografia a non ottenere alcuna candidatura agli oscar.
2009. Bastardi senza gloria
Il rilancio di Tarantino passa dalla Storia, o meglio, dalla “sua” Storia riveduta e corretta. Dopo aver scardinato le regole del cinema e dei suoi generi, il regista di Knoxville decide che è arrivato il momento di reinterpretare anche gli eventi storici, e lo fa prendendo in esame il tema più delicato e forte al tempo stesso del secolo scorso.
I Bastardi senza gloria (“The Inglorius Basterds” nella lingua originale, reinterpretazione tarantiniana di “The Inglorius Bastards” film di Enzo G. Castellari del 1977) sono una squadra speciale di soldati ebrei, guidati dal tenente Aldo Raine di un immenso Brad Pitt, con un unico scopo: sterminare i nazisti e la loro leadership.
Nomi e situazioni di fantasia sullo sfondo della vera occupazione europea da parte dei nazisti, con Bastardi senza gloria Tarantino ripropone il suo classico schema a blocchi, con capitoli dedicati a linee narrative diverse nel tempo e nello spazio, destinate a convergere in un unico, trionfale, irriverente, “tarantiniano” finale.
“Combattere in uno scantinato presenta numerosi inconvenienti, primo fra i quali combattere in uno scantinato“
Aldo Raine
Così mette in guardia con la sua esclusiva ironia Aldo Raine, prima che a schermo si manifesti una delle scene più memorabili del film. La sequenza dello scantinato è pressoché perfetta, sulla carta e nei fatti, e rappresenta di fatto la sintesi del modo di scrivere e fare cinema del regista. Una chiave di lettura esemplare per comprenderlo, perché racchiude un pò tutto il suo stile. È forse la sua scena perfetta.
Ma il film è un concentrato di sequenze e indimenticabili, e prove attoriali memorabili. Come quella regalata da uno straordinario e, al tempo, semi-sconosciuto Christopher Waltz nei panni del colonnello nazista Hans Landa; nel film Waltz recita in ben quattro lingue, compreso l’italiano nella scena cult con Brad Pitt che scimmiotta il Padrino, un’interpretazione che gli vale fama internazionale, Oscar e Golden Globe come miglior attore non protagonista, e un ruolo da “intoccabile” nella successiva pellicola del regista.
Non certo il film perfetto, ma di certo il più audace, Bastardi senza gloria è la pellicola con la quale Tarantino celebra la potenza del cinema, del suo cinema, in grado di cambiare persino il corso della storia, tema che trova il suo compimento nella scena finale, non a caso ambientata all’interno di un cinema.
Con un successo incredibile al botteghino, ad oggi, Bastardi senza gloria è il secondo film di Tarantino per incassi; e indovinare quale sia il primo non è poi così difficile.
2012. Django Unchained
“Signori, avevate la mia curiosità, ora avete la mia attenzione”
Calvin Candie
Sono costretto a mettere le mani avanti. Nella mia personalissima classifica dei film di Quentin Tarantino, Django Unchained occupa, senza alcuna discussione, il primo posto. Detto questo, chi continuerà nella lettura potrà comprendere il trasporto emotivo con il quale ne parlerò.
Django Unchained arriva nel momento di massima maturità del regista, l’esperienza, la conoscenza profonda dei suoi attori, i tentativi riusciti e quelli “meno” messi in pratica in passato, tutto converge e si condensa in una pellicola, che trasuda stile e passione da ogni singolo fotogramma.
Il film è un atto d’amore di Tarantino verso il cinema western, in particolare quello italiano, verso cui il regista non ha mai nascosto ammirazione, e la sua riproposizione del Django di Sergio Corbucci con protagonista Franco Nero, che compare come cameo nel film, ne è la prova definitiva. Django, schiavo nero interpretato da Jamie Foxx, viene liberato dal cacciatore di taglie King Schultz (ChristopherWaltz) e si unisce a lui in un viaggio di vendetta alla ricerca della moglie, anch’essa resa schiava. Un western nei titoli, di fatto un film che vira ben presto su toni razziali, con il tema dello schiavismo che emerge con forza, trattato a suo modo “leggero”, talvolta autoironico, come consuetudine del regista.
La storia è piuttosto semplice, certo condita dagli immancabili momenti “tarantiniani”, ma piuttosto lineare nel suo decorso. A rendere Django Unchained un film straordinario e indimenticabile sono i suoi interpreti, gli attori del cast che sono in un autentico “stato di grazia”, ciascuno all’apice della sua verve artistica. E questa non è la classica frase ad effetto buttata là per infiocchettare un giudizio positivo; dal mio modesto e umile punto di vista, le interpretazioni di Jamie Foxx, Leonardo di Caprio, Christopher Waltz e Samuel L. Jackson sono le migliori performance della loro carriera.
Christopher Waltz, ormai a suo agio nei ruoli di co-protagonista, ottiene la sua seconda statuetta per un’interpretazione clamorosa, ormai i suoi personaggi sono la parodia stessa dei suoi personaggi, e perdonatemi il gioco di parole riuscito male. Un Jamie Foxx che sprigiona furia e azione da ogni particella del suo corpo, il ruolo di Django sembra cucitogli addosso, e come non citare la performance di Samuel L. Jackson, attore e personaggio di colore che, lavorando alla corte degli schiavisti bianchi, insulta e si fa beffe degli schiavi neri, appellandoli tali. Una prova di recitazione strepitosa, anche se a molti risultata un pò “indigesta” per i troppi appellativi razziali; per quanto mi riguarda, al netto di tutto il “politically correct” che imperversa oggi, la prova di Jackson resta encomiabile, una restituzione perfetta di un personaggio complesso, nonché rappresentazione scenica esemplare del livello di depravazione raggiunto dall’istituzione dello schiavismo. E visto che stiamo parlando di una forma d’arte, a me piace leggerla così.
L’ho lasciato volutamente per ultimo; perché se la famosa scena dello scantinato in Bastardi Senza Gloria è la scena di Tarantino, il dialogo a tavola con il teschio in mano è la scena di Leonardo di Caprio. Cosa dire di un attore che, battendo la mano sul tavolo, si ferisce realmente e inizia a sanguinare, continuando tuttavia a recitare con un enfasi mai vista, tra lo stupore degli altri attori? Niente, così come niente disse Tarantino che, continuando a filmare la scena, ha regalato al mondo del cinema una sequenza indimenticabile. Un attore straordinario, forse il più grande della nostra epoca, che incontra il registra più rivoluzionario del nostro tempo. Il resto è storia.
Con una sceneggiatura eccellente che gli vale la seconda statuetta dopo Pulp Fiction, Quentin Tarantino sposta ancora più in alto l’asticella delle sue pellicole, dimostrando di trovarsi a suo agio con un genere che gli regalerà ancora soddisfazioni nell’immediato futuro.
2015. The Hateful Eight
Come rendere interessante e carico di suspence un film di 3 ore ambientato all’interno di un emporio isolato durante una tormenta di neve? Con The Hateful Eight, Tarantino riesce a costruire una storia credibile e coinvolgente sfruttando unicamente la sua abilità universalmente riconosciuta come la migliore, ovvero la scrittura dei dialoghi tra i personaggi.
Secondo esperimento western, la vicenda di The Hateful Eight parte da una diligenza sulla strada innevata per Red Rock, al cui interno un famigerato cacciatore di taglie sta portando la sua prigioniera al patibolo, per convergere all’emporio di Minnie, luogo dove si intrecciano le storie e le intenzioni di otto variopinti personaggi, bloccati all’interno dall’infuriare di una bufera di neve, in un racconto che ben presto assume le tinte e la suspence tipica di un giallo.
Se l’azione latita per gran parte del film, il lavoro di scrittura degli otto personaggi e dei loro dialoghi è esemplare, forse il migliore dai tempi di Pulp Fiction. Lo spazio confinato è l’espediente per prendersi il tempo necessario a trattare tematiche diverse, dalla guerra d’indipendenza americana ai chiari riferimenti politici e razziali della società moderna, il tutto sullo sfondo dell’imminente rivelazione attesa dallo spettatore sulla vera identità degli ospiti dell’emporio.
L’alone di mistero attorno ai singoli personaggi non permette allo spettatore di prendere le parti di nessuno, a volte vorremo schierarci dalla parte del sospettoso John Ruth, ottimamente interpretato dal grande Kurt Russell, altre saremo rapiti dalla figura del maggiore Marquis Warren di Samuel L. Jackson (e chi altri sennò?) che prova ad ergersi a dominatore della scena, in una lenta progressione in cui è percepibile l’attesa per l’evento “scintilla”, lo spartiacque cui seguono inevitabilmente la rottura degli equilibri e il degenerare degli eventi, in una spirale di violenza di “tarantiniana memoria”. La furia della natura fuori, la furia umana dentro, la costruzione dell’epilogo porta i singoli personaggi a togliere la maschera e svelarsi per quello che sono, finendo per essere odiati tutti dallo spettatore, il quale assiste attonito allo scorrere dei titoli di coda di un film “senza eroi”.
“La mia cara vecchia Mary… questo è un bel tocco”
Chris Mannix
Come non citare le ultime parole della lettera che il Presidente Abramo Lincoln avrebbe inviato al maggiore Warren, che fa tornare alla mente la celebre “valigetta” di Pulp Fiction, un simulacro attorno al quale si sviluppa la storia, perfetto a rappresentare quel rapporto di realtà-finzione per pervade tutta la pellicola e i suoi protagonisti. L’ambiguità delle lettera e delle singole storie degli interpreti del dramma, trasforma di fatto l’emporio di Minnie in un palcoscenico, con lo spettatore quanto mai impotente e rapito di fronte all’evolversi degli eventi.
Una pellicola accolta trionfalmente da buona parte del pubblico, ma che non ha messo tutti d’accordo, soprattuto nella critica; se da una parte è innegabile la maestria di Tarantino nella sceneggiatura e nella caratterizzazione dei personaggi, tanto da meritargli la scrittura di diversi articoli accademici a riguardo, da altre parti sono giunte, puntuali, le solite critiche. Per alcuni il cinema del regista è ormai diventato uno strumento politico per manifestare il suo pensiero, da altre parti le scontate accuse di misoginia e discriminazione razziale, da altri ancora l’etichettatura di film “noioso”.
Se il film non convince tutti, su due elementi non c’è dubbio alcuno: il primo è che la pellicola è stata girata in 70 mm, mezzo scelto da Tarantino per esaltare la potenza visiva delle scene all’aperto e la profondità di quelle al chiuso; per chi ha potuto goderne al cinema, è stato uno spettacolo audiovisivo di rara bellezza. Il secondo, è la magnifica colonna sonora, composta interamente dal nostro amato e indimenticato Ennio Morricone, che gli è valsa Oscar, Golden Globe e premo BAFTA.
2019. C’era una volta a…Hollywood
Ed eccoci giunti all’ultimo film, ad oggi, scritto e diretto da Quentin Tarantino. La sua ultima opera è una dichiarazione d’amore al cinema e alla Hollywood degli anni ‘60, nonché una dedica affettuosa alla città di Los Angeles.
“In questa città può cambiare tutto all’improvviso”
Rick Dalton
Una coppia inedita per Tarantino, Leonardo di Caprio e Brad Pitt nei panni, rispettivamente, dell’attore Rick Dalton e del suo stuntman e tuttofare Cliff Booth. Siamo nella Hollywood del 1969, e la villa accanto a Dalton è stata appena acquistata dal giovane regista Roman Polanski e dalla moglie e attrice Sharon Tate. C’era una volta a Hollywood è un film nel film, un affresco della vita nella Los Angeles degli anni ‘60 vista dalle verdeggianti colline, dove essere sulla cresta dell’onda è tutto. E dove l’ombra della famiglia Manson e dei tragici eventi che stanno per colpire quella Hollywood è dietro l’angolo.
Una coppia esplosiva, complementare, perfetta; Rick Dalton e Cliff Booth sono magnetici a contendersi il ruolo di protagonista, bravi in coppia e ancora di più in solitaria, con il primo che mette in mostra tutta la sua bravura dietro la “doppia” macchina da presa, quella del film e quella dei suoi personaggi, il secondo che regala forse i momenti più esaltanti e frizzanti dell’intera pellicola.
Se il duo è perfetto, lo stesso non si può dire per la terza stella del cast, Margot Robbie, la Sharon Tate del film. Non certo per colpa sua, però; Tarantino in questi anni ci ha regalato personaggi femminili memorabili, costruiti con profondità e passione. Qui, il regista regala di fatto poco spazio all’approfondimento del personaggio di Robbie, “liquidandola” con poche battute, preferendo concentrarsi sulla celebrazione del cinema e della città.
E su questo aspetto è stato encomiabile. La fotografia è perfetta, così come i costumi, gli scenari, i dettagli; Tarantino ci porta a spasso con i suoi protagonisti per le strade della città, giocando con le inquadrature e restituendoci un suo sguardo intimo e personale della Los Angeles da lui idealizzata e sognata. E portandoci dentro il set. Per tutto il film, lo spettatore è immerso all’interno del mondo cinematografico, vive le sequenze da dietro la macchina da presa, cogliendone le emozioni e l’adrenalina delle scene, i drammi di chi percepisce il declino della sua carriera, gli aspetti più intimi degli attori e dei loro personaggi. E un Tarantino così non l’avevamo mai percepito, tanto grande è il suo amore per il cinema da volerne condividere un pò con tutti noi.
C’era una volta a…Hollywood è un film maturo, aggettivo che accostato al cinema di Tarantino forse può non sembrare un complimento. Di certo le aspettative erano altissime per questo film, sta di fatto che uscendo dalla sala si percepisce una velata, insolita sensazione di incompletezza, di rimasto tra le righe, come se tutte le idee che aveva in mente il regista non avessero trovato piena corrispondenza nella pellicola. Una strana sensazione, ma che di certo non intacca la bontà complessiva del suo nono film, forse il primo in cui Tarantino ha provato veramente a mettere in scena, prima ancora del suo stile e dei suoi stereotipi, il suo cuore.
È risaputo che l’idea di Quentin Tarantino sia quella di lasciare il cinema con il decimo film; in passato si è parlato di un terzo volume di Kill Bill, in tempi più recenti di un altro western come omaggio definitivo e ultimo al cinema di Sergio Leone; chissà cosa passi nella mente del regista di Knoxville in questo momento.
Una cosa è sicura: qualunque sia il commiato scelto da Tarantino, non passerà di certo inosservato!
“Long, long journey, through the darkness, long, long way to go…”
Enya
Un lungo viaggio attraverso le tenebre, cantava Enya in uno delle sue poesie più belle. Sarà un lungo viaggio? Spero di sì. Attraverso le tenebre? Anche no, dai..
Di certo non so cosa mi aspetti, la strada innanzi a me è ancora celata. Questa è la mia “prima volta”, la prima esperienza come blogger e, più in generale, con un sito tutto mio.
E allora perché sono qui? Beh, semplicemente perché ho deciso di condividere con voi la passione con la quale sono cresciuto, quella per il cinema e per i videogames. Desidero mettere le cose in chiaro: non sono uno scrittore, né un giornalista, sono ingegnere e nella vita faccio tutto un altro mestiere, pertanto qui non troverete recensioni professionali o critiche cinematografiche, ma semplici articoli scritti a cuore aperto.
“…Possiamo soltanto decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso…”, consigliava Gandalf il Grigio, col suo fare solenne, così nel mio piccolo, con il poco tempo libero a disposizione, proverò a portare su questo blog articoli sulle principali nuove uscite, senza dimenticare i grandi classici e le pietre miliari che hanno fatto la storia, del piccolo e grande schermo e del mondo videoludico, con approfondimenti per i titoli che meritano.
Sono dell’idea che ogni film sia come un incontro, ci lascia a suo modo qualcosa dentro, e quando lo riviviamo nella nostra mente è come un ricordo che riaffiora, con tutte le sensazioni e gli stati d’animo provati la prima volta. Quante scene ci hanno emozionato, alcune ci hanno fatto arrabbiare, altre le ricordiamo con un sorriso, o con un brivido lungo la schiena…un pò come il ricordo delle persone importanti che incontriamo nella nostra vita, di alcune non possiamo farne a meno, di altre beh…forse è meglio non vederle più.
Quanto è cambiato il cinema! Un tempo entrare in sala era quasi un rituale sacro, l’uscita di quel film tanto atteso era un gioia, si partiva con gli amici in macchina, ognuno con le sue aspettative, chi era già polemico con il casting o con quanto anticipato nel trailer, chi recitava alcune scene cult all’ingresso in sala, si rideva e scherzava seduti in poltroncina, fino allo “zitti tutti”, le luci si abbassavano e iniziava la magia. Oggi i servizi streaming ci portano il cinema e le serie TV a casa e, diciamolo, un pò di quella magia si è spenta; forse anche perché siamo cresciuti, la vita è cambiata e il tempo libero a disposizione è sempre meno, non solo quello per la visione ma anche quello per godersi l’attesa. Forse anche la qualità non è più la stessa, oggi si punta più sulla quantità e sul riciclo di vecchie idee (personalmente, odio i remake nella maniera più assoluta), ma nel mucchio non mancano comunque piccole perle, e avremo modo di parlarne in questo blog.
Allo stesso modo approcciare un videogioco è un pò come intraprendere un viaggio, lasciamo casa alle spalle, come Bilbo Baggins, e un mondo si apre intorno a noi, con le sue regole i suoi segreti, le sue avventure. Mi ritengo fortunato ad essere cresciuto a fine anni ’80, quando questa nuova, piccola, forma d’arte ha iniziato a svilupparsi e raggiungere un pubblico sempre più vasto. Dapprima nelle sale giochi, quante ore passate a giocare e quante altre ad osservare l’amico più bravo riuscire dove gli altri fallivano goffamente. Poi le prime console, il SEGA Master System, il Commodore 64 e poi via…il primo PC e la prima Playstation. Quanti ricordi!
L’evoluzione grafica, storie sempre più profonde e personaggi memorabili entrati nell’immaginario collettivo, una lunga cavalcata sino ai giorni nostri, dove l’uscita di titoli come The Last of Us o Death Stranding si ritaglia addirittura spazi nei principali quotidiani nazionali, il confine con la quarta parete è sempre più sottile e ogni giorno più persone si avvicinano a questa meravigliosa forma d’intrattenimento. E ora la next gen, chissà quali altre barriere riuscirà ad abbattere.
Quello che era uno “show di suoni e false luci elettroniche” (e non ditemi che non avete pensato ai Ghostbusters che non ci credo!), almeno penso sia quella l’impressione che avevano i nostri genitori guardandoci joypad alla mano davanti a quei vecchi cubi chiamati televisioni, è a tutti gli effetti una delle principali forme d’intrattenimento del nostro tempo e, perché no, anche veicolo di messaggi importanti con la sue potenza comunicativa senza eguali.
Ok, mi sono dilungato anche troppo, spero di non avervi annoiato, ma di aver trasmesso anche una piccola parte dello spirito che spero potrà permeare questo blog: parlare di cinema e videogiochi con passione e soprattutto senza pregiudizi, perché sono dell’idea che poter esprimere un giudizio, positivo o negativo che sia, bisogna prima provare e approfondire, e questo vale qui tra queste pagine come nella vita di tutti i giorni.
A proposito, mi chiamo Alessandro e sì, per chi se lo stia chiedendo, “The First Hunter” è un omaggio a Hidetaka Miyazaki e al genere “soulslike”; e per chi ora si stia chiedendo chi sia costui o cosa diamine io abbia scritto, beh, forse allora dovete livellare ancora un pò!