“Forse moriremo, ma almeno lo faremo da uomini liberi“
Tutta l’essenza del racconto racchiusa in una frase semplice quanto potente.
Peter Weir ci regala un film d’altri tempi, ci prende per mano e ci accompagna in un viaggio memorabile, il dramma di un gruppo di persone in fuga da un gulag siberiano, sullo sfondo del secondo conflitto mondiale, un cammino che diventa rinascita e riscoperta di sé stessi.
La via intrapresa e le traversie personali, i pregiudizi e gli obiettivi comuni, tutto si intreccia e ammalia lo spettatore, tanto è profonda l’alchimia che si instaura a schermo da farci sentire protagonisti del viaggio.

La crudele bellezza dei paesaggi attraversati, dalle gelide vette del Tibet alle lande desolate del Gobi, fino alle rigogliose vallate dell’India, è cornice silenziosa di una narrazione curata, mai invadente, dal ritmo lento ma inesorabile.
Un viaggio silenzioso e struggente. Raramente una pellicola riesce a trasmettere nitida la sofferenza di un cammino incerto, la fatica fisica che riflette il dramma interiore, ogni passo è un pugno allo stomaco dello spettatore, appeso alla stessa flebile speranza di libertà che muove sommessamente la compagnia in fuga.
E bastano semplici parole dosate a fiato corto, gesti e sguardi impercettibili quanto potenti, per instaurare rapporti che vanno ben oltre la semplice solidarietà nel condividere assieme la via; legami tra fuggiaschi che diventano storie di vita vissuta, sconosciuti in grado di squarciare il velo dell’animo altrui e comprendersi, tanto non basterebbe un’intera esistenza per leggersi così nel profondo.

Una pellicola di rara bellezza che lascia un segno indelebile, in un cinema sempre più avvezzo agli artefatti digitali, una storia che rimette al centro della scena la fragilità dell’esistenza, il coraggio, e la solennità di una natura teatro indifferente delle sorti umane.
Un inno alla vita e alla libertà, un epico e commovente viaggio di ritorno a casa.